Salento, genius loci, spirito pubblico e retorica

Cupertinum intervistaMarc Tibaldi intervista Vincenzo Santoro per Cupertinum Doc, rivista della Cantina Cupertinum, aprile 2024

Salentino, precisamente di Alessano, Vincenzo Santoro, si è laureato prima in Informatica e poi in Comunicazione per l’impresa e il no profit, dal 2004 lavora presso l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, dove attualmente è responsabile del Dipartimento Cultura, Turismo e Agricoltura. In rappresentanza dei Comuni italiani, è anche membro del Comitato nazionale per la tutela delle minoranze linguistiche storiche e della Commissione per il Sistema Museale Nazionale del Ministero della cultura. Ha scritto molti saggi sulle musiche e tradizioni popolari delle classi subalterne, l’elenco completo si può trovare sul suo sito www.vincenzosantoro.it. Tra i suoi libri (pubblicati con Squilibri, Manni, Itinerarti e altri editori), ricordiamo: Don Tonino Bello. Manifesto di Pace; Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento; Tabacco e tabacchine nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento; Uccio Aloisi. I colori della terra. Canti e racconti di un musicista popolare (con Roberto Raheli e Sergio Torsello); Il ritorno della taranta. Storia della rinascita della musica popolare salentina; Memorie della terra. Racconti e canti di lavoro e di lotta del Salento; Odino nelle terre del rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-1975); Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale. Tra le sue attività di promozione culturale, ricordiamo: Ritmi meridiani, Suoni e visioni, Pizzicata Festival, Pisa Folk Festival, FolkBooks.

Hai dedicato molti studi al tarantismo e ne conosci bene il fenomeno di valorizzazione in chiave turistica. Pregi e, se ci sono, difetti di questo fenomeno e possibili evoluzioni…

Ci troviamo davanti ad un fenomeno di lunga durata. Ho molto studiato e scritto sui temi inerenti e ho fatto parte di quel movimento composito che – durante gli anni ’90 ma sulla scorta di esperienze precedenti – ha contribuito a valorizzare questo patrimonio. Nel Salento è stato messo in atto un esperimento di promozione dei beni immateriali che è nato dal basso, che non è stato progettato a tavolino, che non parte da un progetto istituzionale calato dall’alto. Un percorso che sembra decisamente essere riuscito in termini di ricadute territoriali. Prima degli anni ’90 quasi nessuno sapeva cos’era il Salento mentre ora è diventato un brand. È un’esperienza abbastanza unica di valorizzazione di una cultura e del suo territorio, con ricadute in termini economici, di flussi turistici e di attenzione a elementi culturali più ampi. Non è solo cresciuto il turismo interessato alla musica, ma anche quello legato al mare, alle bellezze paesaggistiche, all’arte, all’enogastronomia. Altro risvolto interessante è che molte esperienze artistiche nate da questo movimento abbiano acquisito visibilità internazionale. Ci sono ormai diversi musicisti legati alla musica di tradizione che hanno una proiezione nazionale e internazionale. Un successo a 360 gradi, che raggiunge il picco nell’affluenza estiva, in particolare in occasione degli eventi di spettacolo legati, con le dovute distinzioni, a questo movimento.

