Notte della taranta: quando lo show uccide la sperimentazione

Le grandi kermesse salentine hanno oscurato un percorso di ricerca che, a partire dagli anni ’70, intendeva rinnovare il rapporto con le radici e con l’identità locale. Franco Ungaro racconta di quei fermenti nel libro ”Dimettersi dal sud“

Non si può dire Salento senza nominare la pizzica, nè si può dire pizzica senza nominare la Notte della taranta, il festival di musica popolare salentina che si svolge a Melpignano ed in altri comuni nel cuore della provincia di Lecce, la cosiddetta Grecía salentina. Eppure si potrebbe provare a dire qualcosa di più, perché un territorio non vive soltanto di un evento, e una tradizione musicale, nelle sue ascendenze e diramazioni, merita più attenzione, anche come fenomeno culturale.

Dalla sua prima edizione, nel 1998, la Notte della taranta ha certamente contribuito a far convergere un’attenzione inedita su un territorio prima a molti sconosciuto e, contemporaneamente, ha accompagnato la crescita dell’interesse attorno ad una tradizione musicale che sembrava in via di estinzione. Negli ultimi anni il pellegrinaggio estivo verso il tacco dell’Italia non ha smesso di intensificarsi, tra iniziative musicali, concerti, dance hall, accompagnati dalla grazia dei luoghi, insieme ad una rara commistione di tradizioni e modernità. Ma la parola tradizione è assai pericolosa: può contribuire alla creazione di un passato idealizzato, molto utile al presente, in termini di marketing e profitti.

Il pericolo c’era e non si può dire che sia stato scongiurato. Ne prende atto Franco Ungaro, uno dei fondatori dei Cantieri Teatrali Koreja, un’esperienza teatrale del tutto speciale che ha preso forma nel Salento a partire dal 1983. Anni intensi, raccontati nelle pagine di Dimettersi dal sud (Laterza, pp.124, euro 9), memoria e restituzione di un’esperienza che Goffredo Fofi, nella prefazione che accompagna il libro, ha definito «la ricostruzione di un percorso che non è soltanto teatrale e che riguarda una parte d’Italia che, oggi, è diventata di moda, ma che, appena ieri, era la più lontana e misconosciuta della penisola». Franco Ungaro racconta in queste pagine il percorso di un’esperienza teatrale che ha coinciso col fermento del Salento, ai margini della cultura ufficiale, ma proprio per questo capace di sperimentare, aprendosi agli influssi delle ricerche teatrali più innovative sparse per mezzo mondo, senza trascurare le sonorità della musica tradizionale salentina o del dialetto. Nella masseria di Aradeo prendeva vita un ambiente culturale che cercava di sfuggire dai canoni, dal centro, dalla storia ufficiale, dalla modernità a tutti i costi, monolitica e senza sfumature. Lo scopo era la ricerca «di una direzione nuova, di senso e di sonorità, su cui si poteva innestare il confronto con le tradizioni e aprire una diversa prospettiva culturale al Salento, allontanandola dalla retorica del folclore, identità e delle origini, postulando un nuovo equilibrio possibile fra tradizione e modernità, fra memoria e futuro, fra locale e globale». Un movimento collettivo, che coinvolgeva musicisti, studiosi, semplici appassionati, che richiamava vecchi contadini dalla lunga memoria o docenti universitari, capace di produrre «una riflessione consapevole e aggiornata sul rapporto tra tarantismo e trance, fra stati alterati della coscienza e condizione postmoderna, fra nuovi comportamenti giovanili e forme originali di aggregazione (le posse e i rave innanzitutto), il rapporto fra l’uso dell’elettronica e nuove modalità di percezione estetica». Un periodo intenso a cui ha fatto seguito «la notte della taranta, che svuotò subito di contenuti culturali la ricerca sulla tradizione musicale salentina, virando verso la spettacolarizzazione, il dionisismo massmediologico, il gigantismo e il sanremismo dell’evento, consegnando culture, identità e origini al gran bazar del marketing territoriale e annacquando l’alterità nella brodaglia del consenso delle folle oceaniche».

Il tarantismo che, in base ad antiche credenze popolari dell’Italia meridionale, era provocato dal morso di un ragno, causa di una condizione di malessere generale, appare, in questa riflessione amara, ridotto ad uno stilema da rispolverare ogni estate insieme alle sdraio e agli ombrelloni. Il rituale di guarigione del tarantismo, nel suo incedere di danza sfrenata, avrebbe dunque compiuto un percorso peculiare dei nostri giorni: dall’oblio e dalla vergogna per le culture popolari, al ripescaggio, codificato secondo le regole commerciali delle identità musicali locali, lanciate nel firmamento della world music.

Ma per fare i conti in modo onesto con il presente occorre sottrarsi tanto alla retorica della tradizione, quanto a quella della purezza violata, una volta che questa si è modificata. Nonostante la sua origine sia legata ad un esorcismo di natura pagana, collegata ai riti dionisiaci, con il passare del tempo la pizzica ha trovato una sua autonomia come tipo di danza e genere musicale, oltre a divenire un vero e proprio fenomeno popolare. Negli anni ’70 la musica e le danze della pizzica sono state riscoperte ed apprezzate, successivamente agli studi dell’antropologo Ernesto de Martino sugli ultimi tarantati. Per chi volesse ricostruire quanto accaduto da quegli anni fino ad oggi, un punto di partenza è certamente Anima Mundi, un negozio-crocevia che raccoglie nel centro storico di Otranto tendenze musicali, cinematografiche e culturali attorno al fenomeno. Il suo proprietario, Giuseppe Conoci, ora anche editore musicale, è diventato il punto di riferimento di chi vuole dedicarsi con passione alla pizzica. Per chi volesse cercarle è possibile ripercorrere le tappe della riscoperta della tradizione musicale, a partire dagli anni Settanta, con le registrazioni dei canti della cultura orale, il Canzoniere Grecanico Salentino di Rina Durante, i Ghetonia di Roberto Licci, la voce di Luigi Chiriatti, gli studi di Giovanna Marini. Quello che è accaduto in seguito è stato un lento ripensamento dell’identità locale, prima dell’esplosione negli anni Novanta di un tarantismo inevitabilmente modificato dal tempo e dalle circostanze. Le opere cinematografiche di Edoardo Winspeare, prima Pizzicata e poi Sangue Vivo, hanno sicuramente smosso in modo forte un immaginario, base di un identità culturale che era sopita ma voleva emergere. Giuseppe racconta di un entusiasmo trascinante, che ha smosso vecchi, bambini, artisti locali e stranieri e che, nonostante le strumentalizzazioni a scopi turistici, mantiene viva la ricerca musicale e quella culturale. Qualcosa di simile a ciò che è avvenuto a Cuba o in Brasile, dove la musica locale viene proposta in un processo di riappropriazione di sè, della propria cultura. Inevitabili le distorsioni, segno comunque di un processo in corso, che, nonostante i grandi eventi, mantiene intatte certe manifestazioni, come la straordinaria notte che ogni anno a Torrepaduli, piccola frazione di Ruffano, vede arrivare, a cavallo tra il 15 e il 16 agosto, migliaia di persone per la festa di Santo Rocco e la danza delle spade. Segni della persistenza di un Salento che, seguendo il ragionamento di Goffredo Fofi, non ha come destino «nè l’omologazione nè una carnevalesca marginalità».

FacebookTwitterGoogle+WhatsAppGoogle GmailCondividi

Lascia una risposta