Consulto medico sulla malattia che faceva ballare

Sul morso del ragno ha imposto da sempre il suo dominio l’indagine etno-antropologico: i riti, gli strumenti, le musiche… Poco investigata invece l’analisi «sanitaria». Nel Seicento e nel Settecento, clinici e scienziati hanno cercato le ragioni nosologiche

La forza d’attrazione del tarantismo, e della sua moderna trasformazione ritmica, l’abbiamo potuta constatare dalla recente trasferta della «Notte della Taranta» a Pechino. Faceva un certo effetto vedere in tivù tanti cinesi, pur in genere così compassati, saltellare e muovere ritmicamente le mani al suono della pizzica. Insomma il tarantismo è morto, viva il tarantismo! E ormai da anni si assiste a un interesse postumo sul fenomeno, che per secoli ha caratterizzato la Puglia: tanto è vero che nel Seicento la regione era raffigurata come una donna la cui veste brulicava di ragni e che aveva ai suoi piedi flauti, tamburrelli, violini, gli strumenti musicali per guarire dal morso del ragno. Tanti i convegni (il più importante si svolse a Galatina nel 1998 «Quarant’anni dopo de Martino»), tanti i volumi (soprattutto la collana curata dall’Istituto «D. Carpitella» per la Besa editrice), tante le rivisitazioni musicali… E tuttavia su questo pullulare di iniziative e di interesse si constata ancora un dominio «etno-antropologico» sul tarantismo, l’attenzione a ciò che è il rito, lo svolgersi della musicoterapia, le ragioni di una tradizione popolare sopravvissuta fino alle soglie del Duemila. C’è però – e non è secondario nella ricerca – un aspetto poco investigato: l’indagine medica sul veleno, nonché sull’influenza che aveva la musica sulla fisiologia del malato. Perché per secoli scienziati e medici dibatterono proprio su questo, scesero dalla Scandinavia o dall’Inghilterra fino in Puglia per verificare di persona il portento di una malattia dalla quale si guariva con la musica; o chiesero lumi a fidati uomini di scienza pugliesi. E ognuno dette il proprio responso e la propria diagnosi. E allora, perché se ne parla poco? «Le fonti di questo dibattito giacciono in riserve documentali ardue e accidentate che hanno sovente scoraggiato ogni intrapresa d’indagine», sostiene Gino L. Di Mitri, lo studioso di Soleto che da anni si è dedicato al tarantismo, promuovendo il grande convegno «Quarant’anni dopo de Martino». Proprio Di Mitri si è cimentato nell’impresa di tracciare una Storia biomedica del Tarantismo nel XVIII secolo, pubblicata di recente da Olschki (pp. XXIII-322, euro 34.00). Il Settecento è il secolo eletto dall’autore. Ma è chiaro che la sua indagine non può non tener conto del dibattito seicentesco, né tralasciare le posteriori indagini che l’800 pur dedicò al tarantismo. Ecco allora scandagliare le fonti antiche: dallo scettico Girolamo Mercuriale (1584) ai più accreditati e accreditanti Epifanio Ferdinando e Giorgio Baglivi. Ferdinando, pugliese, distinse nel tarantismo le modalità terapeutiche tra quelle puramente musicali e quelle eminentemente farmacologiche; il Baglivi, dalmata formatosi nel Salento, presentò una sua teoria di «fluidi nervei» e umori; ma va anche considerato l’iniziatore di una tradizione critica che attribuisce alla melancolìa i «carnevaletti delle donne», quando si evinca che non sono state morse dalla tarantola. Tra densità linfatiche, fluidi nervei, vapori umorali e atrabiliari… la percezione di una componente melanconica e isterica si affaccia timidamente nei resoconti, e viene avvalorata tra Sei e Settecento da studiosi come Richard Mead, Etienne François Geoffroy e Swiburne (che parlava di «vapori isterici»), per trovare il suo corifeo nel medico napoletano Francesco Serao che alla Tarantola dedicherà le celebri Lezioni accademiche, dopo le quali si credette – a torto – che il ragno pugliese fosse stato debellato del tutto dai Lumi della ragione. Poco prima e contemporaneamente al Serao, due studiosi pugliesi cercarono di analizzare fisiologia e velenosità della tarantola, il cosiddetto falangio apulo. Il monaco di Lucera Ludovico Valletta e il medico di Campi Salentina Nicola Caputi. I loro libri, editi nel 1706 e nel 1741, sono i più preziosi, non solo perché scritti da studiosi che operano sul campo, ma perché ci presentano casi clinici circostanziati e imparziali. Otto quelli del lucerino, ben 22 quelli del Caputi (la cui moglie, brindisina, a quanto pare, era anch’essa affetta dal morbo del ballo). Con puntigliosità i due scienziati descrivono anche le varie specie di tarantola, fissandosi soprattutto sulla «Lycosa tarentula» e sul più insidioso – ma non ancora additato come il più pericoloso – «Latrodectus tredecimguttatus». Caputi è il primo, nel 1741, a testimoniare il culto di S. Paolo a Galatina, come connesso al morso della tarantola. Dalla vasta analisi dei numerosi studiosi proposta dal Di Mitri non emerge solo una rassegna dell’aspetto «biomedico» del tarantismo, fin qui troppo negletto. Si profila invece la «fondazione di una categoria nosologica con tanto di nessi causali, sintomatici e terapeutici». Insomma, tutto questo disquisire in Europa del ragno non è – sostiene Di Mitri – «semplicemente la querelle oziosa sulle responsabilità venefiche di un piccolo ma insidioso aracnide, ma implicò, per esempio, le dottrine sul rapporto mente-corpo, sulla fisica dei suoni, sulla fisiologia e sulla neuropatologia». Naturalmente, tra un brano del Vallerius e quello del musicista Storace, tra mille testimonianze scovate qua e là (ragguardevole è l’apparato delle appendici, con la riproposizione di brani rarissimi e testimonianze di difficile consultazione), Di Mitri non rinuncia alle sue tesi etno-antropologiche, esposte come accuse a Ernesto de Martino: di aver ignorato l’onda lunga della danza e dei riti orgiastici dell’Ellade; ovvero di non essersi accorto del riesplodere del tarantismo con la Controriforma cattolica. Infine, a chiudere la pletora di studiosi, viaggiatori, curiosi chiamati a raccolta intorno al tarantismo, c’è padre Antonio Minasi che i ragni li mangiava per dimostrare che non erano velenosi e che «anzi raddolciscono il sangue».

tratto da La Gazzetta del Mezzogiorno
di Giacomo Annibaldis
pubblicato il 13/06/2006

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