la “pizzica commerciale” di Ascanio Celestini

Ascanio Celestini

Ascanio Celestini

Riporto un’interessante intervista ad Ascanio Celestini, apparsa su Liberazione di ieri, in cui si parla, tra le altre cose, del revival della pizzica e dei corsi in cui si insegna la danza del Salento, che Celestini giudica in maniera molto negativa. Non c’è dubbio che il tema sia effettivamente controverso, ma bisogna dire che dalle sue argomentazioni traspare chiaramente la (solita) confusione tra la danza terapeutica del tarantismo – che, in quanto connessa ad un preciso rituale, ad essere “insegnata” perderebbe completamente di senso – e la “pizzica-pizzica”, che invece nella tradizione è una danza ludica, gioiosa, usata nelle occasioni di festa, senza implicazioni “rituali”. Dato che nei corsi “seri” si insegna proprio la pizzica-pizzica, e si sta molto attenti a sollecitare cautela e rispetto nei confronti del fenomeno storico del tarantismo, mi sembra di poter dire che Celestini sbaglia completamente bersaglio. Forse – mi si permetta la battuta – anche a lui non farebbe male frequentare uno di questi corsi.

Non mi convince però nemmeno l’idea che qualunque tentativo di inserire frammenti di cultura popolare in circuiti di fruizione più ampi li “faccia morire”, oppure sia semplicemente commercio. A mio avviso il problema reale riguarda il come si fanno queste operazioni, quali sono le motivazioni di fondo, con quali strumenti ecc (tra parentesi, anche al teatro di Celestini, che a me personalmente piace moltissimo, si potrebbero fare questo genere di critiche…).

Comunque: neanche a farla apposta, l’intervista è uscita domenica 30 marzo, proprio mentre si stava svolgendo uno di questi famigerati corsi. Ne abbiamo discusso, ed è emersa una domanda: se non si può spiegare il sapore del caffè senza assaggiarlo, come si può capire la pizzica senza ballarla? Ai posteri l’ardua sentenza.


Politica, storie e caffé. Le opinioni di un antropologo del precariato
di Angela Mauro
da Liberazione di domenica 30 marzo 2008
Se vuoi sapere com’è il caffé, lo devi assaggiare. Prima di parlare di precarietà, devi averla provata. Autorganizzazione? Vai a vedere come funziona il “No Tav” in Val di Susa o il “No dal Molin” a Vicenza, ma vacci, prima di parlare. Esperienza, nulla esiste al di fuori di essa. Parola di Ascanio Celestini, 36 anni, dagli studi di antropologia al teatro, il cinema, la musica, la ricerca. Con un obiettivo o almeno un tentativo: evitare il furto dell’esperienza altrui, l’accaparramento per fini commerciali del canto popolare, della musica, delle storie. Che siano quelle dei padri durante la guerra o quelle dei figli nell’era del precariato di vita e lavoro.

Quanto si può elaborare dall’antropologia…
L’antropologo ha di fronte a sé un grande problema. Nel momento in cui prende una zappa antica, la mette in un museo o la racconta all’università, quell’oggetto muore perchè strappato alla sua funzione: una zappa che non zappa non è zappa, si chiama zappa proprio perchè zappa, figuriamoci! La vanga, la zappa, la falce: l’oggetto stesso è il verbo che indica l’azione e, senza l’azione, l’oggetto diventa un inutile pezzo di ferro. Stessa cosa per un racconto, un canto. Quando registro il canto di una contadina o la vera Tarantata, nel Salento degli anni ’60, il nastro che produco è morto, al massimo è un prodotto commerciale, quello che è la pizzica oggi… Il grande problema è questo: l’antropologo lavora su un materiale vivo. Appena lo prende in mano, lo uccide.

