“Il tarantismo non c’entra. La politica culturale si”.
La Notte della Taranta? Un esempio di come può attuarsi un processo di costruzione identitaria. Dove avvenimenti, eventi, motivi, sono selezionati ad hoc per costituire un patrimonio culturale del territorio. Ma sbaglierebbe chi pensa ad un fatto automatico. Non lo è. “E’ sempre guidato. In questo caso da ragioni economiche, e da una politica culturale ben precisa che punta a valorizzare delle risorse del territorio con l’obiettivo di una visibilità, una definizione, una identità particolare per questi luoghi”.
Eugenio Imbriani, antropologo. docente nell’Università di Lecce, prova a spostare il punto di vista su quel che viene ormai enfatizzato e considerato l’evento mediatico per eccellenza del Salento. alimentato in modo quasi paritario sia dalla tifoseria dei sostenitori che degli oppositori.
“Gli interventi che tendono alla elaborazione di identità locali, le politiche finalizzate allo stesso scopo, i dibattiti e le discussioni che a tutti i livelli affrontano questo tema, il contributo dei media: tutto costituisce un terreno di ricerca estremamente fertile e propizio. E guardate che ci siamo dentro tutti. Anche la denuncia argomentata di mistificazioni e semplificazioni, come la mera dichiarazione del proprio disgusto o l’attestazione della propria distanza. Tutto entra in gioco”.
“Ma così mi costringi a fare una cosa che ho cercato di sottrarmi per anni. Fino a questo momento praticamente”. Eugenio Imbriani, docente di antropologia culturale nell’Università di Lecce, studioso e ricercatore della memoria orale, stavolta resiste. Poiché non gli si chiede di discutere di tarantismo, De Martino, sonorità o, al limite, delle pratiche dell’oblio (che ha affrontato in un lavoro dal titolo emblematico, Dimenticare). Né del sacro, delle sagre, delle feste patronali e delle processioni.
Siamo entrati nel gran tumulto precedente la Notte della Taranta, il gran parlare mediatico che ogni anno ritorna puntuale, la immancabile tifoseria tra chi sostiene e chi attacca. E allora parliamo di questo. Anche degli articoli pubblicati su “Repubblica”, Desiati, Fabris, Loiudice, quasi fosse una riedizione molto mediatica della vecchia guerra di campanili tra Bari e Lecce. Della delusione dichiarata proprio ad Alessano da molti giovani ricercatori a proposito delle aspettative tradite dell’Istituto Carpitella. Della politica culturale che sottende e sostiene il serpentone di concerti da ieri al 27. Insomma, non di parlare della Madonna, per citare il bel libro dell’antropologo napoletano Paolo Apolito, ma di “Quelli che dicono di aver visto la Madonna”. Lui, allora, proprio perché di carattere mite, alla fine accetta. Non senza aver preventivamente costruito un proprio personalissimo talismano. Degli appunti, tanto per iniziare e fissare il terreno di scambio. Poche righe, una premessa.
Primo. “La pizzica è una tarantella. Se la si analizza sul piano storico e filologico è una danza di coppia. Fatta di movimenti complessi, organizzati, seducenti. In particolare quelli delle donne. Entra nella ritualità terapeutica del tarantismo insieme al repertorio sonoro e canoro che le Orchestrine chiamate allo scopo erano in grado di eseguire. Il modo in cui adesso si balla la pizzica è una vera e propria invenzione che ha pochi anni di vita. Le persone anziane se l’hanno ballata – se l’hanno ballata – nella loro giovinezza, l’hanno ben presto abbandonata, preferendo le danze importate dal Nord in cui i ballerini si toccano. Ilvalzer, la polka, lo scotis. Chi oggi balla la pizzica lo fa come gli pare, e non credo si possa pretendere altro”.
