Lo straordinario viaggio della Tarantella (nello spartito del mondo)

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In Lo spartito del mondo. Breve storia del dialogo fra culture in musica, libro bello e appassionante pubblicato di recente da Laterza, c’è un capitolo che ci racconta Lo straordinario viaggio della Tarantella: come un'”umile” danza popolare del Tacco d’Italia è riuscita a dialogare con la grande tradizione colta occidentale, “con la Sinfonia, la Sonata, il Quartetto, l’opera lirica, con Mozart, Beethoven e Chopin“.

L’autore, il compositore e musicologo Giovanni Bietti, comincia questo viaggio da Mozart, che nella sua Sinfonia K. 338 in Do Maggiore, composta nel 1780 (“un brano ambizioso, brillantissimo”) inserisce alla fine un movimento “spettacolare e sorprendente”, l’Allegro vivace che non è altro che una vera e propria “indiavolata” Tarantella. Nonostante già altri avessero già usato questa danza per le loro composizioni (ad esempio Domenico Scarlatti), secondo Bietti “la Sinfonia Mozartiana porta il confronto su una scala infinitamente più ampia e ambiziosa, innalza di rango la Tarantelle, la fa diventare il momento conclusivo di una delle forme più importanti e «classiche»”.

Quella intuizione mozartiana ebbe grande successo, perché molti altri grandi compositori negli anni successivi decisero di scrivere una Tarantella per concludere una composizione di ampio respiro: Haydn nel 1785, Beethoven tra il 1800 e il 1803 e Schubert nel 1815 e poi più volte fra il 1824 e il 1828.

Bietti propone alcune ipotesi per spiegare questo “sorprendente dialogo fra musica colta e popolare e la grande tradizione classica e una danza del Sud Italia”. Innanzitutto, il fatto che molti musicisti colti meridionali viaggiassero per l’Europa da decenni, con grande successi, portando probabilmente con sé anche “echi delle tradizioni popolari locali, inclusa la vivacissima e spettacolare Tarantella”.

Ma la ragione più significativa è un’altra: la Tarantella appariva tanto affascinante perché “questa danza ha un lato oscuro, una sorta di «doppio» inquietante, e affonda le sue radici in una pratica tutt’altro che leggera e d’intrattenimento: il fenomeno del tarantismo”, con i legami “irrazionali e «demoniaci»” che la danza portava con sé. Questo fenomeno (che l’autore descrive nella sua evoluzione storica in poche ma dense pagine, arrivando a citare brani del “diario” del violinista-terapeuta Luigi Stifani Io al Santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate, libro di non facile reperibilità, pubblicato dalle gloriose edizioni Aramirè nel 2000) era ben conosciuto in Europa, perché se ne erano occupati scienziati, eruditi e intellettuali, e alla metà del Seicento cominciarono a circolare anche alcuni trascrizioni di musiche usate nel rito, a partire dalle pubblicazioni del dotto gesuita Athanasius Kircher.

Successivamente, nel corso dell’Ottocento la Tarantella diventerà dunque una vera e propria moda musicale, e diversi compositori, noti e meno noti, si misurarono con questa danza. In particolare, i compositori del periodo romantico “mostrano di essere interessati all’origine della Tarantella, al suo carattere italiano e meridionale”, una manifestazione, per l’autore, di un vero e proprio “esotismo musicale”, di “un gusto spiccato per l’atmosfera ed il colore locale”. Gli esempi di questo approccio sono numerosi, in Felix Mendelssohn all’inizio degli anni ’30, in Listz (1840), Čajkovskij (1880), Richard Strauss (1886), fino ad arrivare a Stravinskij che userà la Tarantella nel Balletto Pulcinella in pieno secolo XX (1920).

Oltre a questo, l’Ottocento ci mostra anche un diverso tipo di dialogo, nel campo “del virtuosismo strumentale dell’esibizione spericolata e funambolica di un singolo esecutore dalle eccezionale capacità tecniche”. Questo, secondo Bietti, anche perché la Tarantella “comprende in sé una spinta a trascendere i limiti, a superare le barriere fisiche, e ciò la avvicina al all’atteggiamento del virtuoso ottocentesco”, e la colora perfino “di una tinta «demoniaca» davvero affine allo spirito di molti musicisti dell’epoca”. Di questo approccio gli esempi più eclatanti sono in Paganini, Listz e nella “nutritissima schiera dei loro rivali e imitatori”, nelle cui mani “la Tarantella diventa un pezzo da concerto singolo, spettacolare e letteralmente acrobatico”. La punta di diamante della Tarantella da concerto, “il brano più riuscito e perfetto del genere”, è la “brillantissima e poetica” Tarantelle op. 43 (1841) di Chopin. In tale contesto, vengono scritte anche Tarantelle vocali, come la Danza di Rossini o la Tarantelle di Bizet.

Ma non basta: ci sono infatti alcuni casi in cui la Tarantella riesce, sorprendentemente, a dialogare con “altre musiche popolari e nazionali, cambia carattere, perde la connotazione mediterranea”. II più significativo è quello della Russia, che nella seconda metà dell’Ottocento viene letteralmente conquistata questa danza, e dove alcuni compositori “arrivano a immaginare una danza ibrida che si svolge in un luogo frutto della fantasia”, in un viaggio “che può raggiungere luoghi virtuali e che fa nascere incontri possibili solo attraverso la musica”.

Lo scritto di Bietti, inserito in un libro di grande interesse e di piacevolissima lettura, ci conferma quanto questa danza «rituale» di origine popolare abbia nei secoli esercitato una grande capacità di attrazione, anche in contesti del tutto inaspettati. Un’affascinazione di lungo periodo, che evidentemente, in modi ancora diversi, continua ancora oggi.

Per leggere una mia recensione del libro Luigi Stifani Io al Santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate (Aramirè 2000) cliccare qui

Per leggere una recensione di Sergio Torsello di una recente edizione critica delle opere “tarantistiche” di Athanasius Kircher cliccare qui

(Grazie all’amico Tommaso Greco per la segnalazione iniziale del libro)

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