Inciso: “Pizzica commerciale”, fioriscono le scuole che insegnano a ballarla. Vale una riflessione.
Come se ci fosse una scuola che insegni a prendere la comunione. La messa per chi ci crede è un rito, non è un atto teatrale. Nessuno può pensare che un prete stia male vestito di bianco, nessuno può pensare “allora mettiamogli i jeans”. Perché? Perchè quello è un rito. Nessuno può dire l’ostia “mi si attacca al palato, meglio il formaggio”, perchè quello è il corpo di Cristo, non è come se fosse il corpo di Cristo, lo è proprio per chi ci crede, per chi non ci crede non è niente. Non c’è via di mezzo. Per tornare alla musica: Teresa De Sio ha fatto uno spettacolo bellissimo con il grande Matteo Salvatore, ma nella cavea di un auditorium quella non è più cultura orale…

Come curare la cultura orale, evitando scempi?
L’antropologia è filosofia estetica, un modo per entrare nell’esperienza. E’ quella cosa per cui: nessuno ti può spiegare il sapore del caffé, lo devi assaggiare. Nulla sta fuori dall’esperienza. Ma da antropologo mi sembrava di fare un lavoro da killer, affascinante solo per me. Il teatro fa in modo che del materiale nato come orale torni a vivere nella oralità. E’ stato naturale avvicinarmici e grazie al teatro è stato naturale tornare alla ricerca. Quella sui manicomi, parlo di “Pecora nera”, o sui racconti di vita nella II guerra mondiale, parlo di “Scemo di guerra”. Ora sono tre anni che lavoro sulla precarietà, sempre con interviste. “Parole sante” è parte di questo lavoro, quest’estate ne scriverò un romanzo. Poi, sono due anni che porto in giro gli “Appunti per un film sulla lotta di classe”, lavoro in corso che cambia continuamente cercando di raccontare la condizione dei lavoratori: la precarietà.

“Lotta di classe”, tema di questa campagna elettorale. Veltroni la nega, che idea ne hai tu?
E’ una grande aspirazione, l’alternativa è una società con la guerra civile. La lotta di classe presuppone una coscienza di classe, che oggi manca. Tra mio nonno contadino e il suo padrone la differenza non era solo economica, ma culturale: appartenevano a culture e classi diverse. Tra il giovane precario e il figlio di Berlusconi, la differenza non è culturale, ma di natura economica. Lì dove viene meno la differenza culturale, l’odio del povero verso il ricco si basa sulle risorse economiche. E senza una coscienza di classe il mio odio nei tuoi confronti è che arrivo a casa tua e “te rompo tutto”: è violenza che molto spesso scaturisce da un bisogno inconsapevole.

Lotta di classe come forma di educazione contro la barbarie?
Alla fine della seconda guerra mondiale, nella mia borgata, il Quadraro, non vennero denunciati i fascisti dai comunisti perchè era più forte l’appartenenza alla classe sociale che non l’appartenenza ideologico-politica. Se uno chiedeva: quello era fascista, perchè non l’avete denunciato? La risposta era: perchè era del Quadraro. Era diverso: che io ero un proletario lo sapevo, anche se non conoscevo Lenin.

Adesso non è più così?
No perchè siamo diventati consumatori e non parlo banalmente di tv o maionese, ma di prodotti culturali. Quando mio nonno contadino cantava una canzone pur non conoscendone l’autore, perchè magari l’autore era ignoto, diventava portatore di quella cultura orale: quella canzone apparteneva a tutti. Oggi, quando canto un brano di De Andrè, canto la “sua” canzone, la acquisto come la maionese al supermercato o come un peperone di altissima qualità anche se è promosso dallo Slow food.

