I pionieri del “folk revival” salentino

Intervista a Luigi Lezzi

di Francesca Rinaldi e Vincenzo Santoro

Lequile, settembre 2006lezziLuigi Lezzi, operatore culturale, giornalista e animatore del teatro per l’infanzia, all’inizio degli anni settanta fu uno dei protagonisti della prima pioneristica esperienza di “riproposta” della musica tradizionale del Salento, connessa a un importante programma di ricerca sul campo. In questa lunga intervista ricostruisce quella stagione straordinaria, ne individua i protagonisti e le loro motivazioni, e delinea alcune analogie e differenze con il “movimento della pizzica” di oggi, che di quella esperienza in qualche modo ha raccolto il testimone.
Già dai primi anni ’70 ti occupavi di musica popolare salentina; ci puoi parlare di quegli inizi?

Notoriamente ancora prima Ernesto De Martino, Alan Lomax e Diego Carpitella avevano già percorso l’Italia e anche il territorio salentino nel tentativo di salvare il patrimonio musicale regionale, ed è grazie a questo loro lavoro che si è acceso un certo interesse per l’etnomusicologia in Italia. A loro dobbiamo i primi documenti sonori che riguardano, per esempio, la Calabria e la Basilicata oltre che la Puglia e il Salento. Le nostre intenzioni negli anni ‘70 non erano esattamente le stesse di questi illustri predecessori, cioè filologiche e musicologiche, ma ci proponevamo scopi lucidamente politici

