Quando Alan Lomax cercava il blues nelle tonnare siciliane

A metà degli anni Cinquanta l’etnomusicologo Alan Lomax viaggiò per tutta l’Italia alla ricerca dei suoni della musica popolare. Dalla Sicilia al Monferrato registrò musiche e canti come aveva già fatto con gli afroamericani nel Mississippi e con i bianchi poveri degli Appalachi negli Stati Uniti. Tarantelle e zampogne sono così finite in un archivio che già conteneva Leadbelly, Jelly Roll Morton, Muddy Waters e Woody Guthrie. Nell’era della “world music” un libro racconta ora quella scoperta.

 

 

di Guido Caldiron

da Liberazione del 3 gennaio 2008

«Ricordo quel giorno quando portai il mio vecchio e malandato registratore Magnecord su una chiatta per la pesca del tonno, quindici miglia al largo del Mediterraneo limpido, blu. Da mesi nemmeno un tonno era caduto nella trappola sottomarina, e i pescatori non erano pagati da quasi un anno. Eppure intonavano a gran voce i loro canti intorno all’argano come se fossero davvero impegnati in una ricca retata: a un certo punto incominciarono a battere i piedi nudi sulle tavole, simulando le convulsioni mortali di una dozzina di tonni. Dopo, ascoltando la registrazione, applaudirono alla loro performance , come fanno tanti cantanti d’opera. I loro canti – i primi, credo, a essere registrati in situ – avevano solo due argomenti: i piaceri del letto che li attendevano a riva e l’infamia del proprietario della tonnara, che chiamavano pescecane ».

Nell’estate del 1954 Alan Lomax arrivò in Sicilia, portava con sé molta curiosità e molti progetti ma soprattutto un registratore portatile e chilometri di nastro vergine. Il ricercatore, considerato tra i fondatori dell’etnomusicologia, che aveva attraversato in lungo e in largo il sud degli Stati Uniti e risalito il fiume Mississippi alla ricerca delle tracce della musica popolare americana e delle origini del blues, aveva scelto l’Italia – i suoi antenati erano fuggiti dalla Lombardia al tempo della crociata contro gli Albigesi – per aggiungere un nuovo capitolo al suo straordinario archivio sonoro. Mezzo secolo prima del successo della “World music”, a decenni dalla nascita dei diversi “Canzonieri popolari” italiani, Lomax costruiva con le sue registrazioni un ponte tra la storia orale, la musica tradizionale e la sua futura testimonianza nell’industria della cultura e dello spettacolo. Un libro, appena pubblicato da il Saggiatore, Alan Lomax L’anno più felice della mia vita (pp. 238, euro 29,00), curato da Goffredo Plastino e che contiene una lunga testimonianza di Anna Lomax Wood, figlia del ricercatore, e una presentazione di Martin Scorsese, ricostruisce quella straordinaria vicenda a partire dal diario di quel viaggio redatto all’epoca dei fatti dallo stesso Lomax.

Alan Lomax era nato a Austin in Texas nel 1915. L’amore per la musica l’aveva appreso in famiglia: suo padre, il musicologo John A. Lomax era uno dei pionieri della ricerca sul folklore americano, tra i primi responsabili dell’archivio sonoro della Library of Congress di Washington. Negli Stati Uniti anche la musica e la tradizione orale hanno infatti giocato un proprio ruolo all’interno della national building del paese. A soli diciott’anni Alan Lomax si trovò così ad accompagnare il padre durante le sue ricerche sul campo in giro per gli Usa. Tra il 1933 e il 1942 avrebbe viaggiato in lungo e in largo in particolare nel sud degli Usa, per registrare musiche e canti sia dei “poveri bianchi”, quelli che vivevano nelle zone depresse dei Monti Ozark o degli Appalachi, tra Kentucky e West Virginia, che dei discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. Insieme al padre raccolse i suoi primi documenti sonori nei penitenziari e nelle contee rurali del sud, in Stati come la Louisiana, il Mississippi, il Tennessee, l’Arkansas, le Caroline e lo stesso Texas. Da quell’esperienza Alan Lomax avrebbe tratto più tardi il suo La terra del blues, un magnifico libro di viaggio alle origini della musica nera scritto lungo il Delta del Mississippi, pubblicato nel 2005 da il Saggiatore.

