La California italiana si gioca il futuro sull’high tech

Ricerca, turismo e agroindustria le carte vincenti.

Lecce è pensata e costruita per stupire. I ricami della natura e quelli degli architetti del barocco sembrano uno il significante dell’altro, come se a un esercizio di stile irripetibile – la penisola salentina è un oceano di luce, la corsa di uliveti piantati su una terra rossa e grassa che d’improvviso precipita nelle acque maldiviane dello Jonio e dell’Adriatico – ne fosse seguito uno terribilmente più umano ingaggiato dai nobili spagnoli e dai gesuiti per volere dei Borbone e di Dio. Due poteri con una concezione così elevata di sé e della loro missione in questo mondo che scelsero senza indugi di essere rappresentati da un barocco che intimidisce prima e ammutolisce poi. Un infinito gioco di colori che come riflettori una volta scivolano sulle ghirlande in rilievo sorrette da angeli, un’altra sfiorano i putti e poi rimbalzano sulle figure grottesche attorcigliate ai capitelli.

Le grotte in cima. Da tanta bellezza non ci si può allontanare per sempre. E forse è per questo che i salentini se ne vanno con i piedi ma mai con la testa. Il mal di Salento s’insinua anche in chi salentino non è. Una dipendenza agitata simpaticamente da questi pugliesi che possono invitare lo straniero a passare una serata in uno dei paesini adagiati sulle acque trasparenti dell’Adriatico con una battuta che è quasi un manifesto di insularità.

«Dopo di noi c’è solo l’Albania», dice divertito Gigi Costa, un commerciante di Casarano che ogni estate celebra l’innamoramento nei confronti della sua terra in una villa di Marina di Novaglie, un incastro di terrazze inframezzate dalla pietra di tufo bianco con in cima una grotta popolata d’inverno da innocui pipistrelli e d’estate da villeggianti in cerca di frescura stupiti e divertiti pure loro da questo spettacolo nello spettacolo.

Le grotte, che altrove stanno sottoterra, nel Salento sono in cima. Senza scomodare Platone, un capovolgimento della prospettiva che forse spiega quello che Giovanni Pellegrino, ex Presidente della Commissione parlamentare Stragi e da due anni presidente della Provincia di Lecce, chiama «l’autocompiacimento dei salentini». Una concezione di sé che qui coltivavano quando il resto d’Italia confondeva il Salento col Cilento (la fascia costiera a sud di Salerno), quando pure i bollettini meteorologici indicavano come “Puglia meridionale” quella che per tutti è diventato il Salento, terra della Notte della Taranta, un festival che dal 10 al 26 agosto di ogni anno declina nel linguaggio universale della musica le ricerche antropologiche di Ernesto de Martino, che nel saggio “La terra del rimorso” consegnò al mondo degli studiosi la singolare mescolanza tra razionalità e magia di questa zattera persa nel mare nostrum, l’unione della fascinazione stregonesca con lo spirito religioso da cui è nata la civiltà moderna.

Durante la notte della Taranta, tutti i paesi della Grecìa salentina, fino a trent’anni fa la zona più povera del Salento e d’Europa, si trasformano in un grande palcoscenico all’aperto: balli, melodie e jam session al ritmo del tamburello, suoni ripescati dalla tradizione rurale del ballo della pizzica, quando le contadine, provate da una vita di lavoro durissimo e da troppe negazioni, davano di matto. La credenza popolare attribuiva quell’impazzimento alla puntura della tarantola. Per le “tarantate”, così le chiamavano, c’era solo una terapia: un ballo lungo una notte con sollecitazioni visive e sonore che attraverso uno stato di trance le liberava dal maleficio.

Segni d’avanguardia. Il grande cerimoniere del Festival è Sergio Blasi, sindaco di Melpignano e ex bibliotecario cieco a causa di una retinite pigmentosa. Blasi ironizza sulla sua condizione: «Un bibliotecario orbo è un paradosso, così come il potere del segno può diventare il segno del potere».

Di segni, Blasi se ne intende. Ora Melpignano è il quarto comune più ricco della provincia, ma fino a dieci anni fa viaggiava intorno al cinquantesimo posto. Il sindaco sintetizza l’impatto del turismo sulla Grecìa salentina: «Siamo passati da quaranta a 2.000 posti letto». E cita il 60% di raccolta differenziata, e un nuovo progetto per dimezzare i consumi di acqua potabile («L’acqua sarà il petrolio del futuro») come segni, pure questi, di una comunità che a guardare avanti ci ha preso gusto.

[…]

Aldo Moro, che era di Maglie, pochi chilometri da Lecce, risparmiò al Salento l’industrializzazione forzata di Brindisi e di Taranto. Un apparente ritardo che ora si è trasformato in vantaggio: le masseria perse in questa campagna dolcissima sono diventata il buen retiro di inglesi, tedeschi, americani e francesi.

[…]

Forse manca la sintesi, il gioco di squadra. «Dovremmo essere più scontenti di noi stessi», provoca Pellegrino. Un’esortazione che chi governa il territorio ha fatto propria. Sarà un’eredità della nobiltà spagnola, ma qui tra i politici c’è un certo stile, un dialogo sempre aperto tra destra e sinistra, che non ha mai conosciuto le risse e i colpi bassi di altre zone di questa regione o del paese.

Tutti riconoscono ad Adriana Poli Bortone, ormai alla fine del suo mandato come sindaco di Lecce, di aver ridato lustro ad una delle città più belle d’Italia. E, allo stesso modo, i territori di Lecce, Brindisi e Taranto, forse per la prima volta nella loro storia – cominciano a ragionare in una logica di sistema, progettando infrastrutture comuni e una strategia di sviluppo che coinvolga il Sud-Est della Puglia. Prove tecniche di efficienza e di dialogo della California italiana prossima ventura.

tratto da Polis – viaggio nelle città d’Italia: Lecce”, inserto del il Sole 24 Ore
di Mariano Maugeri
pubblicato il 15/05/2006

FacebookTwitterGoogle+WhatsAppGoogle GmailCondividi