Una conversazione con Sergio Torsello sull’uso pubblico della cultura popolare

1503249_10152098488180349_1122136832_nUna conversazione con Sergio Torsello sull’uso pubblico della cultura popolare(*)

Vincenzo Santoro

A Sergio Torsello mi legava una amicizia fraterna, costruita anche a partire da una comune “militanza” a favore dei temi della cultura popolare e durata quasi venti anni, fino alla sua prematura scomparsa. Fra di noi c’era un intenso scambio, praticamente quotidiano, fatto di lunghissime conversazioni – di persona, ma anche spesso per telefono mentre io ero a Roma – in cui discutevamo delle rispettive letture, dell’avanzamento dei nostri studi e ricerche, delle vicende legate al “movimento” della musica popolare salentina e degli sviluppi del festival della Notte della Taranta, all’interno del quale Sergio, grazie alle sue competenze e alle sue capacità – e, occorre dire, nonostante i non pochi problemi che gli sarebbero derivati dalla sua indipendenza – aveva man mano assunto un ruolo sempre più importante e ampiamente riconosciuto. Su questo argomento specifico le nostre opinioni divergevano, in quanto sull’esperienza melpignanese – a cui pure avevo contribuito nella fase iniziale[1] – ho avuto fin dalle primissime edizioni un giudizio critico, ma ciò non ci ha impedito di ragionarci su, in privato e pubblicamente. Insieme abbiamo lavorato su innumerevoli progetti e iniziative editoriali[2], a volte in collaborazione con altri studiosi e intellettuali che ci hanno onorato della loro amicizia, a partire da due maestri come Franco Cassano, il cui Pensiero meridiano fu per noi uno stimolo fortissimo, e Sandro Portelli, che tanto ci ha insegnato e con cui abbiamo condiviso preziosi progetti di ricerca, e che molto apprezzò anche lo straordinario saggio in cui Sergio ricostruì la biografia di Ugo Baglivo, avvocato di origine alessanese che partecipò alla Resistenza romana e finì ucciso dai nazisti alle Fosse Ardeatine[3]. L’iniziativa che svolgemmo con Portelli il 23 settembre 1999 ad Alessano in onore della memoria di Baglivo, a cui partecipò anche la figlia Simonetta, rimane nel mio ricordo come una delle esperienze più belle ed emozionante di tutta la mia breve ma intensa esperienza di amministratore.

Come è noto Sergio Torsello, intellettuale eclettico e sommamente curioso, era in particolare un raffinato studioso del tarantismo e della cultura popolare salentina, su cui ha prodotto un numero considerevole di scritti, in gran parte in forma di saggi brevi, interviste, recensioni, prefazioni eccetera. Nell’ambito della nostra collaborazione, decidemmo di creare all’interno del mio blog una sezione dedicata ad una vasta selezione di questi testi, già diffusi in volumi e riviste di vario genere, ripresi spesso con modifiche e ampliamenti, per renderli disponibili ad una fruizione più larga[4]. Ne entrò a fa parte anche la titanica compilazione della bibliografia sul “tarantismo mediterraneo” che, nata da una pubblicazione realizzata con Gabriele Mina[5], veniva da Sergio continuamente arricchita di nuovi titoli, esito del suo infaticabile e certosino lavoro di ricerca e dell’apporto dei tanti studiosi del “male pugliese”, dalla provenienza più varia, che trovavano in lui un riferimento preparato e disponibile. Una “tela infinita”, purtroppo interrotta dalla improvvisa scomparsa dell’autore, che forse rappresenta, in questo campo, la sua opera più importante e significativa.

Nell’aprile del 2006 accompagnai da lui Ilaria D’Auria, una studentessa che stavo aiutando nella preparazione della sua tesi di laurea per l’università di Bruxelles[6], conducendo interviste ad alcuni protagonisti del movimento musicale salentino. A Sergio avremmo chiesto di parlarci della sua personale esperienza nel confronto con i temi del tarantismo e della cultura popolare. Il testo che segue, che D’Auria trascrisse e che fu rivisto da Sergio[7], l’ho fortunosamente ritrovato poco dopo la sua morte, rovistando nel mio archivio alla ricerca delle tante cose scritte da lui. È un documento particolarmente prezioso, in primo luogo perché, per quanto ne sappia, è l’unico in cui Sergio racconta, con abbondante dovizia di particolari, la storia del suo per nulla lineare avvicinamento ai temi che tanto l’avrebbero poi appassionato. Un percorso in cui compaiono molti momenti condivisi, che accompagnano tutta la conversazione, in un modo che non smette di commuovermi. Ma anche per le stimolanti considerazioni che Sergio produce sulle vicende salentine, che considero in larga parte ancora assolutamente attuali.

 

Quale è stato il tuo percorso di avvicinamento allo studio della cultura popolare salentina?

Il percorso è stato molto tortuoso. Quando si comincia a interrogarsi su alcune cose, anche su temi politici, a sedici, diciassette anni, ero uno di quelli che aveva un rapporto abbastanza conflittuale con la musica popolare: i giovani di allora ascoltavano i grandi gruppi rock, vedevamo questa musica più come un retaggio del passato che in qualche modo ci ingessava.