. Non uso il plurale in funzione maiestatis ma perché mi trovavo a lavorare nell’onda di quello che, ancora oggi, viene chiamato movimento per antonomasia e che mirava appunto ad un generale cambiamento sociale. Il movimento si preoccupava di poter sbandierare in faccia alla cultura borgheseproletaria. Sto usando intenzionalmente la terminologia propria di quegli anni. Si voleva affermare l’esistenza di una cultura del proletariato e, anche per questo, si raccoglievano le musiche popolari per dimostrare che non esisteva solo la musica leggera e di consumo come quella di Gianni Morandi, di Milva, di Mina o di Rita Pavone diffusa dai media. Io sono nato nel 1950, perciò nei miei primi anni di vita ho avuto modo di ascoltare la tradizione musicale popolare mentre aveva ancora una certa vitalità, nei luoghi di lavoro e nelle occasioni in cui era pienamente contestualizzata. A partire da allora la voce popolare cominciava già ad essere soffocata da un altro modo di cantare e da un altro modo di stare insieme. In quegli anni si cominciava ad avvertire la necessità di mettere da parte la propria musica per assorbire altri stili. Coscienti di questi cambiamenti in atto lavoravamo per salvare, in qualche modo, il patrimonio della nostra musica di tradizione orale e, per renderne più palese l’esistenza, ci mettemmo, in tutta Italia, anche a suonarla e a cantarla. Su quest’onda di folk revival avevo dato vita ad una formazione musicale che prima prese il nome di “Gruppo Folk Salentino” e poi di “Nuovo Canzoniere del Salento”, per ribadire un chiaro allineamento estetico e politico con il più noto “Nuovo Canzoniere Italiano”. Il gruppo era formato, oltre che dal sottoscritto, da Bucci Caldarulo e Anna D’Ignazio. Ma a attorno a questo nucleo stabile in periodi diversi si unirono altri musicisti. Negli anni ‘72-‘73 i nostri concerti erano molto numerosi. Ci esibivamo su dei palchi scalcinati o anche su dei furgoncini, soprattutto in occasione delle feste dell’Unità, l’organo di stampa dell’allora Partito Comunista. Va detto che grande parte in queste vicende l’ebbe la scrittrice Rina Durante che, con il suo carisma di intellettuale, aggregava intorno al gruppo musicale sia collaboratori che estimatori. Bisogna riconoscere che fu lei la mente di questo movimento musicale-politico, ne stimolò la ricerca e molto fece anche come promoter ed organizzatrice. Continuò in questo ruolo anche quando io smisi di occuparmi di musica popolare e mi dedicai al teatro per l’infanzia. Fu lei a dare vita a quella formazione che si chiamò, e si chiama ancora, “Canzoniere Grecanico Salentino”. Chiamare concerti le esibizioni di quegli anni è un po’ esagerare perché si trattava più propriamente di feste di partito, di piazza, durante le quali si saliva sul palco per dare corpo ad un’intenzione collettiva. Era quello il periodo in cui cresceva il partito comunista e in cui si affermava, soprattutto nelle feste dell’Unità, un movimento di opinione che convergeva a sinistra; eravamo ancora in pieno periodo democristiano. La nostra attività era in funzione di questa crescita di coscienza del Paese. Durante tutto l’anno il gruppo registrava il materiale e arrangiava un repertorio in vista della stagione delle feste, che forniva la possibilità di avere un palco e anche, in qualche modo, un rimborso delle spese sostenute per la ricerca e per le prove musicali. Era il Partito Comunista a garantire pubblico e compenso. Mi sento in dovere di sottolineare il ruolo che ha avuto il Partito Comunista in quegli anni perché fu la sua organizzazione a dare spazio a molti prodotti culturali (e non solo musicali) che altrimenti sarebbero rimasti nei cantieri di produzione. Di fatto, dalla fine di agosto a tutto ottobre (il periodo delle feste dell’Unità) il gruppo da me diretto lavorava tantissimo. Il concerto e lo spettacolo in generale non rappresentavano solo un momento di semplice esibizione estetica, ma servivano alla crescita e al consolidamento di un’ideologia. Anche altri partiti politici organizzavano le loro feste, ma c’era una grossa differenza nelle intenzioni degli organizzatori che proponevano le cose che il movimento osteggiava dichiaratamente: grossi nomi televisivi o soubrettes dalle gonne corte. L’uso politico della musica era da me sottolineato ammiccando anche, nello stile, ad una inequivocabile figura di militante come il folk singer Woody Guthrie o il suo più noto epigono Bob Dylan. Per assimilare il mio sound al loro cantavo anch’io con un’armonica a bocca appesa al collo e imbracciando una chitarra acustica. Volevo intenzionalmente provare a riproporre, alle nostre latitudini, l’operato di questo pilastro della folk music americana, illustrato per noi dalla pubblicazione de “La Canzone Popolare in America” di Sandro Portelli.

In questo discorso è importante il fatto che eravate inseriti nel circuito nazionale, che rifletteva e agiva intorno a questi temi. Qual è stata la genesi del tuo impegno nel movimento musicale?

