Col Sangue sempre vivo. Intervista ad Edoardo Winspeare

Sangue Vivodi Lucio Lussi

da Il Paese Nuovo, 5 marzo 2011

È del 1996 “Pizzicata” – l’inizio dell’ancora attiva “nouvelle vague” di Terra d’Otranto – nel 2000 venne “Sangue Vivo” ed Edoardo Winspeare, confermò la sua “podestà poetica” dando la stura al desiderio di Cinema, molto poi è accaduto…

Edoardo, la nascita di tua figlia ti ha tenuto lontano dalle scene per un po’. Cosa stai facendo adesso?

“Sto scrivendo una sceneggiatura ambientata nel Salento. È una commedia per il cinema, è mol- to divertente e uscirà nel 2012”.

Alcune indiscrezioni sul cast?

”Il cast sarà molto ‘locale’, con gente che va dal nord al sud della provincia, da Trepuzzi a Santa Maria di Leuca”.

Sei nato a Klagenfurt in Austria, hai studiato a Firenze, New York e Monaco di Baviera. Cosa ti porti dietro di questi posti?

“A questi aggiungerei altri luoghi, come Parigi, città nella quale ho vissuto due mesi per lavoro. Ogni posto mi ha toccato profondamente e mi ha lasciato dentro qualcosa. Ho la fortuna di avere una cultura cosmopolita e delle origini variegate. Per questo ho un’identità complessa e mi sento a tutti gli effetti un mitteleuropeo. Mio padre era un napoletano di origini inglesi e mia madre, invece, è nata a Vienna ed è cresciuta in Ungheria. Mia madre per parlare con il fratello usa l’ungherese, con suo padre il tedesco o il francese, con suo marito il francese e con i figli l’italiano o il francese”.

Com’è la vita a Corsano?

“Bellissima. Amo molto la vita di paese. I tempi sono molto lenti e mi piace ascoltare gli anziani che parlano in dialetto per strada”.

Nel 2010 hai realizzato il documentario “Sotto il Celio azzurro” (il 2 marzo è uscito il dvd), nel quale viene raccontata la normale vita quotidiana di una scuola materna romana multiculturale, che accoglie sia bambini stranieri che un piccolo gruppo di bambini italiani. Che tipo di esperienza è stata?

“Il Celio azzurro è una scuola molto speciale ed è la prima ad aver sperimentato negli anni Ottanta l’inserimento dei bambini extracomunitari. Nel Celio genitori e maestri collaborano alle attività della scuola e poi vanno tutti insieme in gita. E’ una scuola nella quale si lavora molto sulla fantasia e sulla reciproca scoperta dell’altro, e l’altro in questo caso è il povero, l’ateo, il musulmano. I bambini non avvertono le differenze come noi adulti, anzi, in questo modo, imparano subito che la differenza è una ricchezza”.

Nel 2008, invece, è uscito il documentario “La festa che prende fuoco”, che ripercorre la tradizione della festa di Sant’Antonio Abate a Novoli con il rito della focara.

“Si, è stato un lavoro commissariato dal Comune di Novoli. Alla fine la Fòcara diventa una metafora di divisione, di tutte le divisioni che imperano in Italia. Si litiga su tutto quando si parla della fòcara: deve stare qui!, no lì! È un casino! (ride). Si litiga anche sull’appartenenza della fòcara, se a Novoli o al Parco del Negramaro”.

Ci vai spesso al cinema e cosa guardi?

“Ci andavo spesso ma da quando è nata mia figlia ci vado molto meno. Guardavo di tutto”.

Un giudizio sulla situazione del cinema italiano.

“Ci sono in giro cose molto interessanti sia a livello commerciale che a livello autoriale. Mi vengono in mente Crialese, Garrone, Sorrentino”.

Tre film italiani degli ultimi anni che ti hanno colpito.

“Gomorra, Nuovomondo e La prima cosa bella”.

L’hai visto Qualunquemente di Antonio Albanese?

“Si, è una commedia che fa ridere e riflettere. Il personaggio di Cetto la Qualunque, però, è più da sketch, infatti non regge tutto un film”.

Non ti è piaciuto?

“Non dico questo, però è un film che non ha tensione drammaturgica. Il cinema è anche ricerca visiva, infatti i vecchi film erano visivamente interessanti. Nelle commedie italiane attuali, invece, la parte visiva non è curata e vengono privilegiate le scene buffe. Ma le scene non devono essere soltanto buffe, ma anche belle. Prendiamo ad esempio “O brother” dei fratelli Coen, è una commedia buffa e molto bella, così come “Il Sorpasso” di Dino Risi o “I soliti ignoti” di Mario Monicelli”.

