Ho scritto un libro in dialetto. Anzi, in cinque o sei

L’autore di Dieci, Andrei Longo, racconta il suo nuovo romanzo. Che è figlio di un’altra storia buttata via. La particolarità? Un idioma che mischia tutti i linguaggi del meridione: «me lo sognai di notte…»

di Piero Melati

dal Venerdì di Repubblica del 10 giugno 2011

Milano, 24-07-2007 LONGO Andrej, writer photo: © BASSO CANNARSA

Milano, 24-07-2007
LONGO Andrej, writer
photo: © BASSO CANNARSA

[…]Tammorre scatenate, pizzica selvaggia. Il Sud talmente forte da travolgere la vita quotidiana, secondo un motto di Schnitzerl, scrittore e medico (Come Céline), scrutatore di arcani che che come autostrade vanno e vengono dal corpo alla psiche: «Nessun sogno è mai stato soltanto un sogno» diceva. Come è vero, nel caso di Andrej Longo, l’abitante del reame ignoto, al suo quinto libro, terzo per Adelphi. Si chiama Lu campo di girasoli e ha avuto una gestazione singolare. A dire poco. Longo è un outsider. Non frequenta giri di scrittori, vive al di fuori dei circoli accademici, nonostante abbia tutti i numeri: laureato al Dams, esordio su Meridiano Zero, seconda uscita per Rizzoli, due volumi per Adelphi. Nel mezzo, ha preferito mettersi a fare pizze e spegnere spesso il cellulare. L’editore aspettava una sua nuova opera. Lui la consegna nell’inverno scorso. Ne sembra convinto. L’editore dice ok. E invece prima di Natale lo scrittore blocca tutto. Voglio lavorarci ancora, dice. «Ma più passava il tempo, meno avevo voglia di lavorarci sopra».

Certe notti. Una alla vigilia di Natale, per esempio. Andrej (nome imposto dal padre in omaggio a Tolstoi) dorme. E si sogna quella storia. E quella lingua. «Mi era capitato un altro paio di volte, di sognare cose strane. Mi sveglio, scrivo una paginetta con la trama. Ma che è ‘sta lingua che mi viene? Un po’ pugliese, un po’ napoletano, un poco siciliano… meglio che la annoto, mi dico. E meno male che l’ho fatto, che poi al risveglio non me la ricordavo più. La musica, invece, l’ho trovata subito. Un video con le pizziche. Una roba come la taranta. In quindici giorni avevo la prima stesura del libro. Scritto in una lingua antica. Ma era un delirio, non aveva regole grammaticali, ho passato un altro mese a rimettere tutto a posto. Un amico mi ha insegnato i mecanismi grammaticali, li ho seguiti seguendo poi le regole interne a ogni lingua. A metà febbraio ho consegnato il libro nuovo».

Ena Marchi, editor di Adelphi, gli ha detto: «Vorrei essere una mosca nella stanza di Roberto Calasso mentre ti legge…». Dopo una settimana l’editor decide di stamparlo. Sembra una favola. Arcana anche nel plot. Una vuaglioncella, Caterina, si innamora di Lorenzo, figlio di scarparo. Ma Rancio Fellone, figlio del più ricco del paese, si oppone. Lorenzo suona la tammorra. Lo scenario è la festa di San Vito, quando tutta la comunità è pronta a scatenarsi nella pizzica e a a bere il vino Primitivo. I due innamorati verranno salvati da Dummenico, operaio disoccupato, e dal Professore, un tardo comunista, che hanno appena rapinato il banco lotto con una pistola giocattolo. Elusivo come il suo sogno, Longo respinge ogni paragone. «I film di Frank Capra, tipo Angeli con la pistola? Per carità, sono capolavori. Ma troppo buoni. La sirena di Tomasi di Lampedusa? No. Quello è il fantastico».

E allora? «La mia sembra una storia antica ma è di oggi. Io aspiro alla semplicità senza essere banale. Questa volta, però, mi sono chiesto: questa storia la posso raccontare in italiano? No. In napoletano? Non riguarda solo una città. È una storia del Sud, antica e moderna insieme. Non potevo immaginarla in un’altra lingua. Sono nate insieme, la storia e la sua lingua. Dentro c’è una forma di ribellione di tipo moderno. A metà strada tra ribellione individuale e collettiva. L’unione delle ribellioni dei protagonisti riesce a ottenere una piccola vittoria. Quelle individuali non erano riuscite. L’unione porta invece una soluzione positiva».

Una fiaba nera. A lieto fine. Raccontata in una lingua nuova. […]

Il doppio sogno meticcio di Andrej Longo, invece, è durato una notte. Ed è bastato un mese e mezzo perché dal Sud Italia bagnasse l’Africa. Sarà infatti lu niru, nel finale, a riportare il bottino della rapina a Dumminico e al Professò. Lo divideranno in tre. «”Professò” dicette Dumminico “ma picché lu chiamano terzo munno?”. “Picché lu quartu siamo noi” lo rispose lu Professore.

 

Una mia prima riflessione a caldo su questo libro si può trovare qui: Un nuovo romanzo “pizzicato”

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