Io, ventenne, facevo teatro nel ’70, nel gruppo denominato G.U.T., Gruppo Universitario Teatrale dell’Università di Lecce, e a dirigerlo era stato chiamato Giorgio Pressburger, docente dell’Accademia di Arte Drammatica di Roma. Avevamo in progetto di mettere in scena un lavoro partendo dalla novella di Franz Kafka “Una relazione accademica”. In essa si narra anche di un tragitto in mare durante il quale i marinai cantano per ammazzare il tempo. Avremmo potuto cantare qualche canto popolare tedesco, dato che i marinai erano di amburgo. Il regista, invece, ci suggerì di eseguire un canto popolare salentino. Ci sguinzagliammo sul campo alla ricerca del materiale e alla fine scegliemmo il brano “Comu è bellu cu bbai pe mare”, un canto gallipolino che viene eseguito raramente nei repertori attuali. In quell’occasione raccogliemmo circa venti canti, soprattutto nelle osterie di San Donato, Galugnano, San Cesario e Gallipoli. Fu allora che ci imbattemmo anche in quel “Fimmene fimmene” che oggi è, per così dire, un best seller. Per inciso va detto che le versioni che oggi sono in circolazione derivano sicuramente da quel nostro lavoro di ricerca per varie ragioni: l’ordine delle strofe con cui si esegue e si incide questo brano è ancora quello che io scelsi in maniera del tutto arbitraria. Alle prime strofe che hanno per tema dei momenti del lavoro dei campi feci seguirne altre che invece alludono al morso della tarantola. Fu una fusione, per così dire, ad effetto che io mi permisi di fare con la spregiudicatezza con cui trattavo generalmente i testi delle canzoni raccolte. Risale anche a questo mio iniziale arrangiamento quell’accompagnamento solamente ritmico con cui si continua ad eseguire il canto, nonché quel crescendo nella sua parte finale. Con queste stesse caratteristiche il brano fu da me inciso nel ‘73 nello studio di registrazione dei fratelli Macchitella a Lecce, insieme con una diecina di altri brani. [L’intervistato procede a farci ascoltare l’incisione di cui parla]. Pensai di unire artificialmente due diversi brani forse perché il primo mi risultava troppo corto per un’esibizione da palco o forse perché volevo concludere l’esecuzione del canto di lavoro (dal ritmo lento e noioso) con un ritmo più allegro. I colpi ritmici che oggi si eseguono su tamburelli o tammorre io li ottenevo colpendo il dorso della chitarra anche perché nel gruppo non c’era un tamburellista. Curiosamente oggi, ignorando il fatto che questo è un mio arrangiamento degli anni ’70, si ritiene che quel tipo di esecuzione è di natura tradizionale e, magari antichissima. Ma, si sa, la tradizione comporta sempre, in qualche modo, un tradimento.

Visto che negli anni in cui hai cominciato non erano ancora diffuse le registrazioni fatte da De Martino e da Carpitella, come avete recuperato i canti tradizionali?

Come si diceva prima il mio repertorio era costituito da canti che avevo ascoltato durante l’infanzia, dai lavoratori dei campi o che avevo sentito echeggiare nel vicinato. Ne ho richiesto la riesecuzione nelle osterie, dove era più facile sentir cantare gli anziani; Lì ci andavo munito di un registratore portatile da cui poi si poteva sbobinare facilmente il testo. Nelle campagne e nelle case degli anziani, invece, ci andavo accompagnato con l’avallo o anche in compagnia della solita Rina Durante. Era lei che mi trasmetteva l’urgenza di recuperare questi canti, avvertendo il rischio di completo naufragio a cui erano soggetti. Probabilmente senza la sua lucidità e la sua ostinazione non avremmo avuto neanche la rinascita attuale di questo repertorio. Gran parte del materiale che oggi si basa su quelle registrazioni che io feci e che sono poi passate nelle mani del Canzoniere Grecanico Salentino. In questa seconda fase, durante la quale io ero assente, si aggiunsero i canti della Grecìa salentina che altri raccolsero nell’area di Calimera e di Martano. Questo repertorio è stato poi pubblicato dal Canzoniere con un disco uscito nel 1977 per la Fonit Cetra dal titolo, appunto, “Canti di Terra d’Otranto e della Grecía Salentina”. L’incisione del Nuovo Canzoniere Salentino di cui parlavo prima, invece, non vide mai la stampa. Conteneva fra gli altri brani “Ammera a Lecce”, “Fimmene fimmene”, “Lu Conte Marcu” (da una versione che proveniva da Salve, nel Capo di Leuca), “Comu è bellu cu bbai pe mare”, “Moretto Moretto”,” ’Ntunucciu”, “Lu rusciu te lu mare”, “Na sira ieu passai e idda nun c’era”, una “Pizzica”, “Mieru mieru”. Nei concerti alternavamo questi brani della tradizione con inni della tradizione partigiana e operaia come “Bella Ciao”, “L’internazionale”, “Se otto ore vi sembran poche”, o i canti delle mondine. Rina Durante ci procurò anche l’incontro con la folk singer Giovanna Marini che, ospite di Rina, veniva spesso ad attingere brani e modi musicali anche nel Salento. In una delle sue puntate a Lecce tenne un concerto nell’Università, in un’atmosfera fumosa di partecipazione del movimento. Ogni sua esecuzione finiva con l’applauso dei presenti e con il loro consenso che sfociava in un coro di slogan politici scanditi a pugno alzato. Questo rappresentò certo un grande stimolo per me e per i membri del mio gruppo musicale. Ci convincemmo ancora di più della necessità di fare il nostro lavoro con il quale avremmo potuto, inoltre, girare il mondo. Questo non successe, ma finimmo comunque per fare anche alcune sortite fuori dalla nostra area. La scrittrice Joyce Lussu, per esempio, amica di Rina, ci invitò a fare una piccola tournèe nell’area delle Marche dove risiedeva. Il luogo più lontano che raggiungemmo con il nostro spettacolo fu Parigi, invitati dalla Maison de la culture italienne presso l’università di Vencennes. Giovanna Marini interpreta ancora oggi alcuni dei brani raccolti nel Salento anche se – a mio avviso – lo fa in maniera spregiudicata e poco rispettosa dell’individualità regionale. Lei adotta uno stile sicuramente molto personale che finisce però per appiattire il materiale proveniente da varie situazioni linguistiche e culturali. In mano sua i dialetti e gli stili musicali regionali sono ricondotti ad un’unica koinè pan-meridionale che peraltro, bisogna dirlo, è molto efficace. I mezzi di registrazione che mi potevo permettere allora erano molto primitivi dal punto di vista della fedeltà di registrazione. Avevo un piccolo registratore portatile che incideva sulle audiocassette standard. L’acquisto stesso di questi supporti rappresentava, a volte, una spesa insostenibile per cui spesso registravo un documento, tornavo a casa, ne trascrivevo il testo le parole, cercavo di memorizzarne la melodia e passavo ad incidere sulla stessa cassetta un altro documento. In tal modo, naturalmente, il primo andava perduto.