 

Quali attori vorresti dirigere?

“Jeremy Irons, Javier Bardem, Benicio del Toro e Mariangela Melato”.

Tra i film ambientati in Puglia quali preferisci?

“La Capagira” di Alessandro Piva e “Tutto l’amore che c’è” di Sergio Rubini”.

Cosa ne pensi della Regione Salento?

“Non sono un sostenitore della Regione Salento. Proprio io che ho lavorato tanto nel Salento sono convinto che il Salento non abbia bisogno di confini per dichiarare la propria identità. Questa idea andava bene nel 1946 ma adesso siamo fuori tempo massimo. Ci sono alcuni “contro”: non si tratterebbe di una regione omogenea, perché ci sono posti come Fasano, Ceglie, Mottola, Castellaneta che c’entrano molto poco con il Salento, e Lecce potrebbe diventare più antipatica di Bari. E se poi Taranto si stufa e porta avanti spinte seces- sioniste da Lecce? Io sono contrario alle divisioni e mi dispiacerebbe non avere più a che fare con i baresi, il derby, gli sfottò. Noi leccesi, presi singolarmente, siamo un po’ lenti, la concorrenza con Bari invece ci stimola e ci risveglia l’orgoglio”.

In che modo possono circolare positivamente, allora, idee e progetti di Grande Salento?

“Bisogna lavorare sulla nostra identità culturale che non è statica, ma moderna e in continuo movimento, e poi su tutto quello che ci tiene davvero insieme, come la lingua, senza enfatizzare micro differenze che ci chiuderebbero in noi stessi. In passato, noi salentini non eravamo certi nemmeno di quale fosse la nostra identità, ora invece siamo convinti di essere “li meju”. Dovremmo lavorare sulla tutela dell’ambiente e del paesaggio, lottando contro ogni forma di abusivismo. Dovremmo attivare la creatività dei giovani, cap re di cosa hanno bisogno e cosa sognano. Potrebbero nascere tante cose, senza per forza dar vita a eventi. C’è la mania di far diventare tutto un evento o un Festival e raccogliere migliaia di persone. E, infine, è quasi tutto concentrato in estate, quando invece bisognerebbe pensare a febbraio e a novembre”.

Ma ormai in Salento l’offerta culturale è stata ampiamente destagionalizzata e non mancano eventi in tutti i mesi dell’anno…

“Si è vero, ma il Salento non è così idilliaco come viene dipinto. I nostri paesi sono molto belli ma spesso hanno periferie degradate e orribili. Dobbiamo lavorare sulla pulizia della nostra terra, sul decoro urbanistico, cercando di smaltire tutti i rifiuti e rendendo i nostri paesi ancora più belli e curati”.

Con le tue opere lavori a disincantare il Salento?

“Nelle mie opere racconto la mia terra, che ha al suo interno il bene e il male. Nei “Galantuomini”, infatti, da un lato c’è la bellezza dei territorio ma, dall’altro, c’è la Sacra Corona Unita. In “Sangue Vivo” racconto l’importanza della famiglia nelle nostre contrade… A mio avviso, il narratore non deve essere qualcuno che lavora al soldo dell’Ente Provinciale del Turismo. Non siamo abituati a leggere e scrivere, però ci scaldiamo se qualcuno fa vedere qualcosa della nostra terra che ci disturba. Io amo e odio il Salento e quindi racconto anche il brutto della mia terra, le luci e le ombre. Noi salentini siamo malati di retorica, e questo ci impedisce di vedere le cose in profondità. Molte cose vanno bene, ma non possiamo dire che tutto va bene. Siamo settari e malati di slogan, ma le cose sono più complesse”.

Secondo te il Salento è arcaico o moderno?

“Il Salento è arcaico e moderno. Per tante questioni siamo più avanti rispetto alle altre zone dell’Italia meridionale, ma su altre siamo terribilmente arcaici. La figlia di mia moglie ha 20 anni ma a volte dimostra di avere mentalità più arcaiche di sua madre. Si tratta di un arcaismo inconscio presente anche nei giovani. Ho l’impressione che i giovani stiano diventando più tradizionalisti e moralisti anche se indossano la kefiah. La modernità dei nostri territori è anche il frutto di alcune personalità politiche avvedute come Adriana Poli Bortone e Nichi Vendola”.

Qual è adesso il simbolo della Puglia?

“Nichi Vendola, nel bene e nel male. Mi piacerebbe però che passasse più tempo nella nostra regione. Sogno un paese fatto da persone che facciano il loro dovere. Nichi punta in alto e in parte è comprensibile”.