 

Ma nella tua famiglia si ascoltava musica tradizionale?

No, questo anche perché vengo da una classica famiglia, il tipico ceto medio, che negli anni settanta era il prodotto di quella falsa idea di modernizzazione, per cui bisognava cancellare il passato, questo passato fatto di sofferenza, di miseria: le case non più con le volte a stella ma case con le volte piane, la modernità no? Anche le abitudini alimentari dovevano essere cambiate e a casa mia era questo che si desiderava, ed in qualche modo penso abbia influito. Poi anche quella dose di ribellione che si attraversa nell’età adolescenziale ci aveva portato a coltivare altri modelli, altri miti: la cultura rock, il progresso, il culturalismo. Il mio gruppo preferito erano i Genesis, amavo molto anche i Doors, tutto il progressive degli anni settanta, la cultura psichedelica. Però nello stesso tempo in quegli anni, a metà degli ottanta, comincia anche una fase di “impegno politico”. Nel senso di impegno personale, di scoperta, di riflessione su alcuni temi. L’incontro con la cultura popolare per me è un incontro quasi casuale, perché uno dei miei migliori amici dell’epoca, Giuseppe Cazzato, con il quale io, appunto, condividevo un percorso di impegno e riflessione politica, ad un certo punto mi parla di de Martino. Lui figlio di contadini, proprio figlio di contadini, la classica famiglia contadina, in una delle nostre tante discussioni mi dice: “possibile che tu, dopo tutte queste discussioni sui testi sacri – non lo so: il marxismo, il socialismo, il comunismo – non conosci de Martino? Non puoi non conoscere de Martino, i suoi lavori sulla cultura popolare, sul Mezzogiorno italiano”. E così comincio ad interessarmi, ma più per curiosità. Però nello stesso tempo questo mio amico mi fa quasi da guida, nel senso che mi introduce nel mondo popolare contadino del Salento: per due, tre estati di seguito ci siamo fatti tutte le fiere, tutte le feste che lui faceva da piccolo con suo padre. Lui adesso sta a Firenze da quando aveva diciotto anni, torna periodicamente, però lui da bambino conosceva perfettamente questo mondo perché suo padre contadino lo portava alla festa di San Rocco per comperare gli attrezzi, lo portava alla festa di Santa Marina per proteggerlo contro l’itterizia. Il mondo contadino aveva una cadenza calendariale, San Rocco era l’ultima festa dell’estate perciò serviva a fare le provviste per l’inverno: comperare la zappa nuova, comperare le semenze, comperare il bestiame. C’era tutto un mondo che non era soltanto la religiosità popolare, che aveva una forma così eclatante, ma che era anche legato a tutta una cultura materiale. Perciò è così che ho incominciato a scoprire la cultura popolare.

Il primo libro che ho letto, che per me è stata come un’illuminazione, è stato Le feste dei poveri di Annabella Rossi. Proprio rifacendo questo percorso attraverso le feste, le fiere ed il mondo contadino trovai questo libro, e fu illuminante perché scoprii pure la figura di Annabella Rossi, questa sua grande passione, il suo essere proprio dentro la storia che raccontava, che poi è un atteggiamento tipico degli anni sessanta-settanta. Comunque si riflette sull’impegno civile – sull’impegno politico – che è in qualche modo a monte rispetto all’attività scientifica, all’attività di ricerca, cioè questo costante tentativo di coniugare le due cose. Dopo ho cominciato a leggere La terra del rimorso. Però in quel momento – la seconda metà degli anni ottanta – anche la realtà degli studi locali, il “movimento” che c’era allora su questo fenomeno, era ridottissimo: c’erano due, tre studiosi che se ne occupavano, c’era un solo gruppo di musica popolare che faceva la riproposta. La realtà era completamente diversa perché quest’effetto della modernizzazione, soprattutto negli anni ottanta, relega la musica popolare a qualcosa di cui bisogna liberarsi più che qualcosa da valorizzare.

Però a me interessa molto questa componente antropologica, soprattutto nell’ottica demartiniana, lo studio della cultura contadina come possibilità di entrarci dentro, di trasformare la realtà sociale piuttosto che limitarsi ad osservarla. Comincia così questo mio interesse, in special modo per il tarantismo. Di questo fenomeno mi interessava anche il fatto che all’interno di una fenomenologia così complessa ci fossero una serie di implicazioni non soltanto di carattere antropologico, o soltanto di carattere economico, legate alle condizioni di miseria in cui vivevano le popolazioni del Sud in quegli anni, ma con una forte componente culturale.

