Quelle notti della taranta nell’Italia del boom

Ernesto de Martino, 50 anni fa, pubblicava La terra del rimorso. L’esordio dell’antropologia in Italia, e, assieme, il ritratto di un Sud ostaggio delle proprie superstizioni. Oggi, invece, tutto ciò è diventato modernità…

di Marino Niola

dal Venerdì di Repubblica del 5 agosto 2011

tarantapinna

La taranta pizzica ancora, ma adesso il suo morso fa fare salti di gioia. E in Salento si balla senza rimorso. Quest’anno la Notte della Taranta (dal 12 al 27 agosto), il più importante Festival europeo di musica tradizionale, si apre sotto il segno di Ernesto de Martino. Che, esattamente cinquant’anni fa, pubblicò La terra del rimorso (Il Saggiatore, pp. 412, euro 12), il libro che ha segnato la nascita dell’antropologia italiana e ha fatto del tarantismo il simbolo di un Mezzogiorno dell’anima. Stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione. Memoria remota di un binario morto del progresso. Di un passato arcaico che restava impresso nei corpi sofferenti del popolo contadino. Nei gesti e nelle danze, nelle ossessioni e nelle devozioni di un’umanità lontana dalle grandi direttrici dello sviluppo industriale.

Una perturbante archeologia sociale che sopravviveva negli usi e costumi di quella corte dei miracoli che popolava il profondo Sud fino alla prima metà del Novecento. Dove una storia andata in polvere aveva lasciato il posto ad un’antichità degradata, fatta di sopravvivenze umane e di relitti culturali. Come il tarantismo, la danza della piccola taranta. Antidoto ritmico contro il male oscuro di una terra in transe. Che identificava i suoi dolori antichi e nuovi con il morso di un ragno immaginario, da curare con la pizzica, un ballo sfrenato, circolare che durava giorni e giorni fino allo sfinimento. E alla guarigione. Concessa per grazia di San Paolo, signore e padrone di tutte le tarantole. Fino al nuovo morso, che arrivava puntuale a un anno dal primo. Morso e rimorso. È questo l’inesorabile algoritmo del tarantismo.

Incomincia proprio nella terra di Puglia spaccata dal sole e dalla solitudine, come diceva Salvatore Quasimodo, la discesa di de Martino negli inferi di un Mezzogiorno che è al tempo stesso una ferita meridiana dell’essere e un labirinto personale. Un itinerario che si snoda tra le altezze rarefatte della ragione idealistica e le convulsioni ritmiche delle tarantolate salentine, tra la severità sussiegosa e distante dello storicismo crociano e l’immersione commossa nelle arcaiche profondità del Sud. Sono ragioni prima politiche e poi teoriche – due dimensioni che nella sua opera non si separeranno mai – a guidare il cammino del grande intellettuale napoletano oltre le colonne d’Ercole di Eboli, verso il finisterre salentino. Nel tacco dello Stivale il raffinato filosofo cresciuto alla scuola di Benedetto Croce, trova quel che altri grandi antropologi come Claude Lévi-Strauss e Bronislaw Malinowski cercano in terre lontane. Una nuova coscienza dei limiti e delle virtù della propria civiltà. Un modo di guardare sé e la propria società nello specchio di una differenza abissale. Che espone il ricercatore al rischio di veder vacillare le proprie certezze, di rimettere in questione i fondamenti stessi della propria identità, del proprio ruolo.

Esattamente come accade a de Martino mentre ascolta la nenia funebre intonata da una lamentatrice scarmigliata e vestita di nero con suoni, parole e gesti da tragedia greca. Lungi dal considerare il pianto in metrica della donna come una pittoresca sopravvivenza pagana, il grande studioso si interroga piuttosto su se stesso e sul suo mondo, sullo scandalo di una faglia storica così profonda da rendere una sua concittadina, e contemporanea, lontana da lui quanto un’aborigena australiana. Oggetto di ricerca, se non di esperimento. Scheggia di un’altra storia non più nostra, avrebbe detto Pasolini. Un’umanità oppressa, dove la magia aiuta gli uomini a far fronte alla precarietà dell’esistenza e rappresenta una medicina simbolica condivisa, contro quella che de Martino definisce, con termine preso in prestito da Heidegger, la crisi della presenza.