Potrebbe essere un buon presidente del Consiglio?

“Nei panni di premier vedrei benissimo Michele Emiliano, perché è grosso e molto simpatico. Emiliano premier e Vendola vicepremier che scrive i discorsi del premier, sarebbe davvero il massimo. Emiliano conta fisicamente e poi abbraccia le persone. È un orsacchiotto, piange e ride. È proprio una brava persona. La sinistra italiana dovrebbe avere soltanto facce gentili come Emiliano e Vendola, non come Bersani e D’Alema che sono tristi e arroganti”.

Quali sono i simboli del Salento?

“Senza dubbio Carmelo Bene, poi i martiri di Otranto e la squadra del Lecce?”.

E la taranta?

“Anche la taranta, certo”.

Dopo la morte di Pino Zimba e Uccio Aloisi, quale sarà il futuro della tradizione della pizzica salentina?

“Ci sono tanti altri gruppi validi, c’è Cavallo, Lamberto Probo, Gigi Toma. È finita la generazione delle persone che hanno vissuto la pizzica, ora è il tempo di chi l’ha imparata”.

Notte della Taranta. Evento commerciale o difesa della tradizione?

“Abbiamo bisogno di spettacolarizzazione ed è anche giusto per tenere viva l’attenzione. Il Comune di Taranto mi ha contattato per fare qualcosa per la Settimana Santa. L’intenzione dei promotori era quella di ritoccare la tradizione e spettacolarizzare l’evento. Ma io mi chiedo perché si senta questa necessità. Non è meglio lasciare la tradizione così com’è? Noi rischiamo di morire, ma la tradizione continua a vivere”.

Durante la presentazione del suo libro “Il ritorno della Taranta”, Vincenzo Santoro ha affermato che sul palco della Notte della Taranta gli artisti cantano come se fossero a Sanremo. E questo è un danno per la tradizione.

“Forse ha ragione Vincenzo, però è un discorso complesso e non c’è una sola risposta. Tutta l’Italia guarda al Salento grazie alla Notte della Taranta, e di questo va dato merito a Sergio Blasi e Luigino Sergio. Qualcosa va bene e qualcosa no. A me, sinceramente, piacciono di più i concerti del Festival, che non il concertone di Melpignano, che forse è diventato un po’ uno specchietto per le allodole”.

Quali sono le tue idee per rinnovare la macchina organizzativa della Taranta?

“Io ripartirei dalle feste di paese, organizzandole bene e coinvolgendo nei comitati organizzatori anche i giovani, che di solito sono esclusi dalla gestione dei paesi. Si dovrebbe tornare a consi- derare queste feste come il collante di una comunità. Se si perde il senso di comunità è la fine per i nostri paesi. In questo modo i giovani verrebbero coinvolti nel sociale, come abbiamo fatto noi con Coppula Tisa. In estate si cerca sempre la spettacolarizzazione e lo “squariu”, ma alla fine troppo squariu vuol dire noia”.

Se fossi assessore provinciale alla Cultura, cosa faresti?

“Tralascerei le estati per concentrarmi sugli inverni, le primavere e gli autunni. Poi, darei risalto alle questioni tradizionali, come le feste di paese e la banda. Me ne fregherei dei Festival e coinvolgerei i giovani. E infine farei conoscere il territorio ai salentini stessi. Anche questa è cultura”.

Avevi mai immaginato un Salento sulla ribalta nazionale e internazionale? Secondo alcuni stiamo perdendo spontaneità, freschezza creativa e genialità…

“Forse si. Di certo il Salento ha perso l’innocenza che aveva 15 anni fa. Ora tutti vengono in vacanza da noi ed è giusto che sia così. Il simbolo del Salento non può restare il contadino ingenuo di 20-30 anni fa. Potrei dire anche che ci siamo corrotti, e questo perché siamo diventati più occidentali, mentre prima eravamo soltanto meridionali. Questo percorso è iniziato con gli sbarchi degli albanesi e con la riscoperta della pizzica”.

Nonostante tutto, la scena culturale salentina è molto attiva e ricca di talenti…

“Nell’ultimo anno sono stato fuori dalla scena, dopo la nascita di mia figlia, ma si tratta certamente di una scena molto attiva caratterizzata da un proficuo scambio tra università, musicisti e registi. Lecce è una città molto viva culturalmente, basti pensare a tutte le librerie, ai teatri e ai cinema che ci sono. Il dualismo con Bari ha reso Lecce una città per niente provinciale”.

 

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