Significa che c’è un distacco tra l’essere umano e le cose di cui vive, tutto compreso?
Dobbiamo ricostruire quello che siamo. Oggi siamo totalmente subordinati al mercato: anche in Africa i nativi sono vestiti Nike e Diadora, di seconda mano. Dobbiamo ricominciare a riscoprire la cultura che ci appartiene. Un modo importante per farlo è l’autorganizzazione. Succede a Vicenza contro la nuova base Usa, in Val di Susa contro la Tav: un gruppo di persone, a prescindere dall’appartenenza politica, ha deciso di agire direttamente. Un partito-guida che faccia la rivoluzione? Non funziona così…

Il partito…
Sì, non credo che serva il partito. Le istituzioni della politica si devono riorganizzare. La sinistra, in particolare, dovrebbe pensare meno agli scenari…

Cioè?
Dovrebbe andare a vedere come vanno le cose per davvero. Per capire come deve essere organizzato un partito non serve sedersi intorno a un tavolo. Si vada a vedere come funziona il coordinamento No Tav in Val di Susa: è lì che sta succedendo qualcosa nella politica in Italia, non dico che risolverà i nostri problemi ma è un punto di partenza. La precarietà? Vai a vedere come lavorano i precari. Come dicevo prima del caffé: per sapere com’è, va assaggiato.

Vuoi dire che a questa sinistra manca l’esperienza?
Il grande valore del sindacato degli anni ’50 e ’60 è stato proprio lo stare nei luoghi di lavoro, il conquistarselo e in quegli anni venivi licenziato se eri un sindacalista. Questo dovrebbero fare i partiti, pur nel rispetto dell’autonomia dei ruoli. Altro esempio, emergenza casa: non servono gli scenari, si vada a vedere come e dove le cose funzionano, i movimenti lo stanno facendo.

Tu però partecipi alle iniziative della sinistra, ti vedo a tuo agio…
Parlo di contenuti, non faccio campagna elettorale, non ti saprei nemmeno dire se vado a votare. Ma non penso sia importante…

Sinistra ed esperienza, connubio un po’ difficile da una posizione di governo?
Vedo che la Sinistra Arcobaleno non pensa sia indispensabile stare al governo. Del resto, mezzo secolo di governo Dc e di opposizione comunista ha dimostrato che stare all’opposizione non significa non governare il paese. Non è la posizione che fa la politica. Poi può sempre succedere, come è successo al Pci, di non comprendere le lotte degli anni ’70, pur dall’opposizione. Miopia, confermata anche oggi che pure a sinistra si usa un’unica frase: condanna del terrorismo, solidarietà coi parenti delle vittime. Non l’accetto, il fenomeno va indagato…

Non pensi che la generazione ’68 sia stata un po’ sconfitta?
Chi è diventato direttore di un giornale o di un tg o lavora in una multinazionale, beh non penso sia stato sconfitto… Gli è andata molto peggio a chi si è fatto trent’anni di galera, così a occhio…

Intendevo le aspirazioni…
La storia delle lotte per i diritti sul lavoro e i diritti civili è anche una storia di grandi sconfitte, di alcune piccole vittorie e di una coscienza che pian piano matura, ma va rimaturata e riconquistata ogni volta.

Forse dovremo riconquistare diritti che credevamo assunti: aborto, la Chiesa vorrebbe portarci indietro di 30 anni…
La Chiesa vive un complesso di inferiorità nei confronti dell’Islam, le sta sfuggendo la gestione di miliardi di persone. Il fatto è che anche chi va in chiesa usa il preservativo. Ricordo però un’intervista di Andrea Rivera: “Usi il preservativo?”. “No”. “Per la Chiesa?”. “No, perchè senza mi piace di più…”. In certe scelte non c’entra molto Dio e il Papa. Oggi la Chiesa sta facendo un lavoro di marketing: teme l’Islam come la Coca Cola teme la concorrenza dell’acqua. Pura difesa dell’imperialismo occidentale, cui collaborano i politici vicini alla Chiesa e a Ratzinger. Della serie, più siamo cattolici, più l’occidente ha un peso a livello globale. E funziona…

Anche sugli immigrati?
Eh sì. Un tunisino mi ha detto: “Mi chiamo Mimmo”. “Come Mimmo?”. “Sì tanto il mio vero nome non lo sai pronunciare… Mohammed”.

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