Ma esistono indubbiamente aspetti problematici, pensiamo per esempio a come sia avvenuto il travaso dalla tradizione alla contemporaneità, cosa resta realmente di questa tradizione nella percezione diffusa. Nella riproposizione contemporanea vengono conservati esclusivamente alcuni tratti, una parte dei repertori musicali e la danza, ma essendo cambiata la situazione socioeconomica e produttiva nessuno – se non va a studiarsi i libri capaci di raccontarlo – sa la differenza tra un tipo di musica e un’altra. Soltanto per fare un esempio, i canti a più voci che accompagnavano il lavoro della campagna o altre occasioni comunitarie, e che rappresentavano il modello musicale più diffuso – perché la gente era sempre al lavoro e i momenti di festa rarissimi, erano senza l’accompagnamento di strumenti musicali, perché le mani servivano per lavorare. Invece un certo tipo di musica costitutiva dei repertori tradizionali viene ora accantonata e privilegiata quella legata al ballo perché più fruibile durante i concerti. L’altro tema critico è quello che potremmo chiamare della sostenibilità: dei grandi numeri, del pesante afflusso turistico attratto della spettacolarizzazione degli elementi patrimoniali, dell’eccesso di pressione antropica sul territorio, sulle spiagge e altri temi correlati, come quello del consumo del suolo. Non vorrei parlare di cultura della sofferenza perché troppo afflittivo, ma senz’altro la matrice socioculturale di riferimento non rimanda a una cultura festaiola, e consumistica, ma resta legata e contrastiva rispetto a un mondo che era vilipeso, sfruttato, bistrattato. Ora in questa grande orda spettacolarizzante cosa rimane di una simile e profonda traccia culturale? Sono questioni che ci si continua a porre in maniera critica e autocritica, ragionamenti interessanti sia per capire i limiti e le contraddizioni di questo modello di valorizzazione, valutando cosa abbiano effettivamente fatto le istituzioni per limitare certi eccessi, sia per affermare la necessità di restituire una dimensione storico-antropologica più filologica, attraverso un lavoro culturale diffuso e centri di documentazione, musei, biblioteche, archivi e altre iniziative.

 

Secondo te chi – tra i tanti attori che hanno costruito il movimento informale di valorizzazione del Salento e della sua cultura – è stato forse più dimenticato o non è adeguatamente conosciuto?

Domanda interessante. È stato purtroppo un movimento colpito da scomparse premature e alcune persone sono rimaste nell’ombra. Sicuramente Uccio Aloisi è stato un grande personaggio, il grande eroe della musica popolare salentina. Un anziano analfabeta che ha conosciuto una sua seconda giovinezza con il movimento degli anni ’90 e che per osmosi culturale ha insegnato tanto a tutti. Poi ricorderei Sergio Torsello, scomparso nel 2015, che ha avuto un ruolo centrale nel lavoro culturale e nella direzione della Notte della Taranta. Quando è venuto a mancare sono stati in molti a prendere l’impegno di ricordarlo, ma finora non mi pare sia stato fatto molto. Poi altre personalità, scomparse prima di Torsello, vorrei ricordare Giorgio Di Lecce, fondatore di Arakne mediterranea, importante intellettuale oggi quasi dimenticato.

 

Molti dimenticano che questa tradizione faceva parte della cultura delle classi subalterne, quasi sempre vilipesa allora. Oggi invece si dimenticano le condizioni sociali dove questi fenomeni vanno collocati e se ne dà invece spesso una lettura folcloristica, se non addirittura new-age…

Ma non è sempre stato così: all’inizio del movimento di cui si diceva la lettura sociologica e culturale era chiara, con collaborazioni e contatti con lo storico Alessandro Portelli, il circolo Gianni Bosio, l’Istituto Ernesto de Martino allora coordinato da Ivan Della Mea, una serie di realtà che hanno sempre lavorato con attenzione verso le culture popolari, le lotte sociali, la memoria del lavoro, le culture materiali. Nel momento in cui la promozione deve diventare anche mainstream, con il coinvolgimento di personaggi televisivi che sono ossimorici rispetto a certi valori, è tristemente chiaro che alcuni connotati si perdano. Per fare una battuta, quando si passa – come è successo qualche anno fa durante la Notta della Taranta, da Ernesto de Martino a Stefano De Martino (allora compagno di Belen Rodriguez, invitata in qualità di “soubrette”) qualcosa non sta funzionando e un certo tipo di lettura del proprio passato è dimenticata. Per fortuna ci sono ancora gruppi – come il Canzoniere Grecanico Salentino, Officina Zoè, Antonio Castrignanò, Dario Muci ed Enza Pagliara e altri – che durante il loro spettacolo riescono a riferirsi ad una profondità storica senza cadute nella superficialità.

 

Musicisti, architetti, filosofi, designer… Come si può spiegare l’alta densità di genialità e di eccellenze che nasce in Salento?

