Griki. I tradimenti dello spettacolo

Pubblico qui un dibattito molto interessante – parzialmente ripreso dalla pagine di Katundi Ynë, una rivista calabrese che tratta di cultura delle minoranze linguistiche – sul rapporto fra tradizione musicale e spettacolarizzazione, sull’effetto (rischioso e spesso deleterio) dei grandi festival “etnici”, e su come la musica può aiutare a ritrovare il senso della comunità e di un diverso modello di sviluppo per tanti luoghi del Sud. Il protagonista è Valentino Santagati, musicista, ricercatore, attvista culturale calabrese, impegnato da anni, con passione e rigore, nella difesa della sua terra e delle sue espressioni culturali. Mi ha chiesto di ospitare questo confronto, a partire dalla sua “controreplica”, ancora inedita, per renderlo disponibile a un pubblico di appassionati e addetti ai lavori, e lo faccio volentieri. Questo blog è ovviamente aperto anche ad altri contributi su questo argomento.

Griki. Il tradimento dello spettacolo

Intervista a Valentino Santagati, di Domenico Minuto, da Katundi Ynë, n. 1/2013

valentinoValentino Santagati ha un rapporto intimo con il canto popolare calabrese. Perciò non solo lo frequenta con grande autorità e una voce eccezionale in ogni angolo sperduto della Calabria, ma lo rivive negli incontri più seri di questo genere di musica in tutta Italia. Una volta ha preso parte ad un festival in Provenza accompagnato da pastori e circondato da capre e pecore. È un giovane alle soglie della maturità e si è formato, non soltanto musicalmente, ai confini dei territori grecanici; ovviamente, conosce tutta la tradizione musicale grecanica sia della Calabria che del Salento; ma è in possesso di tante altre tradizioni, di cui parla nei suoi libri.

Fra questi ricordo: Le vacche sono anime del purgatorio (in collaborazione con Carlo Mangiola) ed. Iiriti, Reggio Calabria 2000; Quattro corde e un terzino, ed. Manubrio Baffi, Reggio Calabria 2001; A catarra dô vinu. I suonatori di chitarra battente delle Serre calabresi (in collaborazione con Anna Cinzia Villani), Nota, Udine 2005. Per cantare vuole gli strumenti e una sedia, alla maniera greca; se può, evita qualunque pedana ed i microfoni; detesta gli amplificatori. Per questo motivo, da qualche anno a questa parte, rifiuta in massa i frequentissimi inviti che gli vengono proposti, perché gli organizzatori calabresi di incontri musicali popolari sempre più li identificano con gli spettacoli di musica folk strombazzata da mostruosi amplificatori. Ma per Valentino cantare è vivere con la gente, non dare spettacolo. Gli ho chiesto di rispondere a qualche mia domanda ed ha accettato perché mi vuole bene.

Valentino, mi sembri un appassionato della vita contadina; cerchi la genuinità: ma cos’è per te?

Non sono un appassionato e nemmeno un fissato della genuinità. Il discorso è più profondo e più personale. Quando ero ancora bambino, le circostanze mi hanno dato l’occasione di vivere quotidianamente in contatto con una famiglia di agricoltori e pastori. Ho sentito che il loro modo di vedere le cose mi liberava da tante piccole remore che l’educazione cittadina e borghese cominciava a propormi; d’altra parte, non restavo vincolato nemmeno alle convenzioni sociali di quella famiglia. In una condizione di strana libertà psicologica ho sentito sempre più Pasquale e Mica come i miei veri nonni che mi hanno aperto gli occhi per vedere le cose senza incrostazioni preconcette. Ad esempio, nella loro cultura, i piccoli non sono trattati da bambini, ma da persone come tutte le altre, anche se nei limiti delle loro possibilità. Argomenti che l’educazione materna evitava, come il sesso e la morte, erano toccati da questi miei “nonni” con grande semplicità e tranquillità. I loro interessi riguardavano il vento, la campagna, la compagnia degli amici, gli animali, le piante. Così comunciai a rifiutare l’eduzacione borghese, avvertendo sempre più il bisogno di partecipare alla vita e agli ideali contadini di Pasquale e Mica.

