E’ il folk scoperto dai giovani

di Mirko Grimaldi (docente di Linguistica, Università di Lecce)
dal Corriere del Mezzogiorno del 3 settembre 2005

Caro direttore,
i ritmi terapeutici sprigionati sul palco di Melpignano s’intersecavano in un crescendo liberatorio e una domanda sembrava insinuarsi fra quelle note ipnotiche: com’è possibile che uno dei fenomeni socioantropologici più interessanti degli ultimi anni, nato dall’intuizione geniale di alcuni amministratori della Grecìa salentina, conviva con un Salento intero che nonostante proclami e slogan di vario tipo arranca spasmodicamente dietro l’individuazione di un modello di sviluppo socioeconomico ben preciso? Questa contraddittoria potenzialità ha sempre generato processi virtuosissimi e autodistruttivi insieme, impetuose spinte in avanti e irreparabili passi indietro, tanto da far esclamare a Carmelo Bene: «Tutta la Terra d’Otranto è fuor di sè. Se ne è andata chissà dove. É una terra nomade, gira su se stessa a vuoto». Eppure è innegabile che negli ultimi anni ci sia un fermento rilevante che coinvolge trasversalmente generazioni diverse e diversi settori. E allo stesso tempo è innegabile che non si riesce a far convergere in un progetto unico queste spinte innovative, e soprattutto non si riesce a dialogare proficuamente i protagonisti di quella che potrebbe essere la rinascita salentina.
In particolare, credo ci sia un cortocircuito all’interno della generazione dei 30-40enni, divisa fra coloro che sono rimasti nel Salento e coloro che per scelta, ma più spesso per obbligo, sono andati via e poi sono ritornati con l’illusione di dare un contributo decisivo al progresso della propria terra. I primi sono convinti di essere al centro di una rivoluzione epocale, mentre i secondi hanno sperimentato sulla propria pelle il senso profondo di un verso di Bodini: «Quando tornai alla mia terra del sud / io mi sentivo morire». Entrambe, poi, non riescono a comunicare con la generazione dei 50-60enni, che pure, in qualche modo, ha dato il via alla nuova stagione salentina.
Insomma, si sente la mancanza di una classe dirigente matura, capace di mettersi davvero in discussione, di rischiare, coalizzare una o più generazioni intorno a un progetto forte di sviluppo territoriale, sociale, etico e culturale che non sia solo del «venghino siori … venghino … lo spettacolo del Salento d’amare comincia». Una classe dirigente che abbia anche una funzione pedagogica, che incida sulla visione della realtà, che, in poche parole, sia capace di cambiare le menti, attraendo tutti i settori cruciali della società in un nuovo processo di sviluppo organico.
Tornando alla Notte della Taranta, se anche questo fenomeno non verrà presto inserito all’interno del progetto di cui si diceva c’è il rischio concreto che la riscoperta da parte delle giovani generazioni della musica folklorica diventi solo un processo «modaiolo». Perchè, a parte qualche raro tentativo, chi sta provando a trasmettere loro gli intricati rimandi simbolico-antropologici presenti a livello musicale e naturalmente testuale nella pizzica? Ecco, le istituzioni (scuola e università fra tutti, ma anche la politica) stanno perdendo un’occasione unica per avviare un programma complessivo di «recupero» della memoria linguistico-antropologica completamente persa dalle nuove generazioni.
Riuscire a far capire alle giovanissime generazioni che forse la Taranta non pizzicava veramente, ma che in quel simbolo, in quel rito, in quella musica la nostra gente del popolo ha cercato di esorcizzare il male di vivere, forse sarebbe già un bel modo per sovvertire un eterno stato di lucida immobilità che faceva dire a Bodini: «… Solo noi / viviamo come dati insolubili che non maturano». E ancora: « … Ci è destino rimpiangere / fin le cose che abbiamo / qui, vicino a noi, come se fossero / migliaia e migliaia remote».

FacebookTwitterGoogle+WhatsAppGoogle GmailCondividi

Lascia una risposta