Come procedevate per fissare la melodia?

Si acquisiva ad orecchio e naturalmente, purtroppo, si finiva per snaturare, a volte la melodia dei brani. Negli anni ’60-’70 ormai si avevano nelle orecchie le sole tonalità maggiore e minore proprie della musica leggera e colta e a questi modi musicali si finiva per assimilare anche i brani della tradizione. A volte mi accorgevo dell’esistenza di alcune note particolari e in base a questo facevo una grossolana distinzione tra musica rurale e musica urbana. Ma non disponevo di un analizzatore adeguato che mi potesse dar conto in maniera oggettiva dei modi musicali adoperati dai cantori. Una volta che avevo trascritto il testo, mi sembrava ingenuamente di aver preso tutto. Si tenga conte che, comunque, le mie intenzioni non erano assolutamente di tipo scientifico né filologico. Non avevo intenzione di dire “questa è la vera musica popolare”, ma “anche il proletariato ha una ricca tradizione a cui attingere e ne fa, spregiudicatamente, l’uso che vuole”.

La spinta ideologica che ha caratterizzato la vostra esperienza oggi non esiste. Oggi anzi prevalgono le spinte di mercato…

Noi non pensavamo nemmeno di poter vivere di musica popolare. Il mio unico obiettivo, lo ripeto, era quello di dare conforto, attraverso la mia militanza, ad un preciso movimento politico, in un clima di rivoluzione in atto. La musica serviva a questo ed era assolutamente riprovevole il sistema di mercato che muoveva la macchina della musica leggera. Quello del mercato era considerato un mondo che contrastava il processo rivoluzionario. Queste rigide intenzioni sono diventate più duttili solo durante gli anni ‘80 quando, per le ben note vicende storiche e sociali, il movimento aveva ormai perso di significato e il mercato e poi il libero mercato sono addirittura diventati dei valori e delle ideologie.

