In un’antica chiesuola del Salento un mosaico «criptato» paleocristiano

I nove cieli di Casaranello

di Carlo Vulpio

da La lettura, inserto culturale del Corriere della Sera, 24 dicembre 2011casaranello«Tra Adriatico e Ionio, a mezza via nella penisola salentina, in una piccola chiesa di Casaranello, il più prezioso dei mosaici bizantini pugliesi». Con queste parole Guido Piovene, nel 1954, condusse i lettori nel suo ancora attuale Viaggio in Italia nella chiesa di Santa Maria della Croce di Casaranello, dove si trova uno dei più antichi e meravigliosi mosaici paleocristiani d’Europa.

Casaranello è il nucleo originario della odierna Casarano, da cui col tempo è stato completamente assorbito. Il suo nome è un diminutivo, poiché deriva da Caesaranum Parvum, Casarano Piccolo, il borgo che a partire dal IX secolo venne progressivamente abbandonato perché i suoi abitanti ritennero più sicura l’altura in cui poi si sarebbero sviluppata Caesaranum Magnum, Casarano Grande, che oggi ha 25 mila abitanti ed è uno dei centri pivivaci del Salento. Il che non è poca cosa per la penisola salentina, che è, scrive ancora Piovene, «penisola senza sbocchi, fuori dalle vie di passaggio obbligatorie molto più della Calabria, che conduce in Sicilia: Il Salento, fin dai tempi preistorici, forse il vero fondo dell’Italia». Ciò che ha ha contribuito a tenerlo «sempre fuori dalla grande storia», insiste Piovene, «sconosciuto agli scrittori classici», così che per saperne di più del suo passato, «che ha il fascino del segreto», non bisogna smettere mai di sperare nelle scoperte archeologiche e nel lavoro degli storici dell’arte. O anche nell’attenzione e nell’entusiasmo di quei cronisti di provincia spregiativamente definiti «oscuri», che invece sanno «vedere» ciò che i loro più blasonati colleghi non vedrebbero nemmeno con gli occhiali. Come Enrico Valente, corrispondente del Corriere del Giorno, che il 9 aprile del 1953 pubblicò il suo «articolo della vita» – quello che incuriosì Piovene e lo spinse a visitare Santa Maria della Croce proprio su Casaranello.

Santa Maria della Croce, scrive Valente, è «un’antichissima chiesuola, la più antica del Salento». E infatti, costruita nel 450, 19 anni dopo il Concilio di Efeso, che proclamò il dogma della divina maternità di Maria, la «chiesuola» è tra le prime testimonianze di Maria «Madre di Dio».

Quando parla di Casaranello, Valente sa bene che nonostante la scoperta dei mosaici, nel 1907, a opera dell’archeologo e storico dell’arte Arthur Haseloff, Santa Maria della Croce continua ad essere un luogo praticamente ignoto. Ma non demorde, anzi proprio per questa ragione coglie l’occasione della visita del Soprintendente delle Belle arti di Bari, «che deve disporre alcuni restauri, promossi lodevolmente da cultori dell’arte del luogo», per centrare due obiettivi. Rilanciare «la splendida policromia e i toni delicatissimi dei mosaici del V secolo dopo Cristo che adornano la volta dell’abside e la cupoletta della chiesa» e celebrare le nuove scoperte celate dalla «chiesuola» – gli affreschi, finalmente sottratti «agli oltraggi subiti dal tempo e dagli uomini» e portati alla luce per essere recuperati come l’irripetibile opportunità di far conoscere al mondo Casaranello.

Per raggiungere lo scopo, Valente non rinuncia e fa bene a giocarsi l’unico «jolly» che ha, e cioè la carta pontificia. Nel suo articolo, anche se c’entra poco, sottolinea che a Casaranello nacque e venne battezzato niente di meno che Pietro Tomacelli, il futuro papa Bonifacio IX, il pontefice che la la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento dovette affrontare, anche a colpi di scomuniche incrociate, l’Antipapa che stava ad Avignone, Clemente VII.

Al di là della comprensibile euforia con cui vive l’avvenimento, il cronista Enrico Valente dimostra di aver avuto intuito. Dagli strati di intonaco sovrapposti sui muri della «chiesuola» e ricoperti perfino dalle energiche pennellate degli imbianchini, spunteranno affreschi medievali dell’XI secolo, opera di frescanti italo bizantini di alto livello come quello di Santa Barbara, una delle prime icone della santa, che richiama l’immagine che si trova in Santa Maria Antiqua, a Roma; o la stupenda Madonna con Bambino, a cui, tra le madonne orientali, solo quella del XII secolo di Costantinopoli somiglia di più e poi affreschi gotici del XIII e del XIV secolo come quelli della vita e della morte di Santa Caterna d’Alessandria e Santa Margherita di Antiochia, di Cristo Pantocratore e infine gli affreschi degli arconi che collegano la navata centrale alle navatelle laterali, databili tra i secoli XIV e XVI, come il Bacio di Giuda nel Getsemani e l’Ultima cena.

Ma non eravamo entrati in Santa Maria della Croce per il suo «pezzo forte», i mosaici? È vero, ma la bellezza distrae. Per questo, meglio ammirare i mosaici per ultimi. Perché una volta posato su di essi lo sguardo, non si riesce più a staccarsene.