Questa tua esperienza in che rapporto è con il tuo canto?

Pasquale e Mica cantavano e suonavano continuamente. Il canto era il campo della loro comunicazione, il modo di esprimere con grande libertà, ma controllata dalla musica e dalla rima, gli affetti che non avrebbero espresso con parole soltanto parlate. Tutto l’ambiente umano che li circondava si comportava così. Ricordo i versi che improvvisò un loro anziano amico, il nonno di Nino, che anche tu conosci, quando si presentò davanti a loro inzuppato per un terribile temporale. Gli risposero in rima esprimendo la loro apprensione per lui conciato in quel modo. A poco a poco, attraverso la musica e il canto, entrai nell’intimità di quella vita semplice, a diretto contatto con la natura, con rapporti umani improntati alla solidarietà ed allo scambio. Ero affascinato dal loro mondo, che volevo fosse il mio, ma non osavo entrarci. Mi ci ficcò a forza il nonno di Nino. Ricordo che erano seduti una sera un gruppo di amici in casa di Pasquale e si parlavano cantando in rima o, come dicevano, “poesiandu”. Pasquale era seduto a cavalcioni della seggiola, al contrario. A un certo punto il nonno di Nino si rivolge verso di me, mi guarda fisso, ed esclama: “Giuvanutteddu che sempri scutati / com’è chi non diciti du’ palori? / Nui simu quattr’amici cca rrotati / e vi vulimu scandagghiari u cori!”. Mi venne un grande bisogno di rispondergli e dissi: “Sulu suleddu mi fici mê mamma / sulu suleddu, senza cumpagnia. / Ammenz’a vvui trovai la megghiu mamma / ammenz’a vvui la megghiu cumpagnia“. Pasquale, ricordo, si alzò di scatto, mi abbracciò e mi disse in dialetto: “Bravo! Appresso a noi ti fai anche tu poeta“. Così cominciai. Presentarsi cantando in quel modo in quell’ambiente significa essere ammessi nell’intimità del loro semplice mondo. Significa parlare, da uomo a uomo con chi la Calabria la vive come terra e l’ama come madre benefica senza sovrastrutture borghesi o peggio. Cantando, Pasquale mi illustrò la sua vita campestre, i problemi dell’allevamento, i luoghi, gli episodi della sua comunità, e tutta la sua grande umanità.

Con il tuo canto trasmetti un messaggio di cultura e di vita. È accolto e da chi?

Si dovrebbe precisare che io – come posso, ciè in un modo che purtroppo non restituisce la complessità delle tecniche vocali e degli stili tradizionali – canto soltanto negli spazi profani delle feste religiose, se mi chiamano a fare una serenata, quando un amico d’estrazione rurale promuove un’occasione conviviale. Negli altri casi, cioè quando gli organizzatori di iniziative spettacolari o culturali mi contattano ed accettano le mie proposte (luoghi adatti all’incontro ravvicinato, niente palco, niente amplificazione) io converso con la gente, o faccio comizi, presentando le esecuzioni musicali e parlando della vita dei musicisti popolari che convoco ogni volta. Devo dire che ancora negli anni novanta gli operatori culturali facilmente accettavano di aderire a una logica dei piccoli numeri e di affiancare alla ricreazione la riflessione e lo scambio umano ravvicinato. Oggi invece le imprese dei vari Bennati e Danili Gatti hanno colonizzato l’immaginario dei calabresi: le modalità di fruizione della musica e l’aggregazione tra le persone devono essere per forza quelle dei concerti rock e della discoteca. E così i bisogni identitari cresciuti in questi anni per via del disagio urbano, della desolazione delle marine, dei problemi materiali della gente e di quelli interiori connessi al tramonto dei legami sociali forti, vengono soddisfatti momentaneamente attraverso scorciatoie. Ognuno, sentendosi calabrese per una sera, passa da Caulonia a Badolato e da qui al Paleariza, consumando benzina e musica leggera travestita da musica tradizionale. E così nessuno affronta un percorso identitario spinoso, che faccia i conti con il degrado della nostra regione, con la cementificazione, l’abbandono delle campagne, la gestione dei rifiuti e via elencando. La cosa importante da sottolineare è che i cantanti e i suonatori popolari, non a caso detentori di saperi rurali e artigianali, protagonisti di scelte insediative, alimentari e di una gestione dei rapporti interpersonali controcorrente, non devono essere considerati testimoni del passato da mettere in scena ma una garanzia di futuro per la nostra regione. Se vogliamo risalire la china dovremmo recuperare i semi locali, conoscere i terreni, saper fare muri a secco, presidiare con consapevolezza i territori. E i nostri interlocutori primari sarebbero loro, i sobri custodi della raffinata cultura musicale di tradizione orale in nome della quale si stanno creando con soldi pubblici, che potrebbero essere destinati a contrastare il dissesto idrogeologico, ulteriori devastazioni.