E di pizzica ce ne era poca…

Ce ne era poca anche nel repertorio, solo uno o due brani. Privi o quasi privi di testo, i brani di pizzica-pizzica non sembravano adatti ad un pubblico che sentiva la necessità dell’ideologia e della sua affermazione continua. I canti di lavoro erano presentati, a volte con qualche forzatura, come espressione di ribellione allo sfruttamento da parte dei padroni; i canti d’amore diventavano denuncia della condizione repressa in cui erano vissuti i sentimenti popolari; una ninna-nanna poteva esprimere la sfiducia nel futuro; e così via. Nemmeno il tamburello era così popolare quanto lo è oggi e io stesso lo suonavo in concerto senza quell’adeguato esercizio preparatorio che invece riservavo alla chitarra o all’armonica a bocca, strumenti propri del folk singer.

Dopo il Nuovo Canzoniere del Salento?

Nel ‘73 incontrai un gruppo di giovanissimi che avevano abbracciato come mezzo di espressione il jazz, e in particolare un jazz che intendeva partire dalle proprie radici mediterranee e salentine. Il nome di questa formazione leccese era “La mela d’oro” e con i suoi componenti lavorai per più di cinque anni in quel contesto espressivo nazionale che si denominò teatro di strada. Questo gruppo aveva l’intenzione di proporre jazz nelle piazze, io invece, insieme a Stefania Miscuglio, facevo spettacoli di burattini. Spesso, nelle feste dell’Unità, ci alternavamo sullo stesso palco. C’era il pienone durante lo spettacolo dei burattini e, per così dire, il vuotone durante quello di jazz. Per ovviare a questa situazione e con la chiara intenzione di educare il pubblico ad una musica di riflessione unimmo le due forme espressive e demmo vita al “Teatro Infantile di Lecce – Spettacolo di Burattini, Pantomime e Jazz”. Riuscimmo a far parlare di noi anche la stampa nazionale e presenziammo con successo a molti meetings nazionali di teatro di strada. I brani di jazz mediterraneo che usavamo nei nostri spettacoli avevano curiosi titoli collegati al sud e al Salento come “La terra del rimorso”, “Statale 16”, “Case bianche”, “Five roses per Donna Marzia”… Anche nei modi musicali utilizzati (il jazz lascia molto margine nell’utilizzazione di modi etnici) il legame con la musica popolare restò fortissimo per noi

Non sei più tornato ad eseguire fedelmente la musica popolare?

Sì, di recente ho lavorato circa due anni e mezzo con il gruppo Aramirè, intorno al ‘98. Mi trovai a Cutrofiano per la presentazione del libro di Luigi Chiriatti, “Opillopillopiopillopillopà. Viaggio nella musica popolare salentina 1970-1998”, e fui colpito dal fatto che in un periodo di poca lettura e di poca divulgazione della letteratura, veniva presentato un libro in una maniera diversa, attraverso un concerto. Approvai apertamente questa iniziativa e vidi che, in effetti, in quel modo la gente si avvicinava alla lettura. Ne parlai con i membri del gruppo che interpretarono quella mia approvazione come una dichiarazione di disponibilità. In occasione di una tournée in Spagna mi fu chiesto di rinforzare l’organico e così rimasi per due anni e mezzo a lavorare con Aramirè. Ho nuovamente abbandonato quest’attività perché mi sono accorto che mi stavo distraendo troppo dal mio lavoro, il teatro per l’infanzia. Ma devo dire che continuo ad approvare l’idea di divulgare la lettura attraverso diversi mezzi come può essere un concerto. La mia presenza sul palco di tanti concerti di musica popolare mi ha permesso, comunque, di dare un’occhiata da un punto di vista interno al fenomeno della neo-pizzica, così come viene denominato oggi. Continuo ad interessarmi di questo fenomeno e ad utilizzare la mia esperienza nel settore. Di recente sono stato chiamato a Stigliano, in Basilicata, per un’iniziativa della Provincia di Matera, a stimolare dei ragazzi all’indirizzo della loro musica popolare. Ho preso spunto dai brani raccolti da Carpitella in quel territorio ed è venuto fuori un gruppo che ha preso il nome di “Fronne d’alìa”, da un canto che corrisponde al nostro “Conte Marcu”.

