La pizzica? È di Copeland, del Salento e di tutti

Dacché era un rigagnolo in procinto di asciugarsi definitivamente, campo di esercitazione di accademici elitari e raffinati, ultimo canto del cigno di una civiltà contadina destinata all’estinzione, la pizzica è diventato un fiume in piena che tutta contamina, tutto travolge e dietro lascia, oltre a una irresistibile voglia di ballare, anche un mucchio di polemiche.

Basta aggirasi per il Salento in questo mese d’agosto, con qualche prenotazione in meno negli alberghi, ma con le piazze sempre piene di gente e di concerti. Di pizzica, naturalmente. E qui iniziano i problemi. Anzi, le controversie. Non tutti applaudono a questa esplosione di pizzica e gli scontenti sono essenzialmente di tre tipi. Quelli che dicono basta, non ne possiamo più, della pizzica ne abbiamo fin sopra le orecchie, e sono in fondo la componente meno significativa, quelli che stanchi della moda pizzica, vogliono sostituirla con un’altra moda, “ma per noi non è così, non può essere così, perché noi una cultura abbiamo, una musica, ed è la pizzica” dice Edoardo Winspeare, gran cerimoniere dell’immaginario salentino, che della resurrezione della pizzica è stato – ed è – uno dei protagonisti principali. Poi ci sono quelli che dicono basta, ma con tanti se e tanti ma. E sono i puristi della musica popolare salentina.

Quelli che ne hanno le tasche piene sì, ma dei gruppi improvvisati, dei truffatori della pizzica, dei dilettanti che sparano tamburelli a tutto spiano, che fanno solo fracasso, che si sono venduti all’industria del divertimentificio turistico, che per un piatto di lenticchie prostituiscono se stessi e la propria cultura, lasciando in ombra il variegato patrimonio culturale della zona. Tra questi uno dei più combattivi e coriacei è Vincenzo Santoro, un giovane organizzatore culturale, che qualche sera fa, a introduzione del concerto degli Aramirè nel fossato del castello di Otranto, ha sparato a zero contro la mercificazione della pizzica e ha proposto un ritorno alle origini, ai significati più autentici della musica scaturita dal morso della taranta e dal duro lavoro dei campi.

Infine ci sono quelli che della pizzica vivono, che la usano nel senso più nobile del termine, studiandola, interpretandola, aggiornandola, e che con qualche ragione si sentono i depositari dell’ortodossia musicale del Salento. Uno per tutti: Roberto Raheli, leader degli Aramirè che sempre a Otranto l’altra sera, presentando l’ultimo, eccellente lavoro del gruppo, Mazzate pesanti, ha tuonato “contro quelli che vengono da fuori e hanno la pretesa di insegnare a noi salentini la pizzica”. A chi si riferiva il bravo Raheli? A un evento in particolare, anzi, all’evento clou dell’estate pugliese che è la Notte della Taranta di Melpignano. L’anno scorso al concerto, che vedeva come maestro concertatore Stewart Copeland, c’erano ben cinquantamila persone. Ma, appunto, a sentire chi? La pizzica o l’ex batterista dei Police? O l’ex batterista dei Police che sotto gli occhi di tutti poneva in essere il furto perfetto: prendersi la pizzica e portarsela in giro per il mondo?

C’è da farsi tremare i polsi al pensiero di dover arbitrare un ipotetico confronto tra i diversi contendenti, considerato il sangue vivo dei salentini che s’accende per un niente, figuriamoci quando è in ballo la loro musica, la loro cultura. Il semplice appassionato, il non addetto ai lavori che si abbevera direttamente una volta all’anno al calice della pizzica, che corre da un paese all’altro inseguendo feste e concerti, ha da mettere in campo solo un’impressione. Che è questa: la pizzica – o detto meglio, tutta la musica popolare salentina – ha ancora una forza d’urto incredibile, una cariche che a dispetto di ogni mercificazione, conserva pressoché intatto il proprio corredo cromosomico.

La notte di San Lorenzo, a Galatina, a qualche metro di distanza dalla cappella di San Paolo – come a dire nel sancta sanctorum della taranta -, tutte le donne accorse sulla piazza a vedere un docementario sui tarantati, avevano la loro storia da raccontare, le loro credenze, le loro emozioni. La notte di ferragosto a Tprrepaduli, nella calca oceanica che toglieva il fiato, tornavano a formarsi “le ronde”, spazi vuoti dove al centro – al suono di musicisti improvvisati -, ballerini e ballerine di tutte le età, mimando combattimenti d’arme e d’amore, flirtavano con la trance tutta la notte. È quello il luogo più sacro al culto della taranta, il ritrovo dei credenti puri e duri: su questo non c’è alcun dubbio. Ma anche nella sagra più profana, con il gruppo più scalcagnato, la musica, quella musica, ha una capacità di emozionare e di coinvolgere incredibile. Come il blues, nato nei campi di cotone dai neri d’America, ha innervato l’intera cultura americana, così la pizzica è diventato patrimonio di tutti, ha permeato tutti gli strati della società salentina. E non solo. Tutti possono prendere in mano un tamburello in mano e cimentarsi con una pizzica, come qualsiasi ragazzo in ogni angolo della terra prendere una chitarra e provare un giro di blues. È il prezzo del successo, baby, che quando raggiunge indistintamente tutti diventa autenticamente popolare, e quindi suscettibile di tutte le contaminazioni.

Per questo, forse, non ha senso invocare un’Accademia della Crusca per la pizzica. Come non ha senso rinchiuderla in una riserva per proteggerla dalle incursioni straniere.

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