Pizzica meridiana

Cassano con altri intellettuali e artisti rilegge il singolare fenomeno andando oltre gli aspetti folcloristici e musicali

di Antonio Di Giacomo
da La Repubblica di Bari, 15/06/2002

C’era una volta la terra del rimorso, il Salento indagato da Ernesto De Martino. Adesso, invece, nel pieno ritorno in auge della pizzica a contrappuntare quel lembo di terra riarsa dal sole, a cavallo tra due mari, c’è un ritmo che, affiorato da un millenario passato e coniugato alle ragioni del presente, diventa ritmo meridiano. La pizzica, insomma, come metafore cultural-musicale di un diffuso e primordiale bisogno di comunità, risposta “mediterranea” alla crisi di identità collettiva generata dal pervasivo moloch della globalizzazione. “Il Ritmo meridiano: la pizzica e le identità danzanti del Salento” (pegg. 206, euro 14,50) è il titolo del saggio curato da Vincenzo Santoro e Sergio Torsello per le edizioni Aramirè. Volume quanto mai interessante, tra pochi giorni nelle librerie, raccoglie un coro di inedite riflessioni sul “movimento della pizzica”, fuoco centrale dell’identità forte della penisola salentina. Riflessioni che portano la firma di testimoni d’eccezione, una pattuglia di dieci intellettuali e artisti invitati a ragionare sulla portata di un fenomeno che, superati i sedimentati retaggi rituali della superstizione, non può essere più liquidato come fatto folcloristico o, piuttosto, stimolante sul piano musicale.
Quindi, il regista “pizzicato” Edoardo Winspeare, il sindaco in rock organizzatore della Notte della Taranta Sergio Blasi, l’etnologa già allieva e assistente di Ernesto De Martino Clara Gallini, l’etno-coreologo Giuseppe Gala, lo storico dell’economia Luigi Piccioni, il sociologo Maurizio Merico, l’americanista Alessandro Portelli, l’editore Roberto Raheli, l’antropologo Gianni Pizza e, dulcis in fundo, il sociologo barese Franco Cassano. Perché, in fondo, la parola “meridiano” racchiusa nel titolo del saggio non è certo un vezzo casuale. Così com’è poi funzionale al “gioco” di questo lavoro di ricerca collettiva, anche la citazione dagli “Scritti corsari” pasoliniani riportata in esergo al libro: «Gli uomini dovranno risperimentare il proprio passato, dopo averlo superato e dimanticato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza».
Quello che, d’altra parte, affermano i due curatori dell’operazione, Santoro e Torsello, nel loro scritto introduttivo, laddove individuano che «uno degli aspetti di maggiore novità nel “movimento della pizzica” pare dunque essere la rielaborazione di elementi della tradizione (quali ad esempio il dialetto, la musica e la danza etniche) in chiave identitaria». Parole assonanti a quelle del padre del pensiero meridiano, Franco Cassano, nel suo intervento “Danzare contro la solitudine”. «La pizzica non è un neocampanilismo regionale, ma – ammonisce il sociologo – una sorta di messaggio generale, essa cerca altre danze, anche quando sono nate altrove e sembrano non rassomigliarle. È per questo che il fenomeno non si lascia ricondurre nel vocabolario sofisticato di un’antropologia elegante e un po’ fatua, che si ferma proprio quando bisognerebbe partire. Certo l’identità è sempre una costruzione culturale, l’aveva detto già a chiare lettere Max Weber, ma che significa nell’epoca presente questo ritorno del bisogno dei marcatori d’identità? E soprattutto, se essa è una costruzione, come la si orienta? Appartenere non è una regressione, ma il bisogno di recuperare la nostra differenza non per chiudersi, ma per avere una propria voce nel grande incrocio di suoni e messaggi della comunicazione planetaria».
E se, come osserva polemico Cassano, «a lungo “tradizione” è stata una brutta parola», la chance è proprio nel reitepretare la tradizione in chiave diversa, poiché «non è più un’appartenenza repressiva che schiaccia e deforma, ma qualcosa che fa attrito rispetto alla disinvolta e leggera facilità della mercificazione, che, mettendoci tutto a disposizione, sembra allargare la sfera della nostra esperienza, ma in realtà la restringe, perché conosce solo il semplice gesto dell’ingoiare. D’altra parte questo ritorno della tradizione non è, come molti temono, la vittoria della nostalgia e della regressione, ma al contrario l’occaisone per un’idea della libertà più ricca e concreta, capace di affrontare le sfide della complessità. Questa idea di tradizione non stringe, ma allarga il nostro linguaggio, ci rende compiutamente uomini di confine. Una tradizione aperta è come un elastico, sembra un andare indietro, ma è solo un prendere la ricorsa, un rilanciare in un’orbita planetaria le voci di una terra, scoprendo che esse giungono più lontano delle deboli imitazioni delle storie nate altrove».
Ed è quello che accade, secondo Cassano, quando le notti salentine si accendono al vorticoso ritmo meridiano. «Il “tam tam” della pizzica – scrive – manda messaggi e aspetta risposte di tamburi lontani, cerca il confronto, permette incontri, aiuta a tematizzare un bisogno che non è solo quello dei cento piccoli comuni del Salento, una rete che era tale anche prima ancora che la parola diventasse di moda, un paradigma involontario del nuovo rapporto tra locale e globale. È forse stata questa arretratezza così irrisa negli anni Sessanta a porre oggi all’avanguardia questa penisola dai due mari».

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