Basta col Salento da cartolina. Qui si muore per troppi veleni

di Malcom Pagani
da www.unita.it di lunedì 12 gennaio 2009

edoardo-winspeare-ride-07«Le campagne sono piene di Eternit. L’ho visto con i miei occhi. Abbiamo avuto l’amianto in casa per anni. Il Salento non è la cartolina che si riflette all’esterno. C’è da scavare. È un mondo più complicato, fatto di connivenze e debolezze ancestrali, di lati oscuri e collusioni. Siamo italiani. Abbiamo avuto le nostre responsabilità per il fascismo, per le Brigate Rosse, per ogni nefandezza compiuta in quel fazzoletto che è il nostro paese. Accusare la storia è facile ma non si può negare che a volte, chiudere gli occhi sia più facile che aprirli ».


Edoardo Winspeare
è in Puglia. Il luogo naturale delle sue storie, del suo cinema, del suo lento ondeggiare tra radici e presente. A Corsano, per partecipare a un funerale, Winspeare non ha voglia di recitare le esequie del suo territorio ma rifugge dai semplicismi.

«Essere l’ultimo lembo d’Italia, ontologicamente, non ci ha giovato. Ha fatto sì che anche le persone nate in questo paradiso, preferissero per disperazione, ignoranza o necessità, vederlo annerire pur di cogliere un vantaggio momentaneo. Ho letto delle scorie tossiche nascoste in fondo alla terra. Sono indignato ma non stupito. Tra Lecce, Taranto e Brindisi, c’è una delle più alte incidenze tumorali d’Italia. Lo sapeva?»

PEPPINO BASILE NO LO IGNORAVA. Venne ucciso in una notte di mezza estate del giugno 2008. Davanti alla porta di casa sua, ad Ugento, profondo Salento, all’una e trenta del mattino. Diciannove coltellate. Una dopo l’altra. Gridò disperatamente. Chiese aiuto alla vicina. Non lo soccorse nessuno, neanche da morto. Le indagini si orientarono fin dai primi momenti sul delitto passionale. Si dipinse ad arte la fotografia di un donnaiolo impenitente. «Ci provava sempre», di un Torquemada di provincia col vizio per il gioco, le macchine di lusso e l’indebitamento. Gli inquirenti si allinearono considerando fin dalle prime ore il delitto d’onore come un’ipotesi «più che verosimile». Si cercò con insistenza l’arma del delitto, un coltello sottile. Si dragarono ruscelli, rivoltarono cassonetti, ispezionarono discariche. Andando vicini alla soluzione.
Quelle locali sono insediate nel tufo. Un tipo di roccia magmatica, porosa, poco compatta, piena di fessure. Le crepe e i dislivelli naturali, permettono agli elementi sversati di penetrare in profondità compromettendo falde acquifere e terreno.
Il sito di Contrada Burgesi, propaggine di Ugento, non fa eccezione. Ventuno metri d’altezza, (ben 8 fuori dalla terra), 21.000 chilogrammi di carico per metro quadro. A forza di accumulare rifiuti provenienti da mezzo tacco d’Italia, si è gonfiato come un pallone. È saturo, pieno, incapace di contenere altra rumenta. Basile e i comitati spontanei di zona, avevano segnalato il caso. Non gli aveva dato retta nessuno.

UN PENTITO E GOMORRA
Per aprire nuovi squarci sul delitto e ratificare una realtà già nota agli abitanti, c’è voluto un pentito. Bruno Colitti è un imprenditore. Con la sua società trova spazi, scava, occulta allo sguardo i consumi. Quando capisce di essere capitato in un gioco pericoloso, si spaventa. Annusa qualcosa, osserva i piani di smaltimento, si inquieta. Ha visto Gomorra, al cinema. Quei 50.000 metri cubi di rifiuti provenienti dal Nord Italia e dalla Campania, lo rendono protagonista di un film a cui, senza adeguate rassicurazioni, non vuole partecipare. Chiede aiuto all’amministrazione comunale. A suo dire, non solo evitano di ascoltarlo ma lo insultano. Lo minacciano. «Fatti i cazzi tuoi».

