Le tensioni creative del Salento

Trasformazioni in vista per la «Notte della Taranta». Per superare il clamore pop della «pizzica»

Tutto è iniziato molti anni fa. Una storia che ormai ha assunto, nel corso del tempo, i colori acidi e visionari della leggenda lisergica. Lo scenario è ormai entrato nell’immaginario delle «subculture» italiane. I campi di tabacchi, le distese verdi, le masserie diroccate, due casse, un generatore e un mixer, qualche microfono per mettere in scena le prime dancehall del Sud Sound System, dialetto salentino e una «Giamaica interiore»; tradizione e modernità, il culto quasi ossessivo, maniacale, delle radici proiettate tra i suoni futuri della pista da ballo. La Notte della Taranta è nata qui, tra le casse devastate dai bassi profondi, tra i Technics traballanti e le rime di Gigi D., che cantava dello «spirito della Taranta» che lo possedeva. Ed è lì, nei primi anni `90, che si tessono nuovamente (e meravigliosamente) le fila di quel Salento folk revival che sembrava sino ad allora relegato tra le ballate bellissime del Canzoniere Grecanico Salentino che, lontano da ogni moda, continuava, sin dagli anni `70, la sua opera di divulgazione «sotterranea». Così, per le vie del reggae e dell’hip hop, che esortavano a trasferire l’orgoglio di essere neri nelle terre arse del Salento, inizia la conversione, l’attenzione per la musica popolare, per quelle «fonti» che si celano dietro le rime in dialetto di Don Rico ed suoi amici.

Il tramite è la danza, il luogo le sagre di paesi, lontane anni luce dalle aspirazioni, insieme pop e colte, che daranno vita alla Notte della Taranta. Sono i palchi delle feste come «La sagra dellu Mieru», dove succede che, di fronte a un pubblico misto di anziani contadini, nuovi rockers, agguerriti hip hoppers e un popolo variegato di turisti, il Sud Sound System si trovi a condividere lo stesso paco con il grande Uccio Aloisi, prima che il vecchio cantante venisse celebrato come «il Compay Segundo del Sud Italia». Ma era, quella una dimensione destinata ad uscire dai confini locali, grazie al pressante «nomadismo» culturale che le dance hall generavano.

Un popolo migrante di musicisti e appassionati, che confonde soavemente pizzica e hip hop, scampoli di tarantismo e ragamuffin. Complice il lavoro dello stesso Lapassade, di Piero Fumarola, docente dell’Università di Lecce, e del critico musicale Gianfranco Salavatore (che ha curato le prime edizioni della Notte) che provano a descrivere l’essenza di un «neotarantismo» che riscopre il valore edonistico, e ovviamente rituale della trance.

Queste sono le «radici» della Notte della Taranta, il più ambito festival etno-pop d’Italia, nato a Melpignano, Salento, nel 1998, su iniziativa del Consorzio dei Comuni della Grecìa Salentana e dell’Istituto Diego Carpitella. Il concerto è diventato il momento di espressione più alta del folk revival salentino, un evento che, complici le collaborazioni con musicisti che arrivano da mondi lontani (pensiamo a Stewart Copeland, nel 2003 e All’Orchestra Sinfonica della Provincia di Lecce nel 1991) ha fatto esplodere una scena che coniuga consapevolezza e voglia di ballare, la festa e uno sguardo rivolto al passato. Una forza che supera persino lo spettacolo emozionante delle 60 mila persone dell’estate 2004 (maestro concertatore Ambrogio Sparagna, ospiti, Franco Battiato, Francesco di Giacomo e Gianna Nannini), la consacrazione mediatica del potere devastante della pizzica. Musica, certo, ma anche parola, «furia del dire», per citare Lapassade.

Quest’anno, infatti, al grande concerto nel Piazzale del Convento degli Agostiniani a Melpignano, insieme all’Ensembe amorevolmente assemblato e diretto da Ambrogio Sparagna, è andato in scena un «laboratorio sulla poesia», voluto da Giovanni Lindo Ferretti, «La vera novità della Notte della Taranta – racconta Mauro Marino, poeta e agitatore culturale salentino con il suo laboratorio Fondo Verri – è nella domanda che Ferretti ha posto a 30 giovani scrittori in versi del Salento, se c’è ancora la necessità di alleviare le tensioni, le sofferenze, le ire, di celebrare, invocare, di far festa inventando parole, versi, sonetti, rime». Il workshop sulle rima ha provato a rispondere, partendo dagli scrittori della tradizione di questo lembo di Puglia, Bodini, Verri, Toma D’Andrea, filtrati attraverso un cut up in bilico tra Burroughs e il ritmo onirico ed evocativo della tamorra. E infine declamati in un processione su un carro trainato da cavalli di splendide e dimenticate razze locali che ha attraversato la folla, raggiungendo il palco dello spettacolo. Un piccolo contributo alla trasformazione, fortemente voluta del Sindaco culto di Melpignano Sergio Blasi, che vorrebbe, con il lavoro di una Fondazione dedicata a Diego Carpitella, far passare sullo sfondo il clamore pop della pizzica sino all’alba (senza per questo mettere da parte il concerto), per concentrarsi su una sorta di laboratorio in progress che apra, finalmente, le tensioni creative di questa terra alle suggestioni planetarie.

tratto da il manifesto
di PierFrancesco Pacoda

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