Cosa ne pensi dell’attuale movimento di riproposta e quali sono i suoi problemi, se ci sono?

Un’incredibile operazione di marketing territoriale che ha saputo cogliere al volo le mode e le tendenze musicali giovanili. Agli inizi degli anni ’90 si sono verificate alcune coincidenze: si è acceso un interesse di massa per la world music e per i suoi rifacimenti per mano di giovani interpreti; si è avvertita la stanchezza per la musica elettronica; si è diffuso l’uso di visitare, in vacanza, posti esotici e “primitivi”; è esplosa nel Salento la moda dei “Sud Sound System” e del loro modo di cantare il raggamuffin’ utilizzando il dialetto. Il solo comune di Melpignano prima e in seguito l’amministrazione provinciale di Lecce, hanno assecondato queste tendenze musicali e ne hanno fatto, abilmente, strumento di richiamo turistico. Il raggamuffin’ dei Sud Sound System era indubbiamente scomodo da gestire per le sue modalità di espressione difficilmente irregimentabili. I gruppi di neo-pizzica, nati come funghi sulla scia del successo dei Sud erano invece di natura indubbiamente più domestica; con loro si poteva dialogare senza grandi compromessi, non inneggiavano alla marijuana né alla disobbedienza civile, cantavano la sana tradizione salentina e invitavano tutti a immergersi in un mondo “antico”, fatto di abbandono al ritmo e alla trance. Il Salento ha rappresentato il mondo esotico più a portata di mano, ben collegato da autostrade al resto d’Italia, economico e sicuro. L’immaginario giovanile nazionale ne ha fatto la terra promessa in cui poter passare le notti estive sotto uliveti carichi di storia e di suggestione. Una miscela troppo perfetta per non funzionare. Ai giovani si sono aggiunti gli adulti che trovavano nella neo-pizzica uno sfogo pseudo-intellettuale: la comprensione del fenomeno del tarantismo come terreno di dibattito antropologico. Partecipare ad un concerto di neo-pizzica era ed è, per questa fascia, come vivere, dal vivo, le esperienze drammatiche vissute dai più arditi esploratori del mondo etnologico. La miscela ha funzionato e continua a funzionare egregiamente. Si registrano, ogni anno, decine di migliaia di presenze turistiche e il Salento è un luogo dove, in Italia ognuno vanta di essere stato o di dover andare. Problemi non ce ne sono da un punto di vista di marketing territoriale. Quello che molti non approvano (e io sono fra questi) è la confusione fra il piano della promozione turistica e il piano culturale. A furia di raccontare bugie agli altri per invogliarli a soggiornare nel nostro territorio, molti si sono convinti che l’immagine turistica abilmente confezionata corrisponda alla reale situazione salentina e che quella musica che si suona e che si canta sulle piazze in estate sia realmente una musica che affonda le sue radici nei secoli e nell’anima salentina. Niente di più falso invece. Innanzitutto lo strumentario, che non ha niente a che fare con quello della tradizione. Lo strumentario della tradizione era molto povero. Abbiamo le informazioni di De Martino e di Carpitella ne “La Terra del rimorso”, che parlano di uno strumentario assente per gran parte della musica e, comunque, molto povero anche per quanto riguardava la musica terapeutica. Nell’esempio, riportato nel disco annesso alla prima edizione de “La Terra del rimorso” c’era, in realtà, un complesso composto da violino, tamburello, organetto e chitarra. Però, Carpitella parla anche di tutto un repertorio che, già al tempo della sua indagine, era andato perduto e il cui strumentario non era quello, come non erano quelle le modalità esecutive. Attuamente si può notare il congelamento di uno strumentario rilevato sulla base dell’unica testimonianza che è “capitata” durante quella famosa indagine durata solo quindici giorni. Chi più chi meno, inoltre, gioca