Matteo Salvatore, la voce dal basso

Si è spento ieri all’età di 80 anni l’artista pugliese, poeta di tutti i diseredati e prototipo di tutti i cantautori italiani. Ma unico nel suo genere

di Marco Boccitto

dal manifesto del 28/8/05matteosalvatore

È morto ieri mattina uno degli ultimi eroi della nostra cultura popolare. Matteo Salvatore si è spento a Foggia, la città in cui ha abitato negli ultimi anni e che oggi ospiterà i funerali, alle 16.30 nella Basilica Cattedrale. Ottantenne, aveva festeggiato da poco il cinquantenario di una carriera atipica, irregolare, scandita da continue rivelazioni e incomprensioni, successi, apprezzamenti, entrate e uscite di scena parimenti discrete, perennemente sull’orlo di quel baratro ingrato che è il dimenticatoio della nostra cultura popolare. Una figura leggendaria emersa a margine del cosiddetto folk revival italiano, ma assai poco riconducibile a qualsivoglia «scuola». Destinato ad essere celebrato in seguito come prototipo del moderno cantautore, Matteo Salvatore inventò di fatto il neo-folk e la ballata neo-realista. Nonostante il legame viscerale con il suo Gargano, una vera e propria tradizione fu costretto a inventarsela, perché ai tempi in cui partì armato di registratore (glielo affidò il regista Giuseppe De Santis perché esplorasse i tesori del folklore locale) tutti in Puglia sembravano aver voce solo per le canzoni napoletane. Per contro «le sue parole – disse una volta Italo Calvino – noi dobbiamo ancora inventarle». Era un linguaggio esclusivo, il suo, di quelli che non si affinano studiando (se non con un maestro ultracentenario cieco) o tendendo l’orecchio ad altri modelli, eppure perfettamente comprensibile a tutti nella sua detonante dimensione poetica e nella sua arguzia, perché privo di qualsiasi compiacimento intellettuale o sentimentale. Tutto quello che cantava, lasciato traspirare dagli arpeggi vaporosi della sua chitarra, lo aveva semplicemente e intensamente vissuto: la miseria nera patita nell’infanzia, la pasta nera voracemente apprezzata, la camicia nera sbeffeggiata a suo tempo, i mille torti e taglieggiamenti subiti poi dall’industria dello spettacolo e i mille espedienti inventati per sopravvivere. Con dolce amarezza e un fatalismo apparente quanto imprecante, che non escludeva la lotta per il cambiamento.

Matteo Salvatore cantava tra l’altro È proibito, Lu bene mio, Sempre poveri, Pasta nera, Faciteve li cazza vostra, Li chiacchiere di lu paese, Fra me e te, Cane e gatto… Melodie scolpite nella pietra e fatte volare da un lirismo profondo, una voce orientata verso il registro alto ma mai sguaiata, velata anzi da una garza di disperazione, una sfumatura dolce e dolente, di incurabile tatto e consapevolezza. Canti d’amore e di sdegno, di miseria e di rivolta, ballate aneddotiche innervate da un’ironia contundente. Si portava tutto dentro con aggraziata indignazione, l’orgoglio dei diseredati, le disillusioni del nostro Meridione, la fame «che si poteva tagliare col coltello», i pochi soldi guadagnati in fretta con la tv e ancor più frettolosamente sperperati, le foto ricordo, i premi e i tradimenti, le brucianti storture sociali di una Puglia che all’epoca era molto poco conosciuta, il destino di emigrazione e sfruttamento.

Fu definito di volta in volta poeta-contadino, artigiano del folk, genio analfabeta, cantastorie informale. Per Ignazio Buttitta tutti si potevano copiare tranne lui, «perché è una creazione continua». Concetta Barra adorava «quella voce, quel falsetto, quel supplizio de lu soprastante… Insomma – diceva – Matteo quanne piglia `a chitarra te fa vede’ u paravise». Eugenio Bennato lo definì «un crocevia fra la poesia e la terra», autore di una musica «che dai toni bassi sale molto in alto per guardare tutta la realtà del mondo». Per Pino Daniele era semplicemente «il più grosso fenomeno musicale italiano», interlocutore ideale per quello che lui definisce «dialogo mediterraneo». Goffredo Fofi ha descritto le sue interpretazioni in termini di «esperienza indimenticabile: il confronto diretto con un poeta antico e modernissimo, che ha saputo cantare i riti e le stagioni, l’amore per la vita e le sue gioie, la fatica e l’ingiustizia….».

Tra quelli che hanno avuto orecchie per le sue canzoni, parole importanti per la sua arte e sentimenti di profonda amicizia per la persona ci sono anche Vinicio Capossela, Teresa De Sio, Daniele Sepe, Francesco Guccini, Otello Profazio, Renzo Arbore e tanti altri. Tutti pazzi di lui e del suo irriducibile stile libero. Oggi, chiunque lo abbia amato, non può non associare all’immagine della sua scomparsa quella di un’antica biblioteca che se ne va, divorata dalle fiamme.

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