Storie di monache ribelli e di balli in convento contro i veleni delle tarantole

71mSZXhx31LCraig. A Monson, Suore che si comportano male. Storie di magia, sesso e incendi nei conventi medievali, Il Saggiatore 2022

di Vincenzo Santoro

Articolo originariamente pubblicato su Insula Europea, 28 gennaio 2023

Titolo e copertina allusivamente “scandalistici” (e con un riferimento all’età medievale del tutto fuorviante, trattando avvenimenti di secoli successivi) non rendono giustizia a un libro che restituisce con puntualità una serie di significative “ribellioni” femminili, riferendo in particolare cinque vicende consumatesi a Bologna, Reggio Calabria e Pavia, fra Cinque e Settecento.

L’autore, Craig A. Monson, musicologo presso la Washington University di St. Louis, si è imbattuto nelle suddette cronache ricercando nell’Archivio Apostolico Vaticano documenti sulle produzioni musicali di quel periodo. Anche per questo gli episodi di insubordinazione si rivelano in stretta relazione all’attività musicale, al desiderio di praticarla, ma anche di poterne godere oltre le mura dei conventi.

“Per una donna è opportuno avere un marito o un muro”: secondo questo aforisma tardomedievale, la scelta doveva significativamente vertere fra il matrimonio e il convento. In realtà, per evitare l’indebolimento dei patrimoni familiari a causa delle esose doti matrimoniali, molte eredi delle casate  più abbienti venivano destinate – in gran parte non per loro volontà – ai monasteri, che domandavano offerte in denaro meno impegnative, e spesso, per alleggerire il trauma della clausura, partivano insieme anche più sorelle dalla stessa famiglia. Di conseguenza, in particolare nel periodo considerato dallo studioso, si assiste a una vera esplosione di conventi femminili, tanto che a Bologna, intorno al 1630, le monache sono arrivate a rappresentare il 14% della popolazione, mentre a Milano il 75% delle donne aristocratiche viveva in convento.

Assembramenti femminili che preoccupano fortemente le gerarchie ecclesiastiche, impegnate com’erano a esercitare uno stretto controllo sulla vita delle monache, suscettibili di corruzione perfino attraverso le grate della galleria del coro delle chiese interne ai monasteri, nella tentazione di cantare “per il mondo e non per il paradiso”. Luoghi liminari descritti come veri e propri “campi di battaglia dove le monache musiciste si contrapponevano ai loro vescovi”.

Secondo la ricostruzione di Monson, le fonti segnalano che nel Cinquecento “si assistette a una straordinaria espansione del canto conventuale nell’ambito della polifonia”, producendo un canto corale a più voci, simile a quello eseguito dagli uomini nelle cattedrali per secoli: una musica “più ricca, più immediatamente allettante”, che contrasta significativamente con il canto fermo praticato fino a quel momento. Il risultato è la diffusione nel Seicento di un’ondata di entusiasmo per le esecuzioni canore delle monache – soprattutto in città come Milano, Bologna e Roma – poiché il “il canto corale conventuale offriva una sonorità nuova, eccitante”, per cui diventò una vera e propria attrazione, per i locali come per i viaggiatori del Grand Tour. Inoltre per una aspirante musicista offrivano l’unica realistica opportunità di diventare nota (per le donne rispettabili c’erano poche alternative che non le esponessero alla pubblica esecrazione): le monache cantavano oltre il muro della chiesa interna al convento ma le loro voci echeggiavano all’esterno richiamando molti appassionati e provocando le repressive reazioni dell’autorità ecclesiastica, di cui si trovano tracce nelle storie raccolte dall’autore.

Monson presenta dunque cinque vicende di “ribellione” femminile che scatenarono crisi intense, capaci anche di far deflagrare l’intera comunità di riferimento, in parte innescate dalla musica, scegliendo fra le più interessanti e le più complete per documentazione trasmessa: ne risultano racconti desunti dalle carte d’archivio, a tratti romanzati e adattati alle esigenze narrative inserendo dettagli inventati ma verosimili.

Il primo caso è ambientato nel 1584, presso il monastero di San Lorenzo a Bologna, e riferisce di rischiosi incantesimi, pratiche magiche ed evocazioni diaboliche finalizzate, almeno inizialmente, a recuperare una viola scomparsa, in un convento dove veniva praticata un’assidua attività musicale, gradualmente repressa dalle gerarchie clericali.

Il racconto successivo si svolge a San Niccolò di Strozzi, Reggio Calabria, nel 1673. Qui l’intera comunità monastica decide addirittura di dare alle fiamme il convento (dove si coltivavano i bachi da seta e si conservavano materiali infiammabili) per sottrarsi alle troppe privazioni di una clausura.

