Il Salento com’era quando c’erano le tabacchine

Il Salento com’era quando c’erano le Tabacchine, in un reportage di viaggio (degli anni ’50) dell’autrice de Il mare non bagna Napoli, l’eretica Anna Maria Ortese (Roma, 13 giugno 1914 – Rapallo, 9 marzo 1998)

da Il Paese Nuovo del 31 agosto 2011

 

orteseDa Avellino a Gagliano del Capo, lungo la strada statale, corrono circa 400 chilometri. Questa distanza, la minuscola «topolino» del fotoreporter l’ha coperta in poco più di 48 ore, contando le soste a Bari e a Lecce, attraverso uno dei paesaggi più stupefacenti della Penisola, ora tutto sassi, deserto, luce, ora soltanto montagne, fantasia, tenebra e poi di nuovo sassi, deserto, luce, in un crescendo altissimo e silenzioso di motivi orientali, di colori. Con una costanza, una fiducia commovente, questa macchina, poco più grande di una carrozzetta per bambini, ha superato i monti dell’Irpinia, s’è buttata giù nel Tavoliere, ha camminato senza mai stancarsi entro la grande regione di pietra delle Puglie, solo qua e là chiomata di grano, adorna di viti e di ulivi, fasciata di pascoli, ma per il resto, scalza. Il cielo, da quando avevamo lasciato la Campania, sembrava aver perduto ogni senso della misura: immenso, obliquo, stravolto da temporali, lucido di piogge, acceso da folgori o da arcobaleni improvvisi, uncinato, lungo la costa adriatica, da marosi verdissimi, copriva e scopriva di volta in volta paesaggi sempre più remoti, arcani, un’architettura e una vegetazione di momento in momento meno familiari: terrazze e «trulli» bianchissimi, palmizi, l’agave e il ficodindia. Ma a mano a mano che ci inoltravamo nella regione pugliese, verso il Salento, le case erano sempre più basse, gli alberi sempre più radi, le pietre sempre più aguzze. Non vedevamo più automobili, ma grandi carri tirati da cavalli o da buoi, con intere famiglie accovacciate fra i bordi, a malapena riparate da un ombrello o da scialli e cenci colorati. A Brindisi, la luce si fece improvvisamente di fuoco, e mentre ci rimettevamo sulla via statale, diretti a Lecce, capimmo d’essere già nella penisola Salentina, dove tra giacimenti di fosforite e lignite, radi pascoli e pietraie, intorno a paesi e villaggi sempre più miseri, cresce il tabacco.

La sera, Lecce fu una piccola Cuzco, con le vie strette e graziose, le case dall’aria segreta e irreprensibile. Molta gente per le vie, negozi illuminati, aria di festa e, insieme, la sensazione di una città di confine, sulle soglie di un mondo nero. Coperta di polvere, traballante, con uno strombettare affaticato e sottile, la «topolino» sostò finalmente in via Idomeneo, davanti al portone segnato col numero 28, dove c’è la Confederterra, e fu lì che ci salutò a uno sportello il viso volitivo e ridente, illuminato da grossi occhi neri, della signora Cristina Conchiglia, della Camera del Lavoro di Lecce. Eravamo assetati di notizie e dati precisi sul lavoro delle tabacchine nel Leccese, ci eravamo forniti di blocchi e matite, ma la stanchezza era troppo grande perché, dalle parole della giovane Conchiglia, ci giungesse più di qualche frammento. «Trovatevi domattina qui davanti», essa finì col dire «vi accompagnerò a Gagliano del Capo. Siamo a fine stagione, ma c’è ancora qualcosa da vedere».

L’indomani mattina, il tempo era stupendo. Arrivando alle nove alla Camera del Lavoro, vidi il fotoreporter intento a guardare una rudimentale carta della provincia di Lecce, ch’era attaccata a una parete. «Hic sunt leones» mi disse un ometto, in piedi vicino alla porta, sorridendo. Guardai anch’io la carta. Rappresentava la parte inferiore della penisola Salentina, da Lecce a S. Maria di Leuca, che sorge col suo santuario, dove la penisola termina nel mare. Fosforite, c’era scritto in alto, e più sotto: tabacco, e a destra: pascolo, e in mezzo: tabacco, e più sotto: lignite e ancora: tabacco. Cercavo nomi di paesi e frazioni, e non ne vedevo che alcuni, benché i miei ricordi scolastici me ne indicassero, in quel tratto, almeno una sessantina. Ero meravigliata.

Giunse la signora Conchiglia, con una modesta giacchetta blu sulle spalle, e ci disse che secondo lei il tempo cambiava di nuovo tra poco, meglio affrettarci se volevamo raggiungere il Capo. Infatti, da levante, cominciavano a salire sulla volta smaltata del cielo, grandi sfilacci grigi, argentei, bianchi, che si sovrapponevano, confondevano, e si era levato un vento freddo. A venti minuti da Lecce, incontrammo una colonna di pioggia, dopo cinque minuti eravamo di nuovo nel sole, ma per ritrovarci subito dopo nella pioggia.

