Le avventure di un turista dimezzato

In Salento sono venuto sempre nella strana veste di turista dimezzato: in visita di piacere, certo, ma ospite, e mai nella veste di ospite di riguardo bensì in quella di amico, di persona partecipe di affetti, di valori, persino di progetti. È successo all’inizio degli anni ‘90 tra Lecce e Torre Lapillo, è continuato a succedere poi tra Alessano, Gallipoli, Torre Vado. Continua oggi, spero continui in futuro.

Sono stato e sono in questo senso un privilegiato, ma probabilmente non del tutto a caso.

Sono stato un privilegiato perché il “gioco” del turismo prevede solo per pochi, o addirittura non prevede affatto, questo tipo di coinvolgimento profondo. Il visitatore, il viaggiatore è anzitutto un cliente, una persona cui elargire servizi, intendendo per servizi, nelle situazioni più sofisticate, anche una sapiente miscela di professionalità ricettiva, di beni culturali, di paesaggio, di affabilità e persino di connivenza. Ma sempre all’interno di quella che in larga misura resta una recita, in cui esistono un proscenio e un “dietro le quinte” nel quale restano occultati i trucchi del mestiere, l’immondezza o più semplicemente la banalità del quotidiano: ciò che, oggi più che in qualsiasi altra epoca, avvicina “pericolosamente” il viaggiatore-visitatore in cerca di alterità e il “nativo” rischiando di far naufragare il gioco stesso.

“Entrare” in Salento ha significato invece per me, e sin dal primo momento, entrare non in una platea, da spettatore di una recita, ma nelle case, dentro quel quotidiano nel quale si mescolano problemi di sussistenza e immaginario, memoria e aspettative, omologazione ed eredità di un passato irriducibile, cartoline pubblicitarie e problemi tremendi e di difficile soluzione, centri storici favolosi e periferie ributtanti, scogliere mirabili e spiagge orrendamente cementificate, slanci ideali e piccinerie, ambizioni e frustrazioni. L’occhio che tentava di fissare (turisticamente, appunto) lo sguardo affascinato soltanto sulle alterità veniva riportato costantemente all’intreccio contraddittorio di tutti questi elementi. E ho avuto sempre, per giunta, la fortuna di avere degli anfitrioni capaci di uno sguardo particolarmente appuntito e appassionato sulla loro terra, sul suo passato e sul suo presente. E ogni passaggio è stato memorabile, in tutti i suoi particolarile sue contraddizioni. Come mai mi è avvenuto altrove.

Ho d’altra parte il sospetto che questa mia fortuna non sia stata del tutto casuale. Le immagini che ho in mente di altri “visitatori” del Salento mi rimandano a situazioni non diverse dalla mia. Se il paragone mi è concesso, Ernesto De Martino che gira per le strade di Gallipoli, Pier Paolo Pasolini a Calimera che chiacchiera con Cosimino Surdo e Giovanna Marini che impara la “verità” del canto popolare da Mariuccia Chiriacò o che trent’anni dopo balla la pizzica nella sede del Menamenamò somigliano tremendamente ai miei tanti giri notturni per i paesi, alle tante cene, ai tanti incontri e concerti. Tutti incontri fortemente voluti da entrambe le parti, pieni di orgoglio ma anche di sincera curiosità da entrambe le parti, ricchi di calore informale e gravidi di possibili sviluppi a venire. È un Salento, questo, che conserva per una serie di fortunate coincidenze ma anche di tenaci volontà un formidabile patrimonio di alterità di ogni tipo ma sa o tenta, più o meno istintivamente, di lavorarci sopra. Comunicandolo, cercando di proteggerlo e tramandarlo, facendosi aiutare a comprenderlo e gestirlo in uno slancio generoso e qualche volta anche naïf ma talvolta miracolosamente efficace. Assai più che altrove.

Ho detto fortunate coincidenze e tenaci volontà.

