Riporto qui alcune considerazione del maestro Roberto De Simone su Ernesto de Martino e il tarantismo, contenuti nel libro Tra le pieghe della storia. Conversazioni con Alessandro Pagliara e Anita Pesce, Scienze e Lettere, Roma 2020
(p. 42)
Ecco un altro ‘santo’ da canonizzare, in diverso senso! Oggi egli è immeritatamente rimosso e dimenticato, mediante una damnatio memoriae sul suo insigne operato scientifico. De Martino è il primo degli antropologi a coniugare l’antropologia con la storia, e a indagare tra le pieghe della Storia ciò che essa non ha tramandato ai posteri. Si tratta di una nuova scuola, prodotta dall’indagine sul tarantismo, precedentemente inquadrato secondo il nozionismo della nostra cultura, ancorata a un crocianesimo positivistico.
[…] Il tarantismo era stato indagato e ghettizzato medicamente sempre come un fenomeno di carattere isterico: vale a dire, inquadrato sull’esame di persone ritenute inferme mentalmente, che ballavano per liberarsi dal morso velenoso di una taranta. La teoria di de Martino superò la tradizionale posizione razionale, viziata poi dalle teoria del Lombroso, il quale non concedeva neanche ami mistici cattolici una posizione esente da crisi di psittacismo. Per il Lombroso, anche San Francesco rientrava nella sfera degli alienati mentali.
(pp. 62-64)
De Martino ha rivoluzionato la ricerca sull’informatore casuale, orientando gli studi sulla necessità antropologica – lì dove era possibile – del rilievo sincronico tra manifestazione e funzione linguistica della stessa.
Le due esemplari lezioni che impartì de Martino furono quelle relative al pianto funebre, vale a dire al compianto funerario, e successivamente al tarantismo di Puglia. […]
La ricerca sul tarantismo condusse de Martino nel Salento, dov’egli colse il momento sincrono del rito e dell’esecuzione di danze svolte durante la crisi di possessione delle tarantate o dei tarantati. L’indagine risultò anche scandalosa, perché si trattava di un approccio innovativo alla ricerca, che poneva a disagio tutto il positivismo della cultura etnografica italiana, compreso quello di nomi eccellenti (mi riferisco al Cirese o altri etnologi di tradizione). Nell’indagine sul tarantismo de Martino pose in luce, con una squadra di studiosi e di tecnici, la realtà del rito di possessione.
L’unica deficienza che oggi può apparire a noi, ulteriori osservatori di quelle indagini, è che forse a de Martino era sfuggito il carattere rituale-religioso della possessione stessa: per cui questo disatteso elemento, oggi, può parzialmente mettere in discussione quelle indagini, riportandole in una chiave non di cura domiciliare, rivolta all’esorcismo della taranta, ma a una esecuzione rituale della possessione, sia essa derivata da uno spirito infero, sia da una entità mitica, quale quella della tarantola, sia essa derivata da un santo, come San Paolo o dalla Madonna o da altri Dei succeduti alla paganità, dopo l’avvento del cattolicesimo. Oggi questa è l’unica ‘rampogna’ che si può muovere all’indagine demartiniana, perché in essa si mette in luce il carattere isterico del posseduto, mentre il carattere isterico – come l’aveva definito Agostino Gemelli – riguarda i fenomeni che lo stesso Gemelli riteneva paralleli e relativi alle stimmate di padre Pio da Pietrelcina.
[…] Diciamo che in de Martino si ravvisava una connotazione formale e genetica, comunque ancorata a un positivismo razionale, che faceva capo alla psicologia freudiana, a quella junghiana, e non alla religiosità che è estranea alla psicologia freudiana. La crisi mistico-religiosa non ha niente a che vedere con le teorie del Lombroso, che accomunava i santi e gli isterici allo stesso livello.
(pp. 129-132)
[…] La messa in atto del progetto di indagine di de Martino sul tarantismo resta esemplare. Egli, con una squadra di studiosi e di tecnici, dopo aver raccolto varie informazioni, si recò nel Salento quando gli fu riferito che una giovane tarantata, in crisi rituale, ballava per San Paolo, effettuando una manifestazione da lui definita ‘cura’ domiciliare.
Ora, forse, l’interpretazione di un tarantismo esorcizzato come cura domiciliare suscita delle perplessità. Se il morso della tarantola non è la causa diretta del fenomeno, l’esorcismo come liberazione non sussiste, né può scacciare ciò che non esiste. Conferendo alla tarantola, al suo morso, alla crisi, una valenza simbolica, come aveva ben compreso il de Martino, il fenomeno si inquadra in un antichissimo mito a noi ignoto, ma radicato in quella cultura di persone che ne conoscono glli stimoli e i processi interiori, condivisi dagli appartenenti alle medesime credenze religiose. Ciò che non comprese il de Martino fu appunto l’impiego religioso della danza e della musica praticate dalla tradizione, che con impropria definizione fu definito cura domiciliare e che, invece, si riferiva a un rito culturale e celebrativo della possessione, affatto esorcistico. Si trattava, quindi, di un rito affermativo e non negativo, cui partecipava tutta la comunità.
Per tali fraintesi, le manifestazioni collettive osservate il 29 giugno nella cappella di San Paolo a Galatina, caratterizzate dal disordine attribuito dal de Martino alla mancanza della musica, erano giustificate dalla singolarità della possessione, relativa alla elettività personale di un brano musicale, atti a disciplinare la crisi singola di un tarantato e non quella di una collettività.
A mio avviso resta chiaro che la confluenza di diversi tarantati generava disordine, non attribuibile all’assenza della musica, ma allo smarrimento di un probabile antico rito collettivo. Formulando diverse ipotesi, c’è ancora da indagare sulla realtà del tarantismo, abbandonando i termini di una domiciliare e attribuendone le cause principalmente all’isteria o a interiori conflitti psicologici non risolti. Io credo che alla base del fenomeno ci sia stato un culto vero e proprio, inizialmente rivolto ai defunti, cui in diversi culture si attribuisce il misterioso fenomeno della possessione: causato – secondo la credenza – dal bisogno che avverte un morto di muoversi attraverso il corpo di un’altra persona. Il posseduto è ritenuto anche un privilegiato, perché è scelto, perché ha una mente disposta ad accogliere la presenza dell’Aldilà oppure quella del Divino, benché l’intrusione in un corpo di un’anima o di un dio crei disagi e sofferenze. Le antiche Sibille si ribellavano ad Apollo, tentando di sottrarsi a una forza che le soggiogava. Il fenomeno fu ben descritto dal poeta Virgilio nell’Eneide, che esplorò a lungo il culto profetico della possessione. Nelle culture orali, le figure sciamaniche di guaritori e di profeti denunciano spesso nei loro corpi una presenza infera. […]
Seguendo le sue orme [di de Martino], ho più volte indagato sull’unica traccia che in Campania potrebbe ricondurre a una riplasmazione cattolica del tarantismo: cioè il culto per la Madonna dell’Arco, dove ancora oggi si osservano dei devoti che, nel mattino del lunedì in Albis, nel varcare la soglia del Santuario sono colti da crisi di presenza, svengono, vengono trasportati in infermeria, tutti fenomeni riconducibili agli stessi che De Martino osservò nella cappella di San Paolo a Galatina e che egli attribuì a crisi disgregata. Se trattava, e si tratta, di un rito preciso che il posseduto compie in presenza della divinità.[…]
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