Nell’interesse che i Lomax mettevano nello studio di queste tracce di una cultura popolare che il progresso economico e sociale stava lentamente cancellando, c’era anche la considerazione che si trattasse di una narrazione dello sfruttamento e della marginalità a cui era stata sottoposta una parte della popolazione americana. Far emergere questa memoria legata a sottoculture locali, o “stigmatizzate” come nel caso del blues cresciuto nelle carceri delle ex zone delle piantagioni di cotone, significava per loro testimoniare la realtà delle diseguaglianze sociali e l’oppressione esercitata dalla cultura dominante. Ciò non gli impedì di diventare nel 1937 il primo dipendente remunerato dall’American Folklife Center, l’archivio sonoro della LIbreria del Congresso a cui si deve la diffusione su disco dell’immenso patrimonio delle musiche tradizionali americane. Ma Lomax sarebbe anche andato oltre questo compito, trasformandosi nella prima figura di esploratore internazionale delle musiche popolari, fino a legare il proprio nome a un archivio sonoro “globale” con musiche raccolte e registrate in tutto il mondo. L’uomo che aveva scoperto il blues nelle galere del profondo sud degli States arebbe raccontato così la vita, il lavoro e i sogni di milioni di persone attraverso i nastri di un registratore.

Alan Lomax era vicino agli ambienti sindacali e al Partito Comunista Americano, un motivo sufficiente per destare l’interesse dell’Fbi che decise di metterlo sotto sorveglianza già negli anni Quaranta. Nel saggio di Plastino, che costituisce l’ossatura de L’anno più felice della mia vita , è citato un breve rapporto dei “federali” in cui il ricercatore è descritto come «un individuo molto strano: si interessa soltanto di musica folk (…) Non dà alcun valore ai soldi, usa la sua proprietà e quella del Governo con negligenza, praticamente non si cura del suo aspetto». Così, quando nel giugno del 1950 il maccartismo si abbatte su Hollywood e sul mondo dello spettacolo americano con la pubblicazione del “Red Channels”, il pamphlet che contiene i nomi di 151 artisti sospettati di attività antiamericane e di simpatie comuniste, non stupisce che Lomax faccia parte della lista nera. Il suo lavoro di ricerca sulle canzoni di protesta, la sua collaborazione con Pete Seeger e Woody Guthrie e con i gruppi musicali vicini al sindacato United Federal Workers destano sospetti agli occhi delle autorità nel pieno della crociata anticomunista. E’ allora che arriva a Lomax la proposta che lo porterà in Italia e gli farà continuare anche a livello internazionale il lavoro di ricerca iniziato negli Stati Uniti.

Goddard Lieberson, presidente della Columbia Records incontra per caso Lomax in un caffè di Broadway nel settembre del 1950. Al primo interessa sostenere il lancio del 33 giri, il long playing apparso alla fine del 1948 che si imporrà sul vecchio 78 giri, con idee che ne possano mostrare l’utilità e la commerciabilità. Lomax sta invece cominciando a immaginare la pubblicazione di una collana discografica dedicata alle musiche del mondo. Il risultato di quell’incontro sarà la nascita di una prestigiosa collana, la “Columbia World Library of Folk and Primitive Music” il cui primo disco sarà pubblicato nel 1955. Lo stesso anno della fondazione negli Usa della Society of Ethnomusicology.

E’ su queste basi che Alan Lomax parte per l’Europa: sarà prima in Gran Bretagna, dove troverà un finanziamento della Bbc per le sue ricerche in Italia, quindi in Spagna e nell’estate del 1954 arriverà nel nostro paese. In viaggio con lui per le regioni italiane ci sarà Diego Carpitella, all’epoca assistente alla direzione del Centro Nazionale di Studi sulla Musica Popolare di Roma, e poi per lunghi anni docente di Etnomusicologia alla Sapienza, che con Ernesto de Martino, tra il ’52 e il ’58 raccolse più di 5.000 canti popolari italiani. Nel corso delle sue ricerche, oltre a centinaia di braccianti, pescatori, mondine a interi paesi e comunità, Lomax avrebbe incontrato intellettuali come Luciano Berio, Alberto Moravia e Vittorio De Seta. Tutto nello spazio di pochi mesi. «Il viaggio – racconta infatti Plastino – incomincia in Sicilia, nel luglio del 1954: la prima seduta di registrazione avviene a Sciacca (Agrigento), il 2 luglio. Il 25 luglio Lomax e Carpitella iniziano a registrare in Calabria, dove rimagono fino al 6 agosto. Dopo qualche giorno di pausa, riprendono il viaggio dal Salento (12 agosto) e risalgono la Puglia fino al Gargano (25 agosto). Il 18 settembre registrano in Friuli. Dal Friuli Lomax e Carpitella si muovono verso ovest: sono in Lombardia nella terza decade di settembre, pochi giorni dopo si trovano già in Piemonte (28 settembre): per poche ore si recano in Val D’Aosta (3 ottobre), e da lì scendono nel Monferrato. Finite le registrazioni in PIemonte, Carpitella rientra a Roma e Lomax va in Liguria (fino al 15 ottobre), poi in Veneto (fino al 3 novembre), in Romagna e in Emilia (novembre). Si sposta rapidamente dalla Toscana all’Abruzzo, dalle Marche al Lazio e da lì in Umbria; ritorna anche in Toscana (fino al 20 dicembre). Il 31 dicembre registra a Positano (Salerno), e fino al 13 (o 15) gennaio 1955 rimane in Campania, dove il viaggio si conclude».