Quindi comincia il percorso mio, mettendomi anche in contatto, negli anni novanta, con degli studiosi, come Luigi Chiriatti, che a quell’epoca era uno dei pochi, a parte due, tre altri, che si occupava di questi temi, cercando di tenere vivo anche l’interesse attorno a tematiche che erano considerate, anche all’interno di una certa intellettualità di sinistra, come un residuo, un’idea che occorreva abbandonare. Perché erano gli anni settanta, gli anni dell’emergere del noi come soggettività, della classe operaia, insomma c’era tutto un dibattito. Dibattito che nel Salento giunge sempre con ritardo, questo un po’ per le caratteristiche stesse della provincia ma anche per l’incapacità di elaborare, di essere al passo con quelle che sono le elaborazioni più avanzate in questo campo. Sono cose che vediamo anche adesso, quest’incapacità, non dico anticipare, ma di stare al passo. Se noi da un lato abbiamo questo fenomeno della pizzica – che in qualche modo è esploso anche indipendentemente da noi, e che quindi ci ha collocati quasi come una punta avanzata di quello che succede in questo campo, forse in Europa – dall’altro abbiamo questo ritardo di analisi, proprio dal punto di vista delle categorie interpretative della cultura popolare, di che cos’è oggi il popolare. Gli strumenti di analisi che utilizziamo, spesso – ma lo dico senza presunzione, soltanto come una presa d’atto – sono strumenti oramai superati come modalità di approccio; le tecniche di ricerca antropologica, di archiviazione della cultura popolare… ma qui ovviamente entriamo in un campo abbastanza più complesso.

 

Ritorniamo al punto. In quel momento cominci anche ad ascoltare musica popolare o sono solo riflessioni intellettuali?

No. In quegli anni ascolto musica ma non popolare. Il mio interesse è più rivolto verso le tematiche antropologiche. Alla musica popolare arrivo un po’ più tardi, quando comincia questo risveglio, anche con la frequentazione di Luigi Chiriatti, perché lui ha sempre avuto molto forte quest’attenzione proprio verso l’aspetto musicale. E quindi a quel punto comincia il mio interesse, che poi ovviamente coincide con l’esplosione intorno al ’93/’94 – perché questa più o meno è la data – di quello che oggi noi chiamiamo il “movimento della pizzica”, quindi questa riscoperta più compiuta.

 

Questa cosa del “movimento della pizzica” poi è una definizione nostra.

Sì, era una nostra intenzione, nel senso che è una formula che serve ad identificare…

 

Per non utilizzare la categoria del “neo-tarantismo”.

Sì, soprattutto in polemica con tutti questi neologismi: neotarantismo, neotradizionalismo, neotribalismo, che non rendono pienamente conto della complessità di un fenomeno, in particolare poi il neotarantismo mi sembra una cosa anche abbastanza pericolosa. Tra l’altro il termine neotarantismo – ho avuto modo di verificare, non ero sicuro, ma ora sono certo – è ripreso da Georges Lapassade che lo usa per la prima volta nel 1980, e viene pubblicato nel 1982 in Gens de l’ombre, questo suo testo in francese – ora finalmente ristampato in italiano – in cui lui, per descrivere il fenomeno degli anni ottanta, usa proprio il termine neotarantismo, cioè nuovo tarantismo. Poi spiega ciò che vuole dire, che è una cosa completamente diversa: vuole dire, sulla scorta di quelle che erano allora le informazioni della gens etnografica locale – come alcuni studi di Chiriatti – che il tarantismo di una volta era un tarantismo completamente contadino, almeno quello studiato da de Martino, mentre adesso abbiamo un tarantismo che è anche un tarantismo che intacca, si espande nei ceti medi. Ci sono alcuni casi di infermieri, di impiegati che diventano tarantati. Quindi lui usa questo termine per indicare questi nuovi fenomeni. È anche interessante vedere come si attribuiscano significati diversi ad un termine che è stato pensato e coniato per dare altre spiegazioni.

Perché il neotarantismo di cui parla Anna Nacci è tutt’altra cosa, probabilmente una derivazione di quelli che possono essere i suoi studi, però mi sembra una cosa scarsamente condivisibile, perché il tarantismo non esiste più, quindi parlare di neotarantismo mi sembra addirittura una cosa pericolosa, perché c’è il rischio non soltanto di reinventare una tradizione – che è una cosa completamente diversa – ma anche di mettere in moto tutto quel meccanismo dell’esotismo, dello sguardo esotico che si riversa sull’altro, descrivendo poi una realtà immaginaria, perché di fatto non è così, non ci sono dei nuovi tarantati. C’è un fenomeno che recupera questa memoria, che si confronta costantemente con questa memoria, ma nel quadro di queste pratiche di reinvenzione e non certo per riproporre quel modello, come invece sembrerebbe a tratti dalle cose che scrive Anna Nacci. Però questo è un dato interessante, che il termine venga usato per la prima volta da Lapassade.

Poi c’è un altro problema, che Lapassade è uno che ha avuto un’influenza enorme, soprattutto per quello che è successo nel Salento. È un grandissimo studioso, Gens de l’ombre è un testo non molto rigoroso dal punto di vista scientifico – anche perché utilizza maglie disciplinari molto ampie, sconfina in vari campi dall’antropologia alla sociologia – però è un libro bellissimo perché è un testo di auto-etnografia, cioè lui fa etnografia su se stesso, descrive come lui sia stato iniziato alla scoperta di riti di transe di tutto il Mediterraneo (i rituali gnawa, ma anche il tarantismo). Perciò è una cosa molto bella, anche molto moderna, considerando che è stata scritta più di vent’anni fa.