Punto due. “Più interessante, e più serio, è il discorso sulle pratiche di patrimonializzazione della pizzica e del tarantismo. In atto, anche in questo caso, da alcuni anni. Un processo che ha fatto diventare il Salento leccese un laboratorio che ha attirato l’interesse di numerosi studiosi non solo italiani. Gli interventi che tendono alla elaborazione di identità locali, le politiche finalizzate allo stesso scopo, i dibattiti e le discussioni che a tutti i livelli affrontano questo tema, il contributo dei media: tutto costituisce un terreno di ricerca estremamente fertile e propizio. E guardate che ci siamo tutti dentro. Anche la denuncia argomentata di mistificazioni e di semplificazioni, come la mera dichiarazione del proprio disgusto o l’attestazione della propria distanza, entra in questo gioco”.
Punto terzo. “Si parla molto, ma è naturale, di pizzica e taranta, a proposito e a sproposito, quando sono legate a eventi di massa e spettacolari. Negli ultimi anni è stata prodotta una mole notevolissima di lavoro sul piano della ricerca storica, filologica, etnografica. Di questo si parla meno. Ma ormai studiosi e semplici curiosi possono avere accesso a una vasta documentazione che sino a qualche tempo fa era poco nota e di difficile reperimento”.
Tre punti propedeutici. Necessari a fissare paletti e ad indicare terreni di discussione. In fin dei conti la domanda di partenza è semplice. Proviamo a guardare quel che accade? Perché accade solo tra luglio e agosto? Perché a gennaio la taranta non abita più qui?
“E’ il punto. Questo dibattito è attivato proprio dagli eventi che vengono messi in movimento. E si svolge ovviamente più sugli organi di stampa che nelle sedi scientifiche proprio perché alimentato dalle notizie di appuntamenti che si profilano per la stagione estiva. C’è un’assenza di profondità, se vogliamo. Anche se non tutte le persone che intervengono possono essere tacciate di questa colpa. Di assenza di profondità”.
Lei però indica un paradosso curioso.
“Persone che per tutto l’anno lavorano, e forniscono anche dei contributi scientifici validi a questo a quell’argomento, quando si arriva in questa stagione sembrano quasi impoverirsi dei loro stessi strumenti per entrare in una polemica sterile. Poco tempo fa ho assistito ad una polemica sulla figura di Sergio Torsello. Per un’intervista su un giornale, in parte travisata, al centro di una discussione anche violenta. Eppure questa persona ha scritto uno dei libri più importanti sul tarantismo, La tela infinita, biografia dal ’45 al 2004, redatta insieme a Gabriele Mina, scandagliando ottocento titoli. Perché non parlare di questo tipo di lavoro, fermandosi invece all’aspetto più facile? Superficiale probabilmente”.
Se accettiamo il gioco proposto iniziaimente potremmo pensare che il Concertone, e il gran furore mediatico che lo accompagna, offusca il resto. In questo forse c’è anche una responsabilità, magari inconsapevole, da parte dei promotori. Come se l’evento sussumesse tutto.
“E’ vero, ma è stato così sia dall’inizio. Sin dal momento in cui è nato l’Istituto Carpitella, 7-8 anni fa, si è scoperto che tutte le iniziative attivate (e vorrei ricordare che la prima realizzata è stata la pubblicazione del libro su Antonio Verri) pian piano erano cannibalizzate dalla Notte della Taranta”.
Un vizio d’origine.
“Senza dubbio sì. L’evento che schiaccia un pò tutto quello che si voleva fare. Tanto è vero che ormai l’Istituto Carpitella promuove, di fatto, solo La Notte della Taranta, tenendo comunque in sordina il resto”.
Perché? Lei ne fa parte, dovrebbe saperlo.
“No, non ne faccio più parte. Proprio per questi motivi ho scelto di non esserci più”.
In ogni caso la domanda vale comunque. Oltretutto proprio lei in tempi recenti ha sollevato la questione di come la politica, e le pratiche assessorrilli, a volte riescano a cannibalizzare, o ad affermare, alcuni fenomeni.
“E’ un problema di politica culturale. C’è poco da fare. Laddove è importante orientare le risorse, le risorse vengono orientate. Il che francamente non mi scandalizza affatto. Accade abbastanza regolarmente. Quel che mi pare più strano. invece, è che gli intellettuali stessi non riescano a comprendere questo gioco, alimentando una polemica che non fa altro che creare attenzione verso quest’evento”.
Portano acqua.
