Tricase 1935, la strage del tabacco

da l’Unità – di Alessandro Portelli

Ricordi e racconti di un pezzo di storia del Sud, la rivolta delle tabacchine a Tricase nel 1935. Se ne parla oggi al Centro sociale ex Snia Viscosa in un incontro organizzato dal Circolo Gianni Bosio. Intervengono Sandro Portelli, Erri De Luca, Alessandra Gissi e Vincenzo Santoro, curatore del libro «Tabacco e tabacchine nella memoria storica» (Manni editore, pp. 168, euro 13) della cui introduzione pubblichiamo un brano.

Ha scritto Luigi Chiriatti, uno dei protagonisti della ricerca sulla cultura popolare salentina, che quando per la prima volta venne a Tricase in cerca di canti di tradizione orale, qualcuno gli disse: a Tricase non si canta più dal tempo della strage del 1935, quando cinque persone furono uccise dalle “forze dell’ordine” durante una manifestazione di piazza contro la minaccia di trasferimento del tabacchificio dell’Acait.
Evidentemente, non è letteralmente vero: anche dopo una tragedia del genere, la vita non si interrompe, la cultura non tace, la memoria non sparisce. Ma è la potente metafora poetica di una memoria soppressa, di un silenzio imposto e interiorizzato. In tutto questo tempo, la tragedia del 1935 e il mondo da cui è scaturita hanno continuato a esistere nella memoria di chi c’è stato, nei racconti familiari (“parlo per sentito dire, dai racconti di mio padre…”, dicono). Adesso possiamo condividere e ascoltare quella memoria anche noi che non c’eravamo: la storia orale apre ai protagonisti uno spazio narrativo, offre un ascolto, un tempo, un canale di comunicazione, che aiutano le loro parole a uscire all’aperto e venire ascoltate. […]
La ricerca che presentiamo nasce da un’occasione e da un incontro. L’occasione è l’impegno del comune di Tricase per il recupero dell’Acait e la sua restituzione come spazio pubblico alla collettività: in un certo senso, il libro e la ricerca fanno per la memoria immateriale delle parole e delle canzoni quello che il recupero dell’edificio fa con la memoria materiale dei mattoni. L’incontro è quello di alcuni operatori culturali salentini – a partire dai curatori e poi dai collaboratori di questo libro – con il Circolo Gianni Bosio, una struttura autorganizzata di lavoro culturale con sede a Roma, che si occupa di musica popolare, di storia orale, di “conoscenza critica e presenza alternativa delle culture popolari”. […]
A Tricase, la notizia dello spostamento dell’Acait fa da detonatore a uno stato di ansia generato da eventi precedenti (la perdita di altre strutture pubbliche), ma forse anche da quella faticosa “normalità” di cui non si riesce a nominare la violenza ma la si sente sulla pelle. C’è chi ci va come a una festa (sono sempre molte le analogie fra le feste e gli scioperi, fa i pellegrinaggi e le occupazioni: le culture popolari trasferiscono da una situazione collettiva all’altra i gesti, gli stati d’animo, le modalità); ma in tanti ricordano, a simbolo di una festa avviata a farsi tragedia, che le luminarie del giorno prima erano state fatte a pezzi.
Una manifestazione, insomma, è un atto di comunicazione; ma non si danno interpretazioni univoche e rigide. Sono così le narrazioni popolari: contraddittorie, plurali, inafferrabili, sfuggono sempre alla razionalità semplificatrice che le narrazioni dominanti gli vogliono imporre. Sia l’inizio, sia la fine di quella giornata infatti sono dominati da narrazioni egemoniche che attribuiscono un significato solo a eventi che ne hanno molti.
A monte della protesta, infatti, stanno le tensioni fra gruppi dominanti: lotte di potere, forse tracce di sotterraneo, benintenzionato antifascismo. […] Ma quando la gente va in piazza, ci va con la propria storia e la propria rabbia […]. Ci vanno i maschi, ci vanno i “pazzi di testa,” ci vanno – se ci sono – gli antifascisti, il paese è percorso da un curioso e inspiegabile banditore col tamburo che non si sa chi l’ha chiamato… E il significato della manifestazione diventa altro da quello di chi l’aveva in qualche misura incentivata, perché quando le classi non egemoni parlano per conto proprio i conti sono altri.
Non ci vanno per opporsi al regime, ma il regime se lo trovano contro: qualcuno fra i dimostranti inneggia al duce e al re, ma i fascisti stanno mischiati coi carabinieri. Se c’è un tratto specifico di fascismo in questa storia, è la reazione condizionata per cui la presenza dei cittadini in piazza è di per sé un atto di sovversione, ogni “adunanza” è sovversiva, e quindi, che ci sia l’ordine o che un singolo perda la testa, si finisce inevitabilmente per sparare; che mirino a uccidere o che sbaglino la mira, il morto, i morti, ci scappano sempre.
Di qui, la sovrapposizione, a valle, dopo i fatti, di un’altra narrazione egemonica con un significato solo: è stata una manifestazione antifascista. Lo dicono la polizia e i carabinieri, ma anche gli antifascisti (le parole di Di Vittorio sulla “rivolta di Tricase”). Il problema è che questa fu e insieme non fu, una manifestazione antifascista: sia l’atto di assumerla dentro la storia dell’antifascismo politico, sia quello di negarle ogni valenza politica riducendola a una tardiva jacquerie hanno torto. Non fu nessuna delle due cose, fu tutte e due, fu di più.
La gente in piazza non si proponeva di rovesciare il regime o, come si dice ancora oggi con parole di allora, di “turbare l’esercizio delle funzioni di governo” e tanto meno di “sovvertire violentemente l’ordinamento economico costituito nello Stato.” Volevano solo assicurarsi di avere da mangiare. Ma il fatto di andarlo a reclamare in piazza viola un’idea di ordine come sinonimo di silenzio e di piazze vuote che si riempiono solo a comando, e diventa un atto intrinsecamente politico. […]
Nei giorni seguenti, a Tricase si può essere arrestati per aver fatto un capannello in piazza: ogni adunanza è sovversiva, si dà per scontato che nei capannelli si “parli male del partito,” l’atto stesso di parlare, nel regime del silenzio, è un atto politico e contrario al partito. Anche per questo, oggi che il silenzio non è più d’obbligo e che ancora resiste il diritto alla parola, è importante non perdere l’abitudine di utilizzarlo; e la storia orale, che invita a parlare e che ascolta chi parla, è anche per questo uno strumento di democrazia.
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