Lapassade per lungo tempo ha posto anche un’ipoteca sugli studi successivi fatti nel campo del tarantismo, perché quando è venuto nel Salento, prima nel 1980 poi nel 1981 per il progetto teatrale Il ragno del dio che danza, era il primo grande studioso che dopo de Martino veniva qui a studiare lo stesso fenomeno. E tutti gli studiosi locali, quei pochi che c’erano, in qualche modo sono stati influenzati da lui. Luigi Chiriatti, quando viene Lapassade qui, scrive addirittura un testo con lui, un testo che viene pubblicato in una rivista locale, però poi – dieci anni, dodici anni dopo – esce il primo libro di Chiriatti sul tarantismo, Morso d’amore, e viene pubblicato con un’introduzione di Lapassade. Ha avuto un’influenza enorme. Però c’è da dire anche che dei suoi epigoni salentini alcuni hanno interpretato male alcune sue formule, alcune interpretazioni, alcune letture che ha dato del fenomeno – a volte io credo anche molto raffinate, a volte invece anche molto approssimative, perché come tutti si può anche sbagliare. Faccio un esempio proprio banale – a parte la questione della transe sulla quale potremmo discutere per ore – ma il fatto che lui, per esempio, colleghi il tarantismo alla danza delle spade, dando valore anche all’ipotesi di Marius Schneider, porta un po’ fuori da quell’impostazione più storicistica che mi sembra invece la più attendibile.

Però, al di là di questo, ha avuto un ruolo importantissimo, soprattutto perché non è stato soltanto lo studioso che è venuto qui, ha analizzato il fenomeno e poi se n’è andato altrove a scrivere un libro: la sua idea dell’osservazione partecipante ha portato di fatto a far crescere questo movimento, perché lui è anche stato quello che ha spinto il fenomeno, anche con delle scelte discutibili. Per esempio teorizzava il fatto che i Sud Sound System fossero i nuovi tarantati: questa era una cosa che stava solo nella sua mente, perché addirittura i Sud Sound System stessi lo sconfessavano, però lui continuava su questa linea. Poi questa sua interpretazione è stata quella che è passata, anche grazie ai mass media che hanno subito colto un’interpretazione suggestiva. Perciò Lapassade ha avuto sicuramente una funzione di grande importanza, come tutto il suo lavoro sulla scena hip-hop salentina: è stato il primo momento in cui si è cominciato a riflettere sul rapporto tra la tradizione e la contemporaneità, cioè su quello che succedeva concretamente in quegli anni ed il rapporto con la tradizione, con la cultura popolare. In questo senso ha avuto sicuramente una funzione fondamentale, fermo restando alcune discutibili interpretazioni, anche quelle mutuate dagli studiosi locali, che erano direttamente collegati a lui, che si facevano in qualche modo interpreti del suo pensiero.

Dopo questa fase nei primi anni novanta, accade che già nel ’96, ’97 proprio con te, Vincenzo – ci conosciamo in quegli anni, forse anche qualche anno prima – cominciamo a tessere questo rapporto di riflessione comune su alcuni temi, anche con Gigi Chiriatti. Quando nel ’97 vieni eletto consigliere comunale ad Alessano, quindi inizi ad occuparti di organizzazione culturale, in quel periodo incomincio a collaborare anch’io. Avevamo avviato una riflessione partendo dall’ambito locale ma allargando un po’ la prospettiva ad uno scenario più ampio. Nel ’99 vengo addirittura a lavorare qui, nel Comune di Alessano, occupandomi dell’ufficio stampa, come collaboratore per le attività culturali. Quindi iniziamo una vera e propria attività sulla base di queste riflessioni assumendo una prospettiva più ampia, nel senso che le traduciamo nella pratica concreta di una politica culturale centrata proprio su questo tema, cioè sul rapporto con la tradizione, sul rapporto con la cultura popolare, insomma su questi temi iniziamo un lavoro in un certo senso anche anticipatorio. Per la prima volta cominciamo, in modo disorganico, forse anche solo intuitivo, a porre il problema di quello che si potrebbe chiamare “l’uso pubblico della cultura popolare”, che oggi è invece uno dei temi di maggiore interesse nel dibattito antropologico internazionale.

Nei primi anni novanta comincio a collaborare con un quotidiano locale, “Il Quotidiano di Lecce”. Faccio il corrispondente per il Capo di Leuca, il cronista locale. Nel ’99 invece inizio a collaborare per la pagina della cultura occupandomi di questi temi – tarantismo, cultura popolare – in modo specifico: la maggior parte degli articoli che ho scritto – recensioni di libri, interviste, servizi su convegni – sono frutto dell’attività che facciamo insieme e che ci fa anche conoscere. Perché come ho detto prima, anche in modo anticipatorio, siamo tra i primi Comuni che cominciano ad organizzare, in modo quasi sistematico, concerti di pizzica ma anche momenti di riflessione, come rassegne di filmati, mostre sul tarantismo: cioè avviamo un lavoro di discussione pubblica su questi temi, coinvolgendo anche la cittadinanza ma soprattutto inaugurando un rapporto di scambio e di riflessione comune, anche con personaggi come Franco Cassano e Sandro Portelli che – non sappiamo perché – ci onorano della loro stima e della loro amicizia. Quindi incominciamo una serie di cose con loro, che hanno anche una grande visibilità.