“Ma sì. Ad una situazione che, per quello che è e per quello che fa, a me sta benissimo. Diciamo solo che l’Istituto Carpitella dovrebbe gestire un po’ meglio le risorse, e destinarle in parte ad attività che pure promuove. Anche se, di fatto, l’evento è diventato più grande di tutto. E non fa altro che fagocitare risorse a più non posso”.
A questo punto: che c’entra il tarantismo, e tutto quel che il tarantismo ha significato per secoli, con quel che accade sotto i nostri occhi. Perché continuare a mischiare le cose?
“Infatti, non c’entra niente. Dal punto di vista storico niente. Quando parlavo di patrimonializzazione intendevo questo. I processi di patrimonializzazione si svolgono attraverso una selezione. Di avvenimenti, di eventi, di motivi, che possono entrare a costituire il patrimonio culturale del territono. Non è un fatto automatico, è sempre guidato. In questo caso da ragioni economiche e da una politica culturale ben precisa che punta a valorizzare delle risorse del territorio con l’obiettivo di una visibilità, una definizione, una identità particolare per questi luoghi. Un processo che non sempre necessariamente avviene nel rispetto della storia, o della filologia Avviene nel rispetto delle pratiche della comunicazione e della gestione delle risorse. E infatti più volte ho parlato, a proposito di questa patrimonializzazione, della rilevanza che ha l’oblio rispetto alle pratiche della memoria”.
Ho il suo libro davanti a me. Forse non è un caso che lei affronti alcune questioni sul tarantismo nell’ultimo capitolo dedicato al problema del presente.
“È così. Come in quel caso bisognava giustificare il presente. Più o meno è sempre lo stesso discorso: utilizzare il passato per giustificare il presente. Questo non significa che il passato storico sia il passato ideale, piuttosto quello che viene ricostruito secondo le finalità che ha il presente, la politica presente, la gestione presente delle risorse”.
Viene spontanea una domanda. Non crede che alla fine questa operazione sia rischiosa, o pericolosa. Sussumere tutto il passato all’interno di un solo titolo, non corre il rischio non solo di impoverire ilpassato ma tutto sommato anche di ridurre il presente?
“Abbiamo una grande fortuna, viviamo in democrazia. Queste pratiche sono azioni ed interventi di certo fortemente selettivi. Ma è anche vero che lo spazio per fare la ricerca esiste. Sia pure ridotto, con le risorse gestite a seconda delle necessità del presente, della politica dominante e delle linee-guida politiche dominanti. Certo l’ideale sarebbe avere per la ricerca le risorse destinate allo spettacolo. Non tutte, certo, ma ripartite in modo equo”.
Lei non dà un quadro ottimistico della situazione. Ovviamente ben oltre quel che accade tra Melpignano e dintorni. Lo spazio per la ricerca esiste ma è limitato, e comunque non è supportato.ll Carpitella ha finito per schiacciarsi quasi esclusivamente su un solo evento. E in tutto questo l’Università, da sempre, è la grande assente. Che, francamente, appare anche il vulnus più grave. Come mai, lo chiedo ad un docente universitario, questa assenza? Di una progettualità complessiva, non certo del lavoro specifico di determinati docenti, lei, Piero Fumarola, altri, o di determinati istituti. Quasi che le cattedre di antropologia questa terra non l’abbiano mai vista,indagata, ascoltata.
“E’ una verità. Anzi, meglio, è la verità. Anche se bisogna ricordare come ci siano state ricerche guidate dall’Università di Lecce che non hanno avuto nessuna fortuna e nessuna pubblicazione. Per esempio una molto interessante sui falò, sui fuochi rituali. Realizzata e mai pubblicata. Quel che lei dice però in fin dei conti è vero”.
Mi riferivo a una assenza più vasta. Sarà per nostalgia, ma immagino che l’Università possa e debba essere uno degli intellettuali collettivi di un territorio, un motore dinamico anche nelle pratiche dl conoscenza. Com’è che invece qui non si è riusciti a capitalizzare un giacimento enorme di memoria orale, tradizioni, sonorità, pratiche del corpo. Non per trasformarle in eventi, per comprenderle. Non abbiamo una cattedra dl antropologia o di etnomusicologia che abbia lavorato consistentemente in questa direzione, non un’Università che disponga di un archivio sonoro, o cartaceo.