La coincidenza fortunata è stata quella di una terra ancora non completamente devastata, bella, dai caratteri molto particolari e molto forti, di un mondo contadino non ancora del tutto cancellato e dimentico di sè, un po’ come immagino sia in Sardegna. Una terra dove può capitare di incontrare centri storici di smagliante bellezza anche in piccoli e sconosciuti paesi, immersi dentro un paesaggio di ulivi a trama compatta frutto di una tradizione produttiva e commerciale secolare. Dove può capitare di veder trasformare un concerto di professionisti organizzato dall’amministrazione comunale in una festa di piazza con tanto di questua spontanea, offerta di vino e ciambelle da parte del vicinato e prosecuzione a microfoni spenti, nel cuore della notte. Dove può nascere un’operazione complessa, raffinata e al tempo stesso candida come “Pizzicata”.

E proprio “Pizzicata” mi conduce alle volontà tenaci. Cosa sarebbe oggi questa memoria che pure c’è, cosa sarebbero queste pietre, queste piazze, senza l’andare per prove ed errori, cocciuto e in fondo umile, di questa strana intellettualità diffusa, apparentemente raccogliticcia e disorganica, sovente litigiosa, che in più di trenta anni ha cercato di mantenere un senso vivo e distinguibile alla parola “Salento”? Se e quando un giorno si solidificherà una memoria della costruzione un Salento scintillante di suoni e di visioni ma anche di orgoglio e di dignità, se possibile non totalmente ricoperto da una caotica crosta di cemento, non totalmente soggiogato dai prodotti e dalla lingua delle multinazionali e non totalmente dominato dalla politica-spettacolo, un posto d’onore in tale memoria dovrà secondo me essere riservato non solo ai grandi protagonisti contadini che oggi simboleggiano la ripresa nelle proprie mani del destino di questa regione, le Mariuccia Chiriacò, gli Ucci, i Gigi Stifani, le Simpatichine, le Marie di Nardò, non soltanto alle e agli “ospiti” che si sono identificati con i problemi e le aspirazioni di tanti uomini e donne di questa terra, gli Ernesto de Martino, le Giovanna Marini, gli Eugenio Barba, i Sandro Portelli, ma anche e soprattutto alle tante persone che hanno saputo lavorare modernamente e in modo non provinciale su questo straordinario patrimonio, fondendosi con esso, reinterpretandolo, comunicandolo, evitando che divenisse cartolina per turisti, saldandolo con il presente e con quanto veniva dal resto del mondo. E penso a Rina Durante, a Gigi Chiriatti, al Sud Sound System, a Edoardo Winspeare e (perché no?) ai curatori di questo libro, solo per fare fissare le prime immagini conosciute che mi vengono in mente.

Un paio d’anni fa mi è capitato di scrivere proprio su una storia di questo tipo, riguardante la mia terra e un patrimonio al cui centro c’è più l’opera della natura che quella dell’uomo e il lavoro di persone molto diverse, per estrazione e sensibilità, da quelle che ho appena citato. Una storia tortuosa, difficile, quella dei parchi naturali abruzzesi, eppure “di successo”, come dicono i giornalisti modaioli. Concludevo notando come quella storia, quello sforzo di costruzione di qualcosa di creativo e di bello, sottratto alla logica della sola appropriazione privata e della “facile” omologazione, radicato localmente ma pensato come patrimonio universale, era una storia, uno sforzo a rischio. I fatti, a pochissimo tempo di distanza, stanno purtroppo confermando i miei timori. Il caso di questo Salento che si riscopre, che vuol conservare ma si aggiorna, che riflette su se stesso ma che si apre, che resiste ma “rilancia”, mi pare simile. Ha anch’esso uno zoccolo evidentemente irriducibile e condizioni socio-culturali favorevoli a questa fioritura, ma è anch’esso legato soprattutto all’intelligenza, alla tenacia, al senso civico e alla capacità di apertura dei singoli protagonisti. E in questo senso costituisce una sfida aperta, da costruire giorno dopo giorno.

di Luigi Piccioni
pubblicato il 14/01/2005

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