È il 1998 quando il Comune di Alessano aderisce all’Istituto Diego Carpitella. Alcuni Comuni, per dare una risposta alla richiesta da parte di una serie di operatori locali di fare un centro che più organicamente si occupasse di certe cose, fondano l’Istituto Carpitella, che sarà la prima cosa che verrà attivata.

Tra l’altro nel 1997, nell’assemblea costitutiva del Carpitella, noi siamo presenti a livello personale come studiosi, come operatori, perché quell’iniziativa la organizza Gigi Chiriatti in collaborazione con l’Istituto de Martino. L’idea era quella di fare nel Salento una sezione staccata dell’Istituto de Martino. Il Comune di Alessano aderisce, e si crea un rapporto anche con Sergio Blasi. L’obiettivo dell’Istituto Diego Carpitella è proprio quello di fare documentazione, ricerca. L’ingresso di due componenti nel comitato scientifico, Maurizio Agamennone e Gianfranco Salvatore – che poi sono quelli che hanno accolto per primi quest’idea – ha portato Gigi Chiriatti ad allontanarsene perché Gigi Chiriatti prima fonda l’Istituto Carpitella e poi entrano loro, che sono due docenti universitari, uno etnomusicologo l’altro musicologo di chiara fama, perciò quando si viene a decidere sul presidente, Chiriatti viene fatto fuori e in qualche modo, per reazione, abbandona il campo. Allo stesso tempo, mentre si discute di come avviare quest’attività, si parla anche di organizzare un momento spettacolare che potesse dare visibilità al “movimento della pizzica” che di fatto esisteva già. Dunque nel 2001 – quando all’interno dell’Istituto Carpitella saltano i rapporti tra i vari componenti del comitato scientifico provocando la contrapposizione dei due direttori artistici che si allontanano dall’Istituto – Sergio Blasi ci chiama e ci chiede di collaborare alla Notte della Taranta, e sarà Vincenzo ad abbandonare subito il campo perché convinto che non ci siano gli spazi per lavorare. La Notte della Taranta, già nel ’98, aveva aperto un dibattito molto duro sulla cultura popolare, sulla musica popolare.

 

Inizialmente l’idea di promuovere un momento spettacolare è di Gianfranco Salvatore.

Questa è un’idea sicuramente di Gianfranco Salvatore.

 

Voleva fare la “Notte del Tamburello”.

Sì. Doveva essere una cosa che si faceva a Roca, una notte di musica a Roca, in un posto anche altamente simbolico. Però poi la cosa prende strade diverse, perché sin dal suo apparire provoca questa profonda divisione tra i musicisti, gli operatori, e poi diventa una frattura sempre più grande.

Comunque, per tornare alle vicende personali, nel 2001 se Vincenzo decide che non sia il caso di collaborare ed entrare in questa storia, io invece sono un po’ più possibilista. Quindi inizia questa storia anche mia, personale, all’interno della Notte della Taranta.

Prima ci sono anche delle pubblicazioni, la nostra riflessione prosegue e sfocia nel 2002 in quel libro, Il ritmo meridiano, che ancora oggi credo sia il compendium più attendibile sul dibattito contemporaneo sul “movimento della pizzica” e sulle sue molteplici implicazioni, sul tema dell’identità, sul rapporto tra tradizione e modernità. Quel libro è il risultato di un dibattito che noi avevamo già iniziato anni prima: con Franco Cassano abbiamo discusso a lungo su questi temi, siamo andati a trovarlo – e Franco Cassano non è uno che scrive sul giornalino della parrocchia – siamo anche stati criticati per questo, siamo stati anche accusati di essere “meridianisti”: non più meridionalisti ma meridianisti, cioè seguaci del “pensiero meridiano”. Anche Sandro Portelli ha collaborato a quasi tutte le iniziative che abbiamo fatto in questi ultimi sette, otto anni, ma anche Gianni Pizza, con il quale abbiamo avuto un confronto in parte anche molto franco, molto aspro per certi versi, però un confronto di grande interesse, come la lettera sua presente nel Ritmo meridiano, che io considero ancora una delle cose più lucide ed anche più interessanti che siano state scritte in questi ultimi anni. Sempre per il discorso che facevamo prima: non tanto per quello che lui dice, che come tutte le cose che uno dice possono essere più o meno condivisibili, più o meno esatte, ma proprio per questo scambio, per questa capacità di dialogare, per questo continuo intreccio di sguardi tra gli autori locali ed un antropologo che viene da fuori, che poi sono temi del dibattito antropologico internazionale. Si sono scritti centinaia di libri su queste cose, da Clifford in poi, proprio sulla pratica etnografica, questa etnografia che diventa quasi retrografia, che diventa un logos, cioè una forma di interpretazione e non soltanto la semplice raccolta di dati ma proprio la pratica sul campo, che diventa in realtà il punto di coagulo di tutta una serie di dinamiche che sono relazionali, soggettive, sociali, politiche. Di come bisognerebbe avere la capacità non solo di esserne coscienti ma di essere in grado anche di analizzarle. Per questo credo che quel libro è stato una delle cose più importanti che siano uscite. Non lo dico perché l’ho fatto io, anzi, io spesso sono anche molto più critico sul mio di lavoro, però quello è un libro che nonostante tutto ha anticipato i tempi – perché è uscito nel 2002 e c’è stato più o meno un anno e mezzo di lavoro dietro – ma di quei temi allora non ne parlava nessuno.