Santa Maria Nuova, ancora a Bologna, tra il 1646 al 1680. Anche qui, a metà del ’600, fiorirono musica e arti, soprattutto per merito di due esponenti di una famiglia particolarmente in vista della città, quella dei Malvezzi: Giulia Vittoria, dedita alla musica, e sua zia, Maria Vinciguerra, più anziana, che finanziò una ambiziosa ricostruzione della chiesa del monastero, realizzando sontuosi e raffinatissimi lavori di tessitura, per ornare gli interni, a cui – contro gli usi dell’epoca – collaborò lei stessa e promosse una serie di esuberanti esibizioni liturgiche, coinvolgendo musicisti di livello. Nel corso di questa impresa, nacque uno screzio con un’altra donatrice, che aveva realizzato un paramento sacro non ritenuto all’altezza della Malvezzi, la quale, in un impeto d’ira, lo strappò e lo distrusse. Iniziò così una battaglia conventuale che echeggiò fino a Roma, e che ci consente di ricostruire un prezioso spaccato della vita dell’epoca.

E ancora Convento di Santa Maria degli Angeli, Pavia, tra il 1651 e il 1675: la fuga di due monache svela un contesto di rischiose promiscuità e di “amicizie sconvenienti” all’interno delle mura del convento.

Infine di nuovo Bologna, Santa Cristina delle Fondazze, 1708-1735: suor Maria Cristina Cavazza, talentuosa cantante, più volte punita per essersi esibita senza rispettare le rigidissime regole monastiche, viene scoperta a travestirsi da religioso per poter frequentare un teatro d’opera, con la complicità di un sacerdote anche lui appassionato di musica.

Resta da aggiungere che in appendice al lavoro di Monson sono riportati altri casi su cui si posseggono notizie meno dettagliate. Ne spicca uno avvenuto a Lecce, che ha a che fare con un noto rituale di “cura”. Nel 1646, Catarina Baccona[1] chiede ai “signori cardinali della Congregazione de’ Vescovi e Regolari” il permesso di poter ballare all’interno del convento dove viveva, per curarsi dal male della tarantola[2], e riceve risposte sorprendenti, che dimostrano come la “terapia coreutico musicale” coinvolgesse anche altre sue sorelle di clausura. L’episodio è documentato da due lettere – finora inedite – inviate alla Sacra Congregazione, che una studiosa locale, la professoressa brindisina Sandra Taveri, è riuscita a recuperare dagli archivi vaticani in base alle indicazioni cordialmente fornite dallo stesso Monson, la cui trascrizione a sua cura riportiamo alla fine dell’articolo. L’analisi di questi brevi testi consente di avere un’idea degli avvenimenti più ricca e precisa di quella riportata, in maniera necessariamente sintetica e un po’ “romanzata”, dall’autore.

La prima lettera ci informa infatti che Catarina, “educanda” nel monastero della Annunziata della Città di Lecce[3], si ritrova “oppressa dalla infermità della tarantola”, per il cui “il maggior rimedio” sono “la musica et il ballare”, così che dopo due giorni di ballo si guarisce e “si passa con salute” il resto dell’anno. Nella sua stessa situazione versano anche altre monache, le quali già in passato avevano richiesto alla Sacra Congregazione di poter ballare nel monastero, e questa aveva “risoluto che fusse lecito alle monache professe [quelle che avevano celebrato la professione solenne] di ballare con suoni dentro delli monasteri, e l’educande e serve uscissero fuori a fare il ballo in casa di loro parenti, e finito di ballare retornassero nelli monasteri”. Catarina però non ha parenti, né case in cui andare a curarsi con suoni e balli, per questa ragione già l’anno precedente era stata autorizzata a farlo in convento. Dato che l’autorizzazione aveva la validità di un solo anno, torna a chiederla per quello in corso. Segue una seconda lettera, datata all’anno successivo (1647), con un’ulteriore domanda di rinnovo della licenza di ballare, che sembrerebbe far emergere qualche riserva del vescovo locale[4], già autore della passata concessione, come l’accortezza di restare fuori dallo sguardo delle monache professe.

La vicenda descritta da queste preziose e vivaci testimonianze suscita grande interesse per diverse ragioni: in primo luogo, conferma quanto il fenomeno del tarantismo fosse diffuso nel Salento dell’epoca (“in quei paesi v’è moltitudine di persone che patiscono la sopra narrata infermità”); in secondo luogo, la descrizione del rito è tendenzialmente allineata a quelle contenute nelle diverse eruditissime trattazioni dello stesso periodo[5], la cui conoscenza è probabilmente ciò che porta Monson a ricorrere alla definizione “tarantella” per indicare la musica della cura, anche se occorre segnalare che di tale termine, che per quanto ne sappiamo esordisce proprio nelle opere citate[6], non c’è traccia nella fonte originale. Infine, aspetto ancora più rilevante, rappresenta un’ulteriore prova che le istituzioni ecclesiastiche considerassero il male della tarantola e le sue singolari cure come un fatto usuale, tanto da poterne ammettere, senza troppi problemi, la terapia coreutica addirittura nei monasteri[7]. Parrebbe dunque non emergere nessuna avversione o “repressione” da parte della Chiesa, con buona pace dei tanti che hanno sostenuto il contrario.