Per Lomax è la scoperta di un mondo, per quelli che lo incontrano l’arrivo di una specie di mito – l’americano con il registratore nei paesi della campagna e della montagna della provincia italiana. «A volte i sindaci dei paesi che visitavamo facevano sapere allla gente del luogo che un americano sarebbe arrivato per registrarli – scrive Lomax – e ciò in un paese creò una situazione davvero pericolosa, data l’estrema povertà di quel periodo. La notizia era andata in giro, e quando arrivammo nella piazza principale una folla di quattro o cinquecento persone era lì ad accoglierci. Molti incominciarono a battere i pugni sugli sportelli del furgone, chiedendo di essere immediatamente ascoltati dal ricco americano…».

Dopo venticinquemila miglia percorse e centinaia di ore di registrazione, Lomax e Carpitella disponevano di un materiale eccezionale che sarebbe stato all’origine di una decina di dischi, di una serie radio trasmessa dalla Bbc, e di una sorta di archivio rimasto a tutt’oggi ineguagliato. Anche perché, come lo stesso Lomax notava in quei giorni, le cose stavano inesorabilmente cambiando: «Molti musicisti nelle città italiane considerano le canzoni dei loro colleghi di paese con un’avversione sempre più intensa, tanto forte quanto quella che gli afroamericani della classe media provano per le genuine canzoni folk del profondo sud degli Stati Uniti».

Eppure quella musica, proprio come era già accaduto con il blues per gli afroamericani, raccontava molto della società italiana, una società che attraversava allora una delicata fase di passaggio dal mondo agricolo al pieno sviluppo industriale e metropolitano. «L’hanno chiamata età dell’ansia, ma forse sarebbe meglio definire la nostra epoca “secolo del blues”, in onore del malinconico genere musicale nato intorno al 1900 nel Delta del Mississippi. Il blues è da sempre un modo di essere, prima ancora che un tipo di musica. Una volta Leadbelly mi ha detto: “Quando la notte sei sdraiato a letto e comunque ti rigiri stai scomodo, allora vuol dire che t’ha preso il blues». Un tempo questo accadeva solo ai neri nel Profondo Sud degli Stati Uniti: oggi, invece, succede in tutto il mondo», scriveva Lomax ne La terra del blues , prima di aggiungere: «Oggi tutti cantano e ballano musica ispirata al blues e il vecchio fiume possente del blues scorre nell’orecchio del pianeta. Il blues è diventato il genere musicale più familiare a tutto il genere umano perché tutti cominciano a sperimentare la stessa malinconica insoddisfazione che appesantiva i cuori dei neri del Delta del Mississippi, la terra in cui è nato il blues: un senso di anomia e alienazione, l’assenza di radici e di antenati; la sensazione di essere merci più che persone; la perdita di amore, famiglia e luogo d’origine. Questa sindrome moderna era la norma per i coltivatori di cotone e per i lavoratori stagionali che un secolo fa vivevano al Sud».

Così, dal suo viaggio nel nostro paese Alan Lomax, traeva la fotografia di una società che parlava per mezzo della musica: «La maggior parte degli italiani – non importa chi siano o come vivano – ha una passione per l’estetica – scriveva il ricercatore nel suo diario – Magari hanno soltanto una collina rocciosa e le mani nude per lavorare, ma su quella collina costruiranno una casa o un intero paese le cui linee si armonizzano perfettamente con il contesto. Allo stesso modo una comunità può avere una tradizione limitata soltanto a una o due melodie, ma sa esattamente come debbano essere cantate». «L’espressione sui volti di questi cantori è tesa e dolorosa. Non sembrano cantare, ma gridare e lamentarsi come abbandonati a un’angoscia che dà tormento – concludeva l’etnomusicologo, sintetizzando in un’immagine il senso di ciò che aveva visto e documentato con i suoi nastri – Le ciglia sono aggrottate. i muscoli facciali sono tesi all’altezza degli zigomi, il volto e il collo sono arrossati per la tensione, le vene e i muscoli del collo sono in rilievo, come se invece di cantare stessero sollevando dei pesi. Possono intonare i loro accordi solo urlando così: quando chiesi loro di ripetere un verso a bassa voce, l’armonia andò in pezzi e non riuscirono a ricordare la melodia».

FacebookTwitterGoogle+WhatsAppGoogle GmailCondividi

Lascia una risposta