Il tema era sempre il tarantismo dal punto di vista storico, dal punto di vista antropologico, le varie categorie interpretative che in realtà non riuscivano a cogliere il fenomeno in atto, che è soprattutto un fenomeno sociale e politico. Però, per tornare sempre a questo legame che abbiamo tessuto negli anni, con Vincenzo nel 2002 portiamo a compimento per la prima volta un esperimento di indagine su una realtà specifica con la metodologia della storia orale, e qui entra in campo l’insegnamento di Sandro. Pubblichiamo quel libro sulle tabacchine[8] che penso sia l’unica ricerca sulla storia orale fatta nel Salento. Tra l’altro questa nostra idea di fare anche una parte didattica, di formazione[9], è stata considerata come un esempio da seguire anche fuori dal Salento, ha avuto una certa risonanza, insomma è un libro importante e formativo anche per noi, perché in certi momenti abbiamo anche un po’ improvvisato, sempre dentro questa riflessione più ampia che da anni Portelli porta avanti traghettando la storia orale da disciplina negletta a oggi, che è considerata uno degli strumenti di indagine – almeno per alcuni periodi in cui mancano effettivamente i documenti – uno degli strumenti più importanti e più raffinati. E l’uso che ne fa Sandro è anche un uso capace di intervenire su meccanismi psicologici di selezione della memoria, portando ad un livello altissimo questa metodologia di ricerca, con i risultati che poi tutti conosciamo, perché è un libro di storia[10] a vincere il premio Viareggio, un premio vinto da Morte e pianto rituale di de Martino. E quindi grosso modo questo è il mio percorso.

 

Per la Notte della Taranta a quante edizioni collabori?

Ho collaborato a partire da allora. Poi nel 2003 ho avuto l’incarico di occuparmi dell’Istituto Carpitella, sempre in questa fase di transizione che però oramai dura da cinque anni, senza soluzioni in vista a parte questa della Fondazione, ed ho continuato ad occuparmi della Notte della Taranta durante questi cinque anni. Ho proseguito l’attività di studio, ho pubblicato nel 2004 La tela infinita, con uno studioso come Gabriele Mina, benché giovanissimo sicuramente uno studioso molto importante, con cui è nato un sodalizio – sempre casuale – che però dura da anni. Ci siamo conosciuti in occasione della presentazione di un libro, poi è seguito uno scambio epistolare e poi è nato questo lavoro che è stata un’esperienza molto formativa per noi, perché abbiamo scoperto degli ambiti di dibattito sconosciuti. Fuori dall’Italia – penso anche alla Spagna – abbiamo scoperto tutta una tradizione di studi che non si conoscevano – se non delle punte che emergevano – anche di bibliografia meno specialistica. In realtà c’è un dibattito straordinario, che parte anche lì dal Settecento e che arriva fino ad oggi. Comunque ci siamo fatti un’idea di come questo tema abbia, nel corso dei secoli, interessato varie persone.

Io nel 2000 avevo già curato il memoriale di Luigi Stifani, Io al santo ci credo, che è forse il libro più bello scritto sul tarantismo – ma quello scritto da Stifani[11], non i nostri saggi. Ho scritto poi diversi altri saggi, articoli, ho scritto un’infinità di cose sul tarantismo. Io, anche nel campo della ricerca antropologica, sono un autodidatta, nel senso che non ho una formazione specifica in quel campo: è una formazione che mi sono fatto da solo. Poi rapporti con gente come Sandro Portelli, Franco Cassano, rapporti che fanno crescere, rapporti importanti, al di là di quello che uno può pensare, essere d’accordo o no. Uno degli elementi fondamentali che riusciamo a cogliere nella analisi che facciamo con Vincenzo è proprio il ruolo che esercita nella costruzione e nella nascita del “movimento della pizzica” l’intellettualità locale. E questo lo capiamo soprattutto nel rapporto con Edoardo Winspeare, quando noi lo intervistiamo ma in particolare quando noi decidiamo di ospitare – cosa di cui porti il merito Vincenzo per la tua responsabilità politica nell’amministrazione comunale – le riprese di una parte importante del suo film Sangue vivo ad Alessano. Ed anche in questo rapporto con Edoardo riusciamo a capire come poi, in realtà, in questa nascita del “movimento della pizzica” ci siano tutta una serie di fattori, che sono veramente molto complessi, che sono anche fattori internazionali: la globalizzazione, qualcuno dice anche questo mercato dell’esotico, che veicola merci, che veicola anche culture, simboli, merci – che veicola culture che poi diventano una merce – il fatto che questo perdersi in un mondo globale ti porti a cercare l’identità tua particolare, la piccola patria. Però, tra tutto questo, c’è anche la funzione fondamentale dell’intellettualità locale, che in qualche modo sceglie, quasi in un modo scientifico, di dare un certo indirizzo. Quando Edoardo dice in quell’intervista[12] “noi volevamo fare una scelta politica, di portare la pizzica e sganciarla da quest’elemento di sofferenza, e portarla ad una critica dell’esistente, anche attraverso questa rivalutazione dell’estetica, questa ricerca della dimensione comunitaria”, questa è una cosa fondamentale, nel senso che noi in quel momento la intuiamo ancora di più, forse, per una frequentazione, una pratica quotidiana.