“È vero. Questo lavoro, quando accade, rientra eventualmente nei desideri, e nelle volontà, dei singoli docenti. Non c’è stata un’azione dell’Università orientata in questa direzione. Cosa invece accaduta con le cattedre e i Dipartimenti di storia, o archeologia. In realtà il limite vero è che molto spesso non sappiamo gli uni quel che fanno gli altri. E tutto sommato che la ricerca antropologica o etnomusicologica sia avvenuta guidata da membri dell’Università, (perché bisogna poi anche dirlo che Agamennone, Fumarola, altri, io stesso, abbiamo fatto ricerca in quanto membri dell’Università, con le poche risorse a disposizione) ha avuto degli esiti. Ruolo dell’Università in generale, e nostro in particolare, è stato anche stimolare,spingere, in qualche caso orientare, il lavoro di ricercatori non inseriti nell’Università. Studiosi che hanno avuto per esempio il coraggio di scegliere un filone piuttosto che un altro. Il che può anche essere uno svantaggio. Perché non si ha un archivio centrale, né un luogo di riferimento complessivo di tutti i materiali prodotti e della documentazione pubblicata. Però probabilmente se l’Università fosse riuscita a centralizzare tutta l’attività di ricerca, non avremmo avuto tutto quel che è accaduto. E si badi che il materiale prodotto. e l’attività realizzata, costituiscono una mole enorme. Certo, con i sacrifici dei singoli. Bisogna dirlo. Dando atto a questi ricercatori solitari del lavoro compiuto”.
Torniamo all’oggi. Non le sembra curioso che a un certo punto una serie di studiosi od opinionisti baresi si scaglino su taranta, tarantismo, pizzica, confondendo financo il Concertone con l’organismo simbolico? E’ una guerra dei campanili, la riedizione dell’antica rivalità tra Bari e Lecce, un locale che più locale non si può?
“Farei dei distinguo. Nel testo di Desiati mi pareva abbastanza interessante la polemica su questa scoperta della borghesia cittadina di una sorta di primitivismo tenero, espressione peraltro utilizzata qualche anno fa dagli archeologi e dagli storici dell’antichità. Per cui alla fine ci si immerge in questa sensazione di primitività senza conoscerla, senza saperla gestire, e tutto passa attraverso la pizzica. Interessante. Forse un pò snob, ma interessante. Anche Dinko Fabris è un personaggio snob. Però è uno studioso serio. Tutto sommato non ce la vedo la polemica del campanile. Questo testo della Loiudice, invece, non merita nessun commento”.
Un attimo su Fabris. Come si fa a liquidare una musica dicendo sono solo due accordi prodotti all’infinito? A parte che anche così si possono avere dei capolavori, non è in gioco anche la questione del ritmo ternario, dei suoni di trance?
“Lì, veramente, è l’atto dello snobismo del musicologo. Una semplificazione. L’atteggiamento del musicologo che non vuole essere etnomusicologo. Più che vedere una sorta di crociata anti leccese, vedo l’espressione individuale di un certo atteggiamento snobistico nei confronti di questo fenomeno. La cosa importante, quel che hanno capito, è questo. Che la loro posizione ‘barese’ può essere interpretata, diciamo un po’ più a sud, come una sorta di operazione di tipo campanilistico, negazione di una identità locale che si basa su questi simboli”.
Anche un’invidia, forse?
“Può essere letta anche così. E paradossale è che, proprio per questo, fa gioco di fatto a quel che criticano. Proprio quando negano i processi di patrimonializzazione, dicendo che si tratta di un gioco tutto sommato molto scoperto, alla fine anche loro contribuiscono a rafforzarlo”.
Abbiamo iniziato la chiacchierata con la sua ammissione dl sentirsi costretto In qualche modo a discutere su qualcosa che finora aveva evitato. Forse che ad Arnesano, dove abita, le tarante sono particolarmente vendicative?