ad aggiungere di tutto: le fisarmoniche al posto dell’organetto, le ghironde, gli strumenti elettrici, le sezioni di fiati o alcuni strumenti etnici provenienti da altre culture. Tutto questo va sicuramente bene per la promozione territoriale e per vendere i prodotti “made in Salento”. Va meno bene quando si incoraggia la confusione e si spaccia tutto questo per tradizione millenaria. Io ho appreso, leggendo Carpitella, che ogni cultura ha un suo modo musicale, un’organizzazione dei suoni all’interno della scala che permette di distinguere la musica del trentino da quella laziale, da quella calabrese, ecc …, da quella salentina. Il Salento, a ben guardare, si distingue per l’uso di una scala che con qualche approssimazione, possiamo chiamare “lidia”, che equivale ad una scala maggiore in cui il quarto grado, cioè il fa, diventa diesis. Altrimenti detto, il modo musicale salentino è un “modo di fa.” Se voglio rispettare la musica che manipolo non posso dimenticare questo, come avviene invece nella totalità degli arrangiamenti musicali attuali, che riducono tutto alle scale maggiore e minore, per cui si tratta la musica salentina, da musica modale, come musica tonale. E questo avviene anche nelle armonizzazioni e nelle modulazioni che, in tal modo sono più riconducibili alla musica che si ascolta al festival di Sanremo. Così facendo si calpesta l’individualità della musica salentina, cosa che non avviene invece né per il flamenco, né per la musica cubana, né per altre musiche etniche che hanno subito un processo di marketing. Vedo male il fatto che, in questa confusione, nel Salento ognuno inventa quello che vuole e poi lo spaccia per tradizione vecchia di millenni e che, magari, affonda le sue radici nel mondo preclassico. Un’altra lamentela può essere fatta sul fatto che l’off-beat, rilevato nella musica salentina dallo stesso Carpitella, sta scomparendo quasi del tutto e c’è la tendenza a suonare ostinatamente in battere come nella più deleteria musica da discoteca. L’off-beat è una caratteristica ritmica molto importante per la sua natura creativa ed improvvisativa. Un altro problema che avverto nella riproposta, quando questa pretende di essere rispettosa della tradizione, è la mancanza di specificità linguistica nella pronuncia del testo. Il canto non viene eseguito rispettando la pronuncia del posto in cui viene raccolto, ma in una specie di koiné che si rifà, il più delle volte, al dialetto romanzo dell’area di Calimera. Forse perché ci sono molti cantori che provengono da quella stessa area…

Cosa ne pensi dei gruppi attuali?

Ognuno ha trovato una sua nicchia di mercato, un modo specifico di proporsi per vari tipi di palato: per il pubblico giovane consumatore di birra; per chi vuole espellere le tossine ballando in continuazione; per chi preferisce ammiccamenti al rock, al jazz, o al balkan… Io lo considero, in definitiva, un modo come un altro per illudersi di star fuori dalla precarietà e dalla disoccupazione. Di fatto tutti i gruppi si fanno la guerra tra di loro mascherando la divisione delle briciole con lo sbandieramento della verità. Ognuno afferma di essere meglio dell’altro perché è in possesso della “vera” pizzica; ma intanto è disposto a sottostare ai ricatti delle committenze che possono disporre di innumerevoli formazioni tutte, di fatto, equivalenti. La committenza principale, di questi tempi, resta l’ente pubblico che non è in grado di orientare la produzione nel senso della qualità, ma gioca a creare canali preferenziali sulla base dei comportamenti più o meno condiscendenti alle necessità organizzative. Per tutto ciò non esiste una qualche ricerca estetica che abbia un senso e che giustifichi l’esistenza di una formazione al posto di un’altra.

 

 

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