Insomma, tra gli indios americani o fra i contadini italiani, il viaggio antropologico è sempre e comunque un’uscita da sé, un distacco dai limiti angusti del proprio angolo di mondo per cercare, nelle alterità vicine e lontane, un’immagine più compiuta della propria condizione. A questa critica culturale de Martino contribuì anche con la fondazione della leggendaria «collana viola» di Einaudi, concepita insieme a Cesare Pavese, con lo scopo dichiarato di sprovinciaIizzare la cultura italiana, stretta tra crocianesimo, marxismo e pensiero cattolico. Rendendo in questo modo finalmente accessibili autori proibiti come Carl Gustav Jung, Kàroly Kerényi, Mircea Eliade, Marcel Mauss, Émile Durkheim. Ma, quel che più conta, questa critica de Martino la sbattè in faccia all’Italia del miracolo economico, che si cullava nell’illusione delle magnifiche sorti e progressive, nell’escatologia del benessere, nell’incipiente religione del consumo. E che era improvvisamente costretta a contemplare con stupore orrificato le spose di San Paolo – così venivano soprannominate le donne morse dal ragno – che, vestite di bianco, roteavano freneticamente come dervisci sull’asse smarrito della loro esistenza. O saltavano come menadi sulle note ossessive di una tarantella suonata da musicisti sciamani. O si arrampicavano sull’altare di San Paolo a Galatina con l’agilità spiritata di ragni equilibristi. Salmodiando l’invocazione rituale che strappava il cuore degli astanti: «Ahi Santu Paulu meu de le tarante; facitece ‘a grazia a tutte quante».

Quello che de Martino mezzo secolo fa rivelava al paese con La terra del rimorso era il lato oscuro dello sviluppo, quella non-storia sofferente che offriva alla trasformazione del paese un doppio tributo: quello di chi emigrava e quello di chi restava. Spaesamento da una parte e povertà dall’altra. Le tarantolate erano storicamente e anagraficamente sorelle di Rocco e i suoi fratelli di Visconti, delle donne dolenti dei capolavori di Rossellini, di Germi, di Castellani. Ma anche della folla stracciata e sognante di Miracolo a Milano.

La Terra del rimorso è un libro di antropologia, ma anche di letteratura. Ed è questo a renderlo, ora come allora, capace di parlare anche al grande pubblico. Con la forza degli argomenti, ma anche con la potenza delle immagini. Insomma è proprio la sua poetica a salvare de Martino dal rischio di rinchiudersi in uno specialismo arido, in una filologia accademica petulante, che dietro la maschera del rigore nasconde la frigidità del cuore e della mente. La sua officina antropologica non ha mai smesso di produrre pensiero. E pratiche sociali. Ispirando nei primi Anni Novanta la politica di giovani amministratori – uno per tutti Sergio Blasi, già sindaco di Melpignano (Lecce) – che, invece di vergognarsi di quell’eredità e di seppellire la tarantola sotto una coltre di cemento, hanno rovesciato il senso di quel passato trasformandolo in un bene culturale e in una chance di futuro. E così la Notte della Taranta, esorcizzato finalmente il rimorso, ha fatto del ragno un simbolo positivo. Un modello di sviluppo che parla e pensa salentino. E la pizzica, che fu l’emblema del ritardo storico del Mezzogiorno, diventa il motore di un distretto culturale e turistico capace di coniugare tradizione e innovazione, identità locale e marketing, ecologia e benessere. Adesso, in un Sud che non vuole diventare Nord, il miracolo economico lo fa la taranta. Da buon socialista, anche Ernesto de Martino ne sarebbe compiaciuto.

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