Sigismondo Castromediano e i “canti del popolo”

Sigismondo Castromediano e gli albori del dibattito sulla musica popolare nel Salento postunitario

di Sergio Torsello, 5 febbraio 2013

 

Sigismondo Castromediano

Sigismondo Castromediano

Sulla vicenda umana e intellettuale di Sigismondo Castromediano (1811-1895), una delle più complesse e affascinanti figure del Risorgimento meridionale, esiste ormai una sterminata letteratura. Tuttavia lo scavo documentario nella cospicua produzione del Duca di Cavallino si rivela sempre ricco di sorprese. Da un articolo apparso su “Il Cittadino Leccese” nel Marzo del 1866, articolo spesso citato ma mai integralmente pubblicato, si apprende che il Castromediano fu uno dei primi intellettuali salentini, accanto all’erudito Luigi Giuseppe De Simone, a porsi in maniera “moderna” il problema della raccolta e documentazione di canti popolari all’interno di un più ampio e “complesso progetto di politica culturale”. Lo ricorda Franco Martina, sottolineando come “l’anima di quel progetto era tutta nell’uso politico della storia, nella convinzione cioè che la creazione di istituzioni in grado di rendere accessibile la conoscenza del passato potesse contribuire a creare una nuova e diffusa coscienza civile e quindi a riequilibrare il quadro politico nazionale.” (Cfr. Franco Martina, Sigismondo Castromediano. L’uso civile della storia patria, in Raffaele Giura Longo e Giovanni De Gennaro, La storiografia pugliese nella seconda metà dell’Ottocento, 2002, pp. 131–140). Nel breve articolo, che qui in parte ripubblichiamo, scritto in risposta all’appello di Antonio Casetti e Vittorio Imbriani per la raccolta di canti popolari pubblicato sul giornale napoletano “La Patria” – appello che poi sarebbe sfociato nella monumentale monografia Canti popolari delle province meridionali (pubblicata in due volumi presso i tipi di Loescher negli anni 1871-1872) che costituirà a lungo un modello dei nuovi indirizzi storico/filologici e un punto di riferimento ineludibile in questo settore di studi – Castromediano (che non a caso compare nel lavoro di Casetti e Imbriani tra i raccoglitori dei canti di Lecce, Cavallino, Calimera, Carpignano Salentino e Morciano di Leuca) non solo si pone come interlocutore privilegiato dei giovani studiosi ripromettendosi di aiutarli nella loro meritoria attività, ma pubblica i testi di due canti da egli stesso raccolti che di fatto costituiscono una delle prime fonti documentarie (se non la prima in assoluto) sulla musica popolare salentina. Dei due testi proposti, uno in particolare, quello relativo ad un celebre canto noto con il titolo Quannu te llai la facce la matina (ripubblicato sempre dal Castromediano nella raccolta Casetti-Imbriani) si rivela un documento di grande importanza. Si tratta dell’attestazione più antica relativa alla diffusione di questa canzone in area salentina (un’altra variante è pubblicata nel Saggio di Canti popolari di Giuliano di Gioacchino e Tarquinio Fuortes del 1871) resa celebre da una memorabile interpretazione di Tito Schipa che la incise la prima volta nel 1921. Ma c’è di più. Il testo verbale reca un incipit diverso da quello tramandato nella versione salentina più nota, in sintonia invece con le numerose varianti (toscane, siciliane, marchigiane, veneziane, istriane) pubblicate dal Rubieri nella sua Storia della poesia popolare italiana del 1877 (pp. 338-341), già segnalate in un recente scritto di Federico Capone (La nascita della canzone dialettale leccese, in Cultura Salentina, rivista on line, settembre 2010), e con quella più antica, raccolta questa volta nel ternano, apparsa in “Egeria. Raccolta di poesie italiane popolari cominciata da G. Muller, dopo la di lui morte terminata e pubblicata da O. L. B. Wolff”, Lipsia, 1829, pag.13 (rist. anastatica, Edizioni del Gallo 1966). Il secondo è invece il testo (piuttosto raro) di un lamento funebre, anche questo inserito nel corpus dei canti salentini nella raccolta dei Canti delle province meridionali (che ricordiamo riporta ben 138 testi rilevati in otto centri di Terra d’Otranto) con varianti di Arnesano, Lecce e Cavallino.

Varietà

Un mucchietto di gemme.

Umile preghiera ai leggitori, e alle leggitrici

I

Oh, i miei venticinque anni!… Perché non contare più venticinque anni? Io esclamava leggendo col titolo sopra riferito, le appendici n. 50 e 51 del giornale di Napoli, La Patria. A venticinque anni io soleva correre questa nostra provincia da un capo all’altro, raccogliendo prove e documenti della sua storia, delle sue tradizioni, delle sue leggende e dei suoi fasti; e ne osservava dei suoi abitanti l’indole, i costumi, le industrie lori, i commerci, l’agricoltura, e descrivendone le sue bellezze naturali, le sue antichità e quanto altro mi appariva degno di essere registrato, raccoglieva tutto in un medesimo lavoro durato dieci anni, e perduto per incuria, o per ferocia della polizia borbonica negli altri dieci anni di mia politica galera. Non me ne resta, che qualche frammento, qualche pagina lacerata, o provo uno strazio nell’anima ogni qualvolta queste carte, così come le ho dette, mi riappaiono sott’occhio – Ma basti; e sia pure cotesto un altro dei miei doveri sagrifizi finora compiuti sull’altare della patria.