Anche Vittorio Sgarbi, che li conosce bene, ne è entusiasta. «La più importante testimonianza dell’arte musiva bizantina, nel suo momento d’oro, sotto Ravenna dice Sgarbi -, è a Casaranello, dove sembrano prolungarsi, nel piccolo spazio, i riflessi luminosi di Galla Placidia, con effetti optical che avrebbero stupito il pittore ungherese Victor Vaserely. Ma che hanno la verità, la necessità e la poesia di ciò che si apre in una mente per la prima volta».

Un altro profondo conoscitore di questi mosaici che una volta ornavano non soltanto l’arco dell’abside e la cupola del presbiterio, ma l’intero vano absidale è Gino Pisanò docente di latino e greco al liceo classico di Casarano, anch’egli uno di quei personaggi «oscuri» eppure indispensabili in questo genere di cose, perché non inseguono soldi e notorietà ma si muovono per pura passione.

Pisanò sostiene, rifacendosi soprattutto agli studi di Wladimir de Gruneisen e Andrè Jacob, che i bizantini hanno sostituito i loro affreschi a una parte del mosaico dell’abside «perché il mosaico, con la sua fastosità naturalistica, era troppo fuorviante per il severe senso del sacro e del divino che è proprio della spiritualità greca». E tuttavia, nonostante il lavoro di (parziale) copertura dovuto agli affreschi bizantini, il mosaico di Casaranello, dice Pisanò, «brilla e occupa il sesto posto assoluto, ma solo in ordine cronologico, nella classifica dei mosaici paleocristiani d’Europa». Prima di Casaranello, ci sono solo quelli dell’imperatore Costanzo a Tarragona, di Santa Sabina a Roma, di San Giovanni in Fonte a Napoli, del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna e del Battistero di Albegna in provincia di Savona. «Ma attenzione – avverte Pisanò – i mosaici di Casaranello hanno una valenza allegorica unica, non riscontrabile negli altri cinque. Ce n’è solo un altro come questo e si trova nella coeva basilica dedicata alla Vergine a Salonicco, costruita dopo il Concilio di Efeso, tra il 431 e il 450».

A Casaranello, dunque, trionfa l’allegoria. Il mosaico che adorna la volta dell’abside rappresenta il Paradiso terrestre, mentre quello che decora la cupola che sovrasta il presbiterio è l’Empireo, il Paradiso celeste, suddiviso in nove cieli proprio come nella Commedia dantesca. Il simbolismo è onnipresente. Non c’è tessera del mosaico – tutte le tessere sono sovrapposte a coda di pavone, uccello simbolo della regalità divina – che non rimandi a un numero, a una forma geometrica, e questi, a loro volta, a una dottrina filosofica o religiosa. Il numero tre, e il suo multiplo nove, per esempio, richiamano la divina Trinità. Il numero cinque, l’uomo, il risultato perfetto della genesi. Le figure ovali sono il Cielo. Rettangoli e parallepipedi, la Terra. Le composizioni «a treccia» e «a meandri» rappresentano l’eterna ciclicità del mondo naturale. E poi i simboli cristologici più noti, l’uva, il melograno, il pesce, il pavone, fino al tripudio di colori dell’arcobaleno e alla croce, gialla, che occupa il centro della cupola e che è il «tema» del mosaico: il trionfo della croce di Cristo.

Secondo de Gruneisen, e questo è forse l’aspetto più importane e meno conosciuto della «chiesuola», il mosaico di Casaranello è opera delle stesse maestranze efesine che hanno realizzato i mosaici di Ravenna, con la differenza che a Casaranello «il messaggio comunicato attraverso il mosaico è criptato, perché riservato solo agli iniziati e perciò protetto dall’allegoria». Ma oltre al carattere esoterico e misterico del primo cristianesimo, c’era un’altra ragione, molto più concreta, dietro questa scelta. La necessità di proteggere Casarano, che era periferia e non centro dell’Impero, come Ravenna. Il Salento era stato occupato dai Goti e poi liberato da Giustiniano, nel 553 dopo Cristo, e anche se da quel momento orbita nella sfera dell’Impero d’Oriente e resta sotto il dominio bizantino fin al 1059, era pur sempre un ponte fra Oriente e Occidente e un inevitabile punto di incontro, e scontro, tra la cultura patina ancora paganeggiante e quella giudaico cristiana. Non si potevano correre eccessivi rischi.

Nel mosaico di Casaranello ci si può perdere. A guardarlo a lungo e con attenzione può insinuare nella mente non solo le illusioni ottiche di cui parla Sgarbi, ma veri e propri miraggi. Come quelli che restarono impressi negli occhi di Piovene quando si spinse fin quaggiù e gli fecero dire che è proprio questa terra, il Salento, a essere «una terra di miraggi, fantastica, piena di dolcezze». Ma è attraverso il mosaico di Casaranello, che è conservato benissimo e attende solo di essere conosciuto e visitato dai tanti, troppi, cha ancora non lo conoscono, che si potranno capire a fondo le parole di Piovene: «Questo resta nel mio ricordo più come un viaggio immaginario che come un viaggio vero».
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