Non avevo mai visto un tempo così strano, e un paesaggio più solitario. Certe case a un solo piano si presentavano di quando in quando ai lati della strada, e capivo ch’erano quelle che sulle carte scolastiche portavano nomi di paesi. Sulla soglia, donne vestite di nero, con una mano nell’altra, a difenderle dal freddo, levavano su di noi gli occhi senza sorriso, neri. Vecchie e giovanette, spose e bambine, erano quasi uguali, salvo che per la statura: gli stessi vestiti scuri, lo stesso gesto delle mani, strette l’una nell’altra, lo sguardo un po’ attonito e triste che vaga lontano. Né il fotografo né io avevamo voglia di parlare, abbacinati dalla luce dei lampi e degli arcobaleni, dall’alternarsi della pioggia e del sole, in quel paesaggio da prima creazione, ed era già un po’ di tempo che Conchiglia raccontava: «Nel solo Leccese, 40.000 tabacchine, circa la metà di quante ne sono in Italia. Per le raccoglitrici di tabacco nei campi, un salario di 250 lire al giorno: nei magazzini, da 360 a 560. Concessioni nella provincia, 300, magazzini, 500. Cifra totale del netto guadagnato da un piccolo numero di concessionari, ogni anno: da 15 a 20 miliardi».

Una coppia di uccelli selvatici, grandi e sottili come non avevo mai visto, si levò da un cespuglio, mentre la giovane Conchiglia parlava, e passò davanti alla «Topolino » con un timido grido. In quel momento vedemmo apparire come una pietra, in mezzo a una nuvola, Alessano.

È ad Alessano che abbiamo conosciuto Rita Colaci, una bambina di otto anni, quarta elementare, la penultima di quattordici figli di Michelangelo Colaci. Stava seduta sulla cuccetta che occupa con la sorella più piccola, in una stanza piena di tabacco quasi tutto disposto nei cassoni. Anche lei ha aiutato le donne, quest’anno come l’altro, a scegliere e infilare la foglia del tabacco. Questo lavoro, le donne lo fanno sedute in circolo per terra, a piedi scalzi, coi figli più piccoli vicino addormentati in mezzo alle foglie di perustiza o xantikà o erzegovina (da cui vengono le Nazionali, le Alfa, ecc.), in grandi stanzoni pieni di umidità, con una finestrella in alto, che il regolamento vuole munita d’inferriate per evitare i furti. Non vi sono i gabinetti, né acqua da bere, e all’uscita, tutte le lavoratrici vengono perquisite rapidamente dalla cosiddetta «maestra». Abbiamo domandato a Rita Colaci se le sarebbe piaciuto farsi fare una fotografia, e subito s’è coperta tremando il volto con le piccole mani. Cinque minuti più tardi, però, correva con gli altri ragazzi dietro alla «topolino» che lasciava Alessano: gli occhi fissi, spalancati, lucidi di una speranza che poco a poco si spegneva. Speranza di che? Di che cosa? Si è fermata col soprafiato vicino a un grosso sasso, e presto non l’abbiamo più veduta.

A Montesardo, in un portone, penzolavano collane di tabacco di un giallo tenero. Alcune donne, nel fondo, in piedi, discorrevano con gli occhi, con un’eloquenza primitiva. Vedendoci, si sono ritirate timidamente. È stato allora che abbiamo avvertito, sulla porta, un parlottare confuso. C’èra un tipo, sulla soglia che avevamo oltrepassata, un giovanotto sui trent’anni, con un viso sul quale era dipinto il più desolato stupore. Parlava con se stesso, assicurava che non era possibile, ripeteva dolentemente che non capiva, comunque era per lui un amaro dolore. Noi avevamo varcato la soglia del «suo» portone, senza domandarne il permesso a lui, il figlio del proprietario, avevamo fatto questo a lui, al «figlio del proprietario»: e allora, che cosa significava più la legge, cos’era il diritto? E le tasse, perché si pagavano? Implorava con gli occhi una spiegazione, e mentre noi, impietositi, indietreggiavamo, continuava a ripetere, con una fissità convulsa: «il figlio del proprietario…proprietario… proprietario…».

Una corona di ragazzi, sulla piazza, uno con gli occhi malati, quasi pieni di sangue, da non poterli sollevare, lo guardavano in silenzio, come pensando.

A Gagliano del Capo, dove la Penisola termina nello Jonio, in una struggente tristezza di cosa incompiuta, abbiamo conosciuto, in un magazzino come una grotta, Angelina Panareo, di vent’anni, dagli occhi dolcissimi, obliqui, la bocca sorridente nel viso muto. Minuta quanto una bambina, muovendosi con la leggerezza di un angelo, maneggiava un telaio dov’erano infilate le foglie. Era vestita di chiaro, strana cosa in quel nero. Tutt’intorno, muri di stalla o di prigione, grigi, massicci, corrosi dall’umido. Da un finestrino si vedeva il cielo, ormai sgombro di nubi e di folgori, vicino alla sera. Giungevano, dall’esterno, voci rade, che a un tratto cessarono. In quel silenzio, in cui per un attimo non sentimmo più neppure le altre donne che lavoravano, ci siamo domandati che cosa Angelina Panareo, dal viso pallidissimo e i piedi scalzi, abbia conosciuto della terra, della gioia, del sole. E «nulla, assolutamente nulla», è stata la quieta risposta. Le foglie di tabacco, mentre essa sollevava il telaio, frusciarono intorno alla sua persona, con un suono freddo, leggero, unica veste da ballo della sua gioventù.

 

*da La lente scura, ed. Biblioteca Adelphi 462, 2004

 

Trascrizione a cura di Santa Scioscio

 

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