Poi in realtà scopriamo che in un’intervista Clara Gallini afferma esattamente le stesse cose che dicevamo noi quando sostiene che il movimento salentino è un movimento che si conforma ad una sorta di standard internazionale ed il ruolo fondamentale è giocato dall’intellettualità locale, che poi dà il marchio al prodotto locale che si intende valorizzare, che può essere la danza, può essere il cinema. Quindi il ruolo degli intellettuali locali è fondamentale, compresi noi stessi, perché noi abbiamo dato un’impronta molto precisa a questo movimento, abbiamo sempre cercato di ricollegarlo a quest’esigenza di un’interpretazione politica. Però con Edoardo abbiamo la precisa consapevolezza di questo meccanismo fondamentale.

Deve farci riflettere su come siamo tutti dentro questa regola, cioè che i condizionamenti sono reciproci, che anche noi siamo condizionati da certe dinamiche. Però quello è uno snodo fondamentale: anche l’attività di Edoardo ha un impatto decisivo su questo movimento. Se tu vedi ancora oggi – non lo so, faccio un esempio, a parte che lui ha questa capacità mediatica, come si muove, riesce ad avere anche una risonanza mediatica – però anche la famosa definizione di Edoardo della pizzica de core, che è una tassonomia che si è inventato lui, per dire la pizzica di corteggiamento[13] è una cosa che non esiste, che non è mai stata rinvenuta in tanta etnografia che c’è, questa è una cosa sua, perché lui spinge una componente molto estetizzante, molto sensuale, questa pizzica come danza di corteggiamento, con un’attenzione per le movenze coreutiche; però resta una teorizzazione sua, non ha riscontri nella pratica etnografica, la pizzica de core non esiste, non la chiamavano così gli anziani. Questo per dirti quanto lui abbia influito, nel bene o nel male, sulla nascita di questo movimento. Nel bene sicuramente per il fatto di aver consentito un salto di qualità notevole, almeno sul piano dell’immagine; poi però ad un certo punto anche lui è stato forse un po’ preda del fatto di aver troppo accentuato proprio la dimensione estetica, quasi ludica della pizzica, facendo passare in secondo piano altre dimensioni.

 

Ma a posteriori cosa ha dato tutto ciò al tuo rapporto con il Salento, al tuo collocarti in questo posto?

A livello personale mi ha dato la consapevolezza della straordinaria ricchezza che abbiamo qui. Non soltanto il patrimonio immateriale ma anche la straordinaria ricchezza di intelligenza e di talenti che abbiamo. Abbiamo le divisioni che ci sono fra noi ma al di là delle differenti interpretazioni mi ha dato veramente la consapevolezza della straordinaria ricchezza che spesso disperdiamo proprio in queste continue polemiche. Lo dico davvero: questa ricchezza di talenti, non soltanto nel campo musicale, ma anche della cultura, nel campo intellettuale in generale. E ripeto, non solo la ricchezza del patrimonio che noi abbiamo, patrimonio immateriale di cultura e di religiosità, non soltanto. Perché noi, sino ad ora, abbiamo conosciuto soltanto un aspetto che è quello più eclatante, che è quello della magnificenza del barocco, perché il Salento questo è: una grande esplosione di arte. Invece abbiamo scoperto oggi una cultura marginale che possiede un’enorme ricchezza di modalità di espressioni e anche profondità, un vero e proprio mondo culturale. Ovviamente con tutti i necessari distinguo che forse abbiamo troppo in fretta abbandonato, che abbiamo troppo in fretta sacrificato: ricordiamoci che il mondo contadino, di cui oggi si fa spesso una sorta di apologia, è stato un mondo di grandi sopraffazioni, di miserie; però ricordiamoci anche che ci sono alcuni valori dei quali oggi probabilmente sentiamo la mancanza: quest’idea di comunità, di rapporto con l’ambiente. Ed è forse questa la cosa migliore, almeno per me, quella che più mi è rimasta in questi anni, al di là dei singoli destini personali. E forse tra qualche anno impareremo anche altro, speriamo.

 

(*) Testo originariamente apparso su Pagine d’oro e d’argento. Studi in ricordo di Sergio Torsello, a cura di Manuel De Carli e Paolo Vincenti, Edizioni Kurumuny 2020, e ripreso qui in occasione dei dieci anni della prematura scomparsa di Sergio.