Questo problema è presente dappertutto in Calabria o ci sono ambienti immuni?

A Cropalati nel 2009 il sindaco Fabrizio Grillo senza battere ciglio ci ha creato le condizioni giuste, facendoci suonare in una dimensione raccolta proprizia al dialogo e al ragionamento. A colui che, abituato alla desertificazione delle campagne e allo spopolamento dei paesi interni, proviene dalle desolate plaghe ultra-meridionali della penisola calabrese, l’arrivo in questo paese riserva delle sorprese. Ci hanno subito rallegrato il cuore la presenza di coltivazioni abbastanza consistenti, l’animazione della piazza con giovani e vecchi a stretto contatto scherzoso, i numerosi avventori dei due bar che lì si affacciano. Poco dopo abbiamo saputo pure che il paese conta ancora più di mille abitanti, e che esistono due attività produttive connesse alle risorse locali (la fabbrica di pellet e la fornace Parrilla) in grado di impiegare circa settanta persone. La sera poi, prima di suonare e mentre suonavamo abbiamo conversato con tanta gente cordiale e curiosa, scambiandoci il resoconto delle rispettive esperienze. Il giorno dopo dai vicoli che sboccano in piazza giungevano a noi chitarre battenti appena riesumate, tutte di profondissima pancia e rustica fattura, e qualcuno andò a prelevare dalle contrade circostanti cantanti e suonatori che diedero vita ad esecuzioni musicali da tempo non più in uso in questo eccellente paese.

 

Replica di Danilo Gatto, da da Katundi Ynë, n. 2/2013

Ho chiesto di replicare poiché impropriamente tirato in ballo dall’intervista di Domenico Minuto a Valentino Santagati dal titolo Il tradimento dello spettacolo, pubblicata sul numero scorso di Katundi Ynë.

Il sig. Santagati non è nuovo a questi attacchi, solo che periodicamente ne sposta il tiro: aveva cominciato anni fa con Antonello Ricci e Roberta Tucci, rei di aver fatto le loro ricerche (che rappresentano il primo, fondamentale contributo alla conoscenza della chitarra battente in Calabria) nell’Alto Crotonese invece che nelle Serre Catanzaresi; ha poi proseguito con Otello Profazio, salvo farsi autografare i libri nelle presentazioni di quest’ultimo; infine, visto che nessuno lo degnava di una risposta, si è spostato su di me, responsabile (nientemeno!) di aver colonizzato l’immaginario dei calabresi.

Non si preoccupi: l’onoro io di una replica, sperando che il suo ego ne tragga conforto e così la finisca.