II

Davvero, ch’io nuovamente desidero i miei venticinque anni, non per godere di nuovo della mia gioventù, ma per rimettermi all’opera di nuovo, ma per rendere altri servizi al paese, a questa provincia che amo, ed ho amato, ora che la libertà m’agevolerebbe nei miei intenti, e senza corruccio e sospetto di governo li attenderebbe e glorificherebbe. Eh si, che Terra d’Otranto rimane non solo pel forestiero, ma per noi stessi una regione inesplorata! Eh si che qui si nascondono artistici tesori e letterari, ed altre gemme, che a discoprirle v’è d’uopo dello storico, del naturalista, dell’antiquario, dell’economista, e di ogni altro filosofo e scienziato! A chi sono note (diamo qualche esempio) in Italia e fuori la chiesa giottesca di Galatina, e la guglia merlettata di Soleto? A chi Rocca e Cerrate in mezzo alle paludi ed i macchieti, ed il pavimento in musaico dell’Arcivescovado di Otranto colle svariatissime marmoree colonne della sua cripta? Chi mai fece ricerche e studi sulle opere del Galateo, del Vanini, di Fra Roberto Caracciolo, di Abramo Belma, del Grandi, e di tanti altri che sarebbe troppo lungo riferire, ma che onorerebbero una nazione intiera? Chi si è occupato un poco di quel dialetto, il quale parlasi in un sito al sud di Lecce denominato Grecia , e che taluni ritengono come greco, altri come albanese? Chi ci narrò le arti, le astuzie, la violenza, e i delitti con cui la Corte di Roma fra noi spense il rito greco, e la greca liturgia? Chi mai con intendimento pieno e profondo, ne disse della guerra di Otranto, e pella quale quella città distruggendo se stessa, salvata l’Italia, e l’occidente di Europa da una nuova invasione di barbari?(…)

III

Tutti i nostri danni son da riferirsi al poco incoraggiamento, anzi alle persecuzioni del passato nostro governo contro coloro che si dedicavano ai nobili studi. Ei voleva la morte dello intelletto. Ma ora è tempo di svegliarci, o miei concittadini, che Dio profuse in voi largamente ingegno e sveltezza di mente. (…) Uno dei nostri giovani, al cui avvenire spero moltissimo, pelle solide dottrine acquistate, l’ottimo cuore, e la buona volontà, Antonio Casetti intendo, ha voluto raccogliere una considerevole copia dei canti, che il nostro popolo nei suoi trasporti d’amore, di sdegni, di gelosie e di dolori canta e compone nel proprio dialetto. Oh il tesoro ch’è cotesto! E’ poesia vera, efficace, la poesia del sentimento, quella che trabocca dal cuore, e non distilla dal cervello. E’ un tesoro di studi estetici e filologici, Oh le canzoni dei leccesi quanto son candide ed espressive! Quanta bellezza!, quanta attraenza! Possono assomigliare alla donna che mi accenna e io la inchino e l’amo. Altro collaboratore in questa mostra è un giovane arguto, ardito, vasto, originale nei suoi letterati concepimenti, Vittorio Imbriani (figlio dello Emilio , già conosciuto dentro e fuori Italia pei suoi scritti e pella sua vita politica), il quale non si è arrestato solo alla raccolta di poesie leccesi, ma l’estese a quelle di altri dialetti sparsi nel napoletano(…). Io che ammiro entrambe i due valorosi, e che intendo per quanto m’è dato di assecondarli e aiutarli nella loro intrapresa e nel modo come si espressero nelle suaccennate appendici esorto con questo giornale in provincia più diffuso che la Patria non è, esorto tutti e specialmente la gioventù dei quattro circondari di Terra d’Otranto, d’ogni sua città, di ogni suo villaggio; esorto tutte le vostre donne, e specialmente le vostre donzelle, che pure ne abbiamo di gentile, di vaghe, d’ingegnose e d’istruite a cooperare anch’esse a questo lavoro, il quale tende meglio a farci conoscere dai nostri confratelli italiani e di rivestire di maggior fulgore questa nostra terra, una volta prima oggi non ultima tra le civili, l’esorto ad uscir fuori dal buio degli antichi pregiudizi e accomunarsi col contadino che è pur vostro fratello e colle loro grazie e colle loro infallibili persuasive farsi dire quei cantici cui si va in cerca, copiarli tal quali li pronunziano coi loro contra sensi e colle loro dissonanze, e poi avere la gentilezza di spedirli colla posta all’Imbriani, o al Casetti o alla direzione del nostro periodico, o finalmente a me nel mio ritiro di Gabellino. E perché il mio desiderio e il mi concetto fossero meglio appresi e spiegati do fine, riportando due esempi di canzoni, le consimili delle quali son quelle che si richiedono.
Ca m’annu dittu ca te chiami Rosa,

Rosa e Rosina te vogliu chiamare;

Ma l’acqua ci te llava la matina

Te pregu, Rosa mia, nu la menare.

Ca a ddu la mini nci nasce na spina

Na Rosa e nu rusieddu pe durare

Poi passa lu speziale, e nde la cima

Medicine nde face pe sanare
Foi ndelecata na bellezza intiera

E ci allu mundu nu se troa la para

Ma mò se distaccao la soa bandera

Le purpurette soi sicche turnara

L’ecchi ci eranu stelle se chiudera

E li beddizzi soi susu la bara

Chianga la gioventù, pazza ci spera.

La morte lleva la cchiù cosa cara”.

Duca Sigismondo Castromediano

“Il Cittadino Leccese”, Anno V, n. 52, Lecce, Marzo 1866, pp. 207 -208.

 

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