[1] In particolare da consigliere comunale delegato alla cultura di Alessano – ruolo che svolsi dalla primavera del 1997 agli inizi del 2000 – proposi la delibera con cui il Comune aderì come socio fondatore all’Istituto “Diego Carpitella”, che comprendeva inizialmente anche Melpignano, Cursi, Sternatìa, Cutrofiano e Calimera. L’Istituto cominciò ad organizzare il festival della Notte della taranta nell’agosto 1998, prevedendo fin dall’inizio anche una tappa ad Alessano, unico Comune al di fuori dell’area della Grecìa. Cfr: S. Torsello, La Notte della taranta. Dall’Istituto “Diego Carpitella” al progetto della Fondazione, in «L’Idomeneo», 9, 2007, ma 2008, pp. 15-33 e V. Santoro, Il ritorno della taranta. Storia della rinascita della musica popolare salentina, Edizioni Aramirè, 2009, pp. 148-163.

[2] Con Sergio Torsello abbiamo pubblicato: Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento, Lecce, Edizioni Aramirè, 2002; Tabacco e tabacchine nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento, San Cesario di Lecce, Manni editore, 2002; Il Salento levantino. Memoria e racconto del tabacco a Tricase e in Terra d’Otranto, Lecce, Edizioni Aramirè, 2005. Insieme abbiamo collaborato a: La teologia degli oppressi. Antologia di scritti e interventi di don Tonino Bello, San Cesario di Lecce, Manni editore, 2003 (con Alessando D’Elia, Salvatore Leopizzi, Donato Valli e Nichi Vendola); Uccio Aloisi. I colori della terra. Canti e racconti di un musicista popolare, Lecce, Edizioni Aramirè, 2004 (con Roberto Raheli). Nel biennio 2009-2010 curammo insieme il progetto “La taranta nella rete”, organizzato dal Comune di Melpignano (Le) in collaborazione con l’Istituto Diego Carpitella, nell’ambito del programma “Rete dei Festival aperti ai giovani”, promosso dall’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani e sostenuto dal Ministro della Gioventù. L’iniziativa – decisamente ambiziosa – si proponeva di offrire ai giovani interessati un percorso di approfondimento riguardo le problematiche connesse alla conoscenza, alla conservazione, alla valorizzazione e alla rielaborazione creativa delle musiche e delle culture di tradizione orale (maggiori informazioni a questo indirizzo: https://latarantanellarete.wordpress.com/ ). Al suo interno fu promosso anche il bando “La taranta laureata”, dedicato a tesi di laurea sviluppate negli anni immediatamente precedenti che affrontavano temi legati al “movimento” della musica salentina. I cinque giovani studiosi che furono selezionati dal bando (Gianni D’Elia, Giulia Urso, Alexandra Rieder, Adriano Castigliego, Flavia Gervasi) produssero poi dei sintetici saggi che confluirono nel volume Sui patrimoni immateriali del Salento e del Gargano: problemi e prospettive, che, a nostra cura, fu pubblicato da Squilibri nel 2010.

[3] Il saggio fu pubblicato originariamente sulla rivista «Apulia» con il titolo Ugo Baglivo, un salentino alle Ardeatine, nel numero dicembre del 1996. Fu in seguito riproposto, con ampliamenti e integrazioni, in un libretto autonomo, dal titolo A Roma un giorno di primavera. Ugo Baglivo, un alessanese alle Ardeatine, Alessano, I quaderni della Libreria Idrusa, 2006.

[4] Il tutto è disponibile all’indirizzo http://lnx.vincenzosantoro.it/2016/04/19/la-tela-infinita-di-sergio-torsello/

[5] G. Mina, S. Torsello, a cura di, La tela infinita. Bibliografia degli studi sul tarantismo mediterraneo 1945-2004, Nardò, Besa, 2004 (nuova edizione riveduta e ampliata 2006).

[6] La tesi, con il titolo Du tarentisme au néotarentisme: étude d’une pratique prise dans le mouvement de globalisation, fu discussa nell’autunno del 2006 presso l’Université Libre di Bruxelles.

[7] E successivamente revisionato per la pubblicazione nel mio recente libro Rito e passione. Conversazioni intorno alla musica popolare salentina, Alessano, Itinerarti, 2019, in cui sono presenti anche altre interviste a protagonisti del “movimento”.

[8] Tabacco e tabacchine nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento, Manni, 2002, riproposto in edizione rivista ed ampliata e con un cd audio nel 2005 dalle Edizioni Aramirè con il titolo Il Salento levantino. Memoria e racconto del tabacco a Tricase e in Terra d’Otranto.

[9] Nel progetto di ricerca che portò alla realizzazione del libro era prevista anche una fase di formazione all’uso delle fonti orali coordinata da Sandro Portelli.

[10] Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma, 1999.

[11] Luigi Stifani, Io al santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate, Aramirè – Istituto Ernesto de Martino, 2000 (con una introduzione di Alessandro Portelli). Il titolo del contributo di Torsello è Luigi Stifani ne La terra del rimorso e altri scritti, pp. 21-29.

[12] Cfr. l’intervista a Edoardo Winspeare, in Rito e passione, cit, pp. 165-70.

[13] In realtà la paternità della definizione “pizzica de core” dovrebbe essere dello studioso e operatore culturale Giorgio Di Lecce. Su questo argomento si può leggere il mio saggio Il rinascimento della pizzica, in Franca Tarantino, Vincenzo Santoro, Il ballo della pizzica pizzica, Itinerarti, 2019, pp. 19-42.

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