libro sul decennale della Notte della taranta

E’ stato pubblicato da pochi giorni La notte della Taranta 1998-2007. Breve storia per testi e immagini dei dieci anni che hanno “rivoluzionato” la musica popolare salentina, edito nella collana dei Libri di quiSalento. Come ci si poteva aspettare, soprattutto nella parte ricostruttiva, è un testo fastidiosamente apologetico e sistematicamente reticente su tutti gli aspetti “scomodi” della tortuosa storia della Notte della Taranta e dell’Istituto Carpitella. All’interno del libro sono contenuti anche alcuni interventi di addetti ai lavori, che esprimono il loro pensiero sul “Grande Evento”, tra cui spicca un articolo come al solito stimolante e problematico di Alessandro Portelli, docente di letteratura americana alla Sapienza di Roma, esperto di fama mondiale di storia orale e di musica popolare nonché presidente del Circolo “Gianni Bosio” di Roma. Ne riportiamo ampi stralci.

Il mito dei ragazzi
di Alessandro Portelli

(…) Come un grande e affascinante evento della popular music più intelligente, creo che la Notte della Taranta vada vissuta e rappresentata, scrostandola da quel tanto di ideologia che gli si è accumulata addosso. Per esempio, ricordo (cito a memoria) un articolo su un prestigioso quotidiano che annunciava la Notte della Taranta come il ritorno, la celebrazione, di un rito plurimillenario, mescolandola a confuse immagini del tarantismo. Ora, è sicuramente vero che una dimensione che possiamo chiamare di ritualità è il cuore dell’evento: quando centomila persone stanno insieme, si muovono insieme, condividono lo spazio e i suoni – e quando lo stesso senso di partecipazione e condivisione si verifica anche fra i musicisti sul palco, cancellando o almeno attenuando le gerarchie stabilite dal successo e dal mercato – non c’è dubbio che siamo davanti a un imponente evento identitario, locale e generazionale, che ben possiamo chiamare rito. Ma è un rito assolutamente moderno, il rito dei grandi concerti, di Woodstock e dell’isola di Man, in cui la taranta c’entra, se c’entra, più come un marchio di fabbrica che come quella trasfigurazione immaginaria di secolari sofferenze e crisi della presenza nel mondo contadino che è stato nei secoli il tarantismo. A livello superficiale, come quello dell’articolo citato (o di certa antropologia pop affascinata dalla trance), il richiamo al tarantismo finisce per rappresentare l’evento come una specie di rave, confondendo il dolore della perdita di sé con l’euforia dello sballo, legittimato e glorificato da una storicizzazione posticcia.

Su un altro piano, più complesso, se è vero che ogni rito contiene in sé il richiamo al mito, qui siamo forse davanti a un mito al quadrato: il mito popo del mito folklorico della taranta, espressione di un un bisogno di mito, di un bisogno di profondità del tempo, vissuto da un’epoca e da generazioni afflitte da miti posticci in cui è sempre meno facile sentirsi rappresentati, e da una relazione ansiosa di breve respiro con il tempo e con la storia. Mettiamola così: non c’è quasi nulla di “autentico” nel tarantismo fine e inizio secolo di Melpignano, se non forse la convinzione ingenua (e un po’ indotta) di chi ci viene in cerca di autenticità. E la trova nel semplice fatto di essere lì perché pensano che sia giusto esserci. (…)

Di qui, un’altra tensione, che riguarda proprio il tempo. La Notte della Taranta è, abbiamo detto, essenzialmente un festival pop; ma deve la sua identità, la sua fortuna, la sua differenza al fatto di richiamarsi ad una musica di tradizione orale. Ora, i tempi della popular music e i tempi della musica popolare sono profondamente diversi. La popular music ha bisogno del cambiamento continuo, è alla continua ricerca del nuovo: ogni anno, ogni stagione, deve cambiare, deve presentare una cosa diversa (e magari finisce, sotto il sempre nuovo, a riproporre un sempre uguale che non riconosciamo come tale perché ci dimentichiamo presto di averlo già sentito). Anche la musica popolare cambia continuamente; ma cambia osmoticamente, con i tempi lunghi della storia – i tempi talmente lunghi da sembrare a volte immobili, tanto più che le culture dell’oralità devono difendersi anche dal rischo della scomparsa, e quindi insistono sulla propria stabilità e permanenza. Mentre usano la dimenticanza come strumento di cambiamento, si difendono dalla dimenticanza come rischio di scomparsa.

Perciò, le canzoni salentine – le pizziche, i canti di lavoro e di carcere, le canzoni narrative, le passioni e i lamenti funebri – di quest’anno sono essenzialmente le stesse dell’anno scorso e di dieci anni fa, e cambiati solo sottilmente rispetto a quelli di cent’anni fa. Questo è anatema per un evento pop che ogni anno è tenuto per la sua stessa logica a proporre qualcosa di nuovo. Direi che questo è il problema che sta alla base dell’altra ideologia che si è incrostata sulla Notte della Taranta, quella della “contaminazione”. Detto una volta per tutte, in quanto ideologia, il contaminazionismo non è né meglio né peggio del cosiddetto purismo; aggiungo che il mondo popolare che ha inventato la pizzica e tutto il resto (e l’ha tenuta viva quando le persone colte e le istituzioni culturali la schifavano) non è mai purista ma contamina e cambia con logiche e tempi diversi da quelli dell’industria turistica e culturale, e mai tanto per farlo; e detto infine che comunque le valutazioni riguardano i risultati e non le ideologie (è buona musica? ha senso? lascerà qualcosa o sparirà prima del prossimo festival?) – detto tutto questo, direi che infine le scelte da compiere, adesso e in futuro, vertono su questo dilemma: fino a che punto crediamo nella dignità culturale e nella bellezza poetica e musicale delle musiche di tradizione orale del Salento (corollario: fino a che punto siamo interessati a dare di questo territorio una rappresentazione che non si riduca alla voga della pizzica, magari correndo il rischio di divertire meno i turisti estivi)?

Per tre anni, con la direzione di Ambrogio Sparagna, è parso che la direzione scelta fosse quella di una innovazione nella continuità fondata sulla convinzione che la musica popolare salentina è in grado di reggersi sulle proprie forze e di “tirarsi dentro altri linguaggi e altri suoni. (…) Ma un progetto a tempi medio-lunghi va a sbattere con la fretta dell’industria turistica, del mercato musicale, delle televisioni: bisogna tornare a cambiare ogni anno, imperativo ineludibile. La direzione della ricerca allora si rovescia: è come se la musica salentina, o chi parla per essa, non avesse fiducia in se stessa e andasse cercando in giro per il mondo convalide autorevoli – che poi troppo spesso finiscono per trattarla come un pretesto, per appesantirla scaricandole addosso altre logiche dopo un rapporto di breve durata. A volte, anche da tutto questo può venir fuori grande musica, perché le scelte non sono comunque mai banali, e questo sarebbe comunque una slendida cosa. Ma cosa resta, oggi, sul terreno, nel tessuto e nel panorama sonoro del paese, di quelle vicende di una notte, della pizzica sinfonica o dei pur coinvolgenti ritmi di un Copeland? L’anno prossimo, li avremo dimenticati e cercheremo un’altra cosa. (…)

FacebookTwitterGoogle+WhatsAppGoogle GmailCondividi

Lascia una risposta