Per leggere quello che succede oggi forse bisogna andare un po’ indietro, magari all’Accademia salentina di Lucugnano di Girolamo Comi, a cui partecipavano anche Maria Corti, Oreste Macrì, Michele Pierri, Vincenzo Ciardo, Ferruccio Ferrazzi, Mario Marti, intellettuali che avevano contatti nel resto d’Italia e in Europa. Negli ultimi tre decenni è cresciuto un orgoglio territoriale che si è gradualmente alimentato fino a produrre queste eccellenze. Ci sono le genialità autoctone e quelle importate, il Salento attrae molti notevoli personaggi, pensiamo a Helen Mirren. Evidentemente c’è un genius loci, una stregoneria di questa terra che attrae, è un discorso che scivola nell’irrazionale (oltre che in una certa retorica che sinceramente non amo) ma che trova riscontro in quello che dicevi nella domanda, che è innegabile.

 

Conosci bene la Puglia e il Salento? Secondo te quali sono i difetti di questa terra?

Credo che lo spirito pubblico salentino non sia all’altezza della “retorica salentina”, neanche lontanamente. Questo ritengo sia l’aspetto più da rimarcare. Siamo accoglienti, siamo intraprendenti, ma penso che il carattere su cui si dovrebbe lavorare sia proprio lo scarso senso di responsabilità sociale collettiva. L’amore dichiarato per la propria terra si scontra per esempio con quello che possiamo vedere girando le campagne ricoperte di rifiuti, che non sono certo un bel biglietto da visita.

 

Ti sei occupato molto del rapporto tra cultura e sostenibilità. Pensi che ci sia una sufficiente attenzione ai problemi dell’agricoltura e dell’ambiente da parte dei politici?

Non è facile dare un giudizio univoco, in Italia abbiamo esperienze molto diverse. C’è tanta retorica, il termine sostenibilità lo troviamo dovunque, ma quando poi si tratta di fare delle scelte che incidono su interessi specifici, diventano tutti molto più timidi. Non sempre le politiche concrete vanno in questa direzione anche se c’è una sensibilità crescente da parte dei cittadini a costruire contesti in cui certi valori ambientali e territoriali siano preservati, e questo genera delle pratiche interessanti e rilevanti. Il problema Xylella è una ferita che ha fatto danni enormi al paesaggio salentino, che sarà molto difficile rimarginare. Bisogna dire che ci sono anche tante esperienze diffuse e pionieristiche di lavoro sulle produzioni tipiche, sul paesaggio, di reimpianto degli ulivi e di riconsiderazione in merito all’agricoltura di qualità. Noto una reazione positiva negli ultimi anni, è cresciuta una sensibilità a riguardo.

 

Conosci il progetto del Vigneto sul Castello di Copertino?

Ne ho sentito parlare ma non lo conosco bene. Mi sembra una realizzazione significativa per vari aspetti. Potrebbe essere un progetto interessato dall’Art Bonus, la misura agevolativa introdotta per favorire le erogazioni liberali a sostegno della cultura. In particolare, il donatore di una erogazione liberale, elargita per interventi a favore della cultura e dello spettacolo, può godere di un regime fiscale agevolato nella misura di un credito di imposta pari al 65%.

 

“Il tempo è una bottiglia di vino vuota”, vuoi commentare questa frase del musicista Willem Breuker?

Credo che il tema sia quello della finitezza della nostra esperienza umana e quindi la bottiglia di vino vuota voglia dire che le cose belle finiscono. Ovviamente se la metafora è incentrata sul vino significa assegnargli una forte potenza simbolica.

 

Uno degli auguri più belli durante i brindisi è “Che i calici cantino!”. Si dice così solo per la sonorità dei calici o c’è qualche altro motivo?

La pratica del brindisi tradizionalmente era abbinata al canto. Cantano i calici e cantano gli uomini che brindano.

 

Il vino è il canto della terra, ha scritto Mario Soldati.

Una formula e un’esperienza di grande intensità. Forse perché il vino è l’espressione più poetica dei prodotti che può darci la terra

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