Appendice
Si riportano le descrizioni delle due lettere citate, gentilmente fornite dalla prof. Ssa. Sandra Taveri, che ringrazio per la collaborazione.

Documento n. 1:
Archivio Apostolico Vaticano, Congr. Vescovi e Regolari, Sez. Monache, novembre-dicembre 1646, lettera del 16 novembre 1646.

Eminentissimi e reverendissimi signori
Catarina Baccona della città di lecce humilissima oratrice dell’Eminenze Vostre, come si ritrova monaca educanda nel monastero della città di Lecce, e si ritrova oppressa dalla infermità della tarantola, alla quale infermità il maggior rimedio è la musica et il ballare, che in doi giorni che si balla si libera da quell’infermità et il remanente dell’anno si passa con salute, et in quei paesi v’è moltitudine di persone che patiscono la sopra narrata infermità; che però fu supplicata la sacra Congregazione a concedere licenza a tutte quelle monache, che patiscono la detta infermità di potere ballare con suoni dentro il medemo monasterio; per evitare il pericolo della morte alla dette inferme, overo per evitare il pericolo d’una lunghissima infermità; il quale remedio è stato concluso con collegi di più e diversi medici in quella provincia, del che fu informata la sacra Congregatione, dalla quale fu risoluto che fusse lecito alle monache professe di ballare con suoni dentro delli monasteri, e l’educande e serve uscissero fuori a fare il ballo in casa di loro parenti, e finito di ballare retornassero nelli monasteri; ma perché Eminentissimi Signori fra l’altr’oppresse con detta infermità v’è l’oratrice, che non ha né padre, né madre, né fratelli, né sorelle, né casa di parenti per andarvi abballare dalla sacra Congregazione stante la causa narrata fu conceduto licenza di ballare dentro del monastero per doi giorni solo per ciaschedun’anno, ad arbitrio di monsignor Vescovo, e così fu pratticato l’anno passato valendosi di questo medicamento del suono e del ballo dentro il medemo monasterio.
Supplica per ciò l’Eminenze Vostre a far grazia di conceder licenza all’oratrice di potere doperare quello medicamento del ballo e sono dentro del monastero nel corrente anno e per l’advenire le sia anco permesso valersi del sudetto rimedio ad arbitrio di monsignore vescovo, che l’haverà a grazia singularissima e pregarà Dio per la salute dell’Eminenze Vostre, ut Deus ecc.
Lecce
All’eminentissimi e reverendissimi signori cardinali della Congregazione de’ Vescovi e Regolari
Per Catarina Baccona, di Lecce

Documento n. 2:
AAV, Congr. Vescovi e Regolari, Sez. Monache, aprile-maggio 1647, lettera del 3 maggio 1647.

Eminentissimi e reverendissimi signori,
Catarina Baccone educanda nel monasterio della santissima Nuntiata di Lecce è inferma del male della tarantula e perché non ha parenti prossimi presso di chi uscendo dal monastero possa casarsi; supplica per tanto l’Eccellenze Vostre favorirla ordinare a monsignor vescovo di Lecce che permetta che l’oratrice possa ballare per curarsi del suo male come ballano l’altre monache inferme di simil male o almeno con li suoni e canti che entrano in detto monasterio per le monache, in loco appartato possa l’oratrice ballare mentre il vescovo non voglia che ciò faccia con l’altre monache unitamente. Che il tutto ecc.
Lecce
Nella Sacra Congregazione di Vescovi e Regolari
Per Catarina Baccone

 

[1] Monson riporta il cognome “Bavona”, mentre nei documenti originali si usa “Baccona” o “Baccone”.

[2] Sul tarantismo esiste una bibliografia molto ampia e in continuo accrescimento; oltre al classico La terra del rimorso di Ernesto de Martino (Il Saggiatore 1961), mi permetto di rimandare al mio Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale (Itinerarti 2021), che ne contiene una aggiornata.

[3] Dovrebbe essere il complesso del monastero delle Paolotte o degli Angiolilli e dell’annessa Chiesa dell’Annunziata, fondato nel 1542, demolito e ricostruito in forme barocche nella seconda metà del ’700, attualmente sede dell’amministrazione comunale col nome di Palazzo Carafa.

[4] Il celebre Luigi Pappacoda, vescovo del capoluogo salentino dal 1639 al 1670, grande promotore del rinnovamento barocco leccese.

[5] Si possono almeno citare le opere di Epifanio Ferdinando (Centum historiae seu observationes et casus medici, 1621), Athanasius Kircher (Magnes sive de Arte Magnetica 1654 – I ed. 1641) e Giorgio Baglivi (De anatome, morsu et effectibus tarantulae, 1696).

[6] In particolare Epifanio Ferdinando lo usò per la prima volta in maniera diffusa e Athanasius Kircher nel Magnes pubblicò le prime trascrizioni delle musiche usate nel rito.

[7] Sul tema del rapporto tra le istituzioni ecclesiastiche e il fenomeno del tarantismo, che in passato ha suscitato vivaci discussioni, mi sono soffermato in Il tarantismo mediterraneo, cit., pp. 128-130.

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