Colitti sostiene che in Provincia e in Regione sapessero ogni cosa. «Lo stoccaggio, a Burgesi, iniziò nel ‘92». Poi va in Procura. Abbatte lo scetticismo e il 14dicembre scorso, guida i Carabinieri nella culla dei miasmi. I primi 5 metri portano alla luce batterie scariche, pneumatici, materiale plastico, frigoriferi, contenitori di olio combustibile. Apirolio. È altamente cancerogeno. Policlorobifenile utilizzato nei trasformatori elettrici per il raffreddamento e la lubrificazione. Non è infiammabile,ma a 800 gradi sprigiona diossina. Nebulizzato, può viaggiare per migliaia di chilometri .
A Taranto, all’Ilva, ha contaminato uomini e pecore. Si annida nel latte materno. Provoca cancro e alterazioni del sistema immunitario. Lì sotto, c’è di più, giura Colitti. Il 14 gennaio si riprenderà a cercare, superando la fittizia barriera di terriccio e plantumazione creata all’uopo. Colitti conosce l’argomento. L’appalto per i lavori di riempimento e livellamento, l’aveva vinto lui. I limiti massimi di capienza erano stati fissati: 700.000 tonnellate. Il carico è raddoppiato e promette di triplicare. Per decisione del presidente della Regione, Nichi Vendola, (erede suo malgrado delle politiche di Fitto sul tema) Burgesi ospiterà anche la spazzatura di 46 comuni del bacino di utenza Lecce 2. Una risoluzione di fine 2008, (pensata per durare otto mesi e poi limitata ad uno) che ha spinto i residenti a vigilare sullo spiazzo. Donne, bambini, contadini. Cartelli eloquenti.
«Abbiamo le palle più colme della discarica». A Gemini, minuscola frazione della Grecìa Salentina, i biogas sono nell’aria da sempre. Arrivandoci dalla litoranea, il mare e i colori caraibici dello Ionio alle spalle, sembra disabitato. Una tabaccheria, un’edicola, molte porte sbarrate. Un deserto presidiato da 400 famiglie. Aggredite da strane malattie. Leucemie fulminanti, sarcomi, tumori. Quando il vento di Scirocco si alza leggero, la qualità dell’aria si fa irrespirabile. Basile era al centro di questa tela maleodorante. Faceva politica. Nel giugno del 2005 era stato eletto al Consiglio provinciale di Lecce, il mese dopo, un’altra investitura lo aveva fatto approdare sui banchi comunali del proprio paese, nel quale aveva solida fama di “disturbatore”. Dava problemi, Basile. Infastidivano le continue denunce sul malaffare locale, sulle consorterie. Per “avvertirlo”, erano ricorsi ai soliti metodi.

«PEPPINO MUORI»
Una testa d’agnello abbandonata sull’uscio, qualche scritta sul muro. Nero su bianco. «Peppino sei il nulla». «Peppino muori». Poi, constatata la sordità, lo fecero tacere. Il tema dei rifiuti tossici celati alla vista, era tra i preferiti. «La terra si ribella ma l’abbiamo distrutta noi», racconta Sandro. Lavora a Lucerna, è a casa per una vacanza trasformatasi in sit-in permanente. Accanto a lui, in una battaglia per ora sorvegliata con pugno meno esasperato di Pianura, i suoi genitori. Trattori, motorini, rabbia. «Il cognome non lo scriva. Qui la mafia esiste». Qualcuno si è esposto. Padre Stefano Rocca, parroco di Ugento. Qualche telefonata intimidatoria, per poi salire di tono: 5.000 lettere anonime. Infamanti. Invitavano i parrocchiani a stare alla larga dal prete, «Lu spacciatore». «Sin dal primo giorno, ho invitato gli abitanti a dire tutto ciò che sapevano. È inaudito che in un paese di 5.000 persone,non si sia venuto a sapere nulla di nuovo. Peppino viveva a 800 metri dalla Diocesi. La sua morte mi ha provocato rimorso e riportato alla mente l’episodio della Bibbia sul pastore chiamato a proteggere le sue pecorelle. Omertà, questo respiro». Don Stefano non ha paura. «Solo del silenzio. La battaglia di Basile contro i veleni, era sacrosanta ». Nell’orazione quotidiana, Basile ha incontrato diffuse ostilità. «Il sindaco (Eugenio Ozza del Pdl n.d.a)non ha capito. “È bene che si faccia silenzio” mi ha detto più di una volta. La politica non vuole essere al servizio dei cittadini, pretende il contrario». Stasera Stefano e i suoi fedeli saranno a Presicce. Un incontro pubblico per creare una commissione che possa presenziare agli scavi. Pregando Dio, di essere ancora in tempo.
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