“Ovviamente no. Ma per il discorso fatto fin qui. Meglio utilizzare le nostre energie, le nostre intelligenze, per lavorare, studiare, e discutere di quel che si fa. Anche per analizzare i fenomeni. Entrare però regolarmente in polemica su quel che si dice su un giornale, che spesso per ovvii motivi di traduzione non corrisponde neanche a quel che si pensa, scatenando polemiche, mi sembra tutto sommato inutile. Piuttosto che fermarci a polemizzare su singole questioni, forse è meglio canalizzare le nostre energie nel continuare a studiare, scrivere, discutere di quel che viene pubblicato, delle ricerche che ci sono da fare o che sono state fatte”.
Forse anche invitare le Istituzioni, e i sindaci, a destinare risorse alla ricerca.
“Figurarsi se non lo sottoscrivo. Però attenzione. La Biblioteca di Studi storici sul tarantismo, che quest’anno esce con due volumi, è finanziata dall’istituto Carpitella. Io stesso ho curato un lavoro che uscirà a giorni sul Dialogo delle taranfe di Vincenzo Bruno del 1602. Solo che queste pubblicazioni sono operazioni molto sofisticate, con pubblico e destinazione particolari. E chiaramente non possono avere una grande risonanza”.
Ad Alessano l’altra serasi sottolineava come ormai fosse giunto il tempo di pensare ad un Archivio.
“Probabilmente bisognerebbe cominciare. Anche se tutto questo non può essere disgiunto da una riflessione sulla qualità complessiva, non singola, dei nostri amministratori pubblici”.
Un’ultimo punto. Nell’affrontare storicamente le questioni legate alla tradizione musicale, si rimuovono quasi sempre gli anni ’70 e ‘80. Quelli in cui, su versanti e tempi molto diversi tra di loro, l’impegno del Canzoniere grecanico con Rina Durante, Bucci Caldaia, Luigi Chiriatti, Daniele Durante. Luigi Lezzi. riscoprì il lavoro sul campo; Pier Paolo De Giorgi aprì la stagione dei gruppi di riscoperta; e Bruno Petrachi, praticamente ignorato e misconosciuto, continuò a diffondere un patrimonio consistente, sia pure all’interno di determinati ambiti sociali, e lungo la corrente del folk revival. La sensazione è che questo sia stato rimosso. Perché di tutto questo non si parla?
“E’ vero. Come dicevo prima si selezionano alcune cose e altre si dimenticano. Daniele Durante, nel suo libro, parla del modo in cui il Canzoniere costruì e in alcuni casi inventò una vera e propria modalità di ricerca sulle tradizioni popolari, personale, con una finalità chiara e netta. Molto politica. E loro lo confessano”.
Fimmene fimmene è una invenzione a tavolino di Luigi Lezzi.
“Inventano molte cose, modificano i canti. D’altra parte il loro non è un atteggiamento filologico, ma politico, culturale, eccetera. Bruno Petrachi non appartiene a questo filone. Ragion per cui è stato, come dire. dimenticato”.
Ma se poi parliamo di popolare, lo è molto più degli altri. Concretamente, anche per adesione sociale. Ovviamente qui si apre la domanda su cosa sia il popolare.
“Infatti è così. C’è questa idea che si aveva allora del popolare come di una cultura alternativa alla classe borghese. Per cui è chiaro che canzoni come quelle di Petrachi più che essere considerate popolari, venivano considerate tutto sommato kitch. Di un kitch popolare. Folcloristiche. Dipende dalla definizione che diamo ai nostri concetti. Oggi siamo in grado di affermare che in un’ottica del popolare, inteso come pratica di ricostruzione e di autorappresentazione della propria identità, è un pò più facile che Petrachi entri nel nostro repertorio della memoria piuttosto che le cose più sofisticate, e difficili, tipiche del Canzoniere grecanico. All’epoca non poteva essere diversamente. Questi due universi erano paralleli, ma distanti. Un pò come il popolare dei gruppi popolari che snobbavano la televisione. Mentre la tv era molto più popolare di quel che facevano loro”.
Ci siamo detti tutto?
“Credo di sì. Sottolineando ancora una volta che sono reticente a parlare di questi argomenti”.
tratto da Paese Nuovo
di Carla Petrachi
pubblicato il 13/08/2005