Ora, a parte il fatto che accostare me a Bennato significa veramente non conoscere la storia recente della musica in Calabria – su quella passata non saprei, ma sarei istintivamente portato a dire: pure – dal momento che con Bennato ho avuto, ed esiste una corrispondenza nel merito, divergenze profondissime che hanno portato anche a scontri duri e a rotture pubbliche clamorose, mi verrebbe da chiedergli: ma di Bennato non sei stato complice, collaborando dal 2008 al 2010 – peraltro molto ben retribuito – nel Kaulonia Tarantella Festival proprio da lui diretto? Facendo per giunta l’insegnante di chitarra battente, quindi all’opposto del rapporto che sostieni si debba avere con la tradizione.

E che dire del lavoro retribuito per altrettanti e più anni, sia come musicista di spettacolo (ma forse era questo il tradimento al quale si riferiva nel titolo) nel gruppo Nistanimera, sia come componente dell’organizzazione del Festival Paleariza, nei quali, come dice il nostro, si consuma benzina e musica leggera travestita da musica tradizionale (quindi anche la sua)?

Lo sa, il buon Valentino, che è stato pagato con quelli stessi soldi pubblici che tanto aborrisce e che ha dunque sottratto a migliori usi come il riassetto idrogeologico del territorio? Avrebbe potuto in tal caso offrire la sua opera gratuitamente, oppure richiedere in cambio qualche forma di pecorino o di salame nostrano o magari di concime naturale per il suo orto biologico, visto che pubblicamente sostiene – in conferenze pagate con altri soldi pubblici – la superiorità del baratto o al limite del dono, novello Argonauta del Pacifico Occidentale; oppure, semplicemente, avrebbe potuto rifiutarsi di partecipare per non contribuire alla devastazione culturale di cui io vengo accusato.

Ma tant’è, le carriere si costruiscono pazientemente e gradatamente, e Santagati sta ai suonatori tradizionali come Arlacchi sta all’antimafia: un professionista, che vive di questo. Salvo tradirsi ogni tanto, dimostrando la sua vera considerazione per quei maestri che dice di adorare: non ho infatti mai trovato tanto disprezzo verso un suonatore quanto quello esibito nella copertina del suo La catarra do vinu, pubblicato nel 2006. Non è dignitoso mettere in vetrina un uomo che ti riceve a casa sua, con il quale s’ instaura una confidenza, e si lascia fotografare in canottiera, quindi in una dimensione intima, familiare. Un libro invece è una cosa pubblica. Forse solo nel punk si usano certe rappresentazioni, ma l’obiettivo, e il messaggio, sono completamente diversi, e molto interni a quella comunicazione di massa che Santagati aborrisce. Nesuno mai si sognerebbe di mostrare in canottiera Toscanini o Benedetti Michelangeli, per quanto mi riguarda nemmeno Peppino ‘e Costatu.

Mi piacerebbe, lo confesso, avere avuto il potere che mi viene attribuito nell’intervista: presuntuosamente, dico che le cose in Calabria dal punto di vista culturale sarebbero diverse. E un Santagati qualunque parlerebbe di meno.
La canottiera di Peppino

controreplica (inedita) di Valentino Santagati

Gentile direttore,

un dibattito ulteriore su questioni giudicate ineludibili da un’opinione pubblica per fortuna ogni giorno più ampia potrebbe avere una certa utilità, perciò sono contento se l’intervista del professore Minuto pubblicata sul numero 148 di Katundi Ynë ha sollecitato la risposta del Gatto da lei ospitata nel numero precedente. Lo scritto del Minuto tentava di orientare l’attenzione dei lettori sul groviglio storico, sociale e culturale in cui si trovano strette le popolazioni calabresi (pervase peraltro da una cieca furia autodistruttiva), che le ha condotte a vivere una condizione antropologica segnata da profonda sofferenza in un territorio sempre più degradato (m’è capitato tra le mani di recente il libro di Mauro Francesco Minervino Statale 18 e trovo che sia stato capace di raccontare la nostra attuale realtà in maniera efficace facendo anche buona letteratura). Il Minuto, come me, spera che si possa inventare un rapporto nuovo col passato e con la natura muovendo da una necessaria critica della decrepita ma ancora rapace società industriale (con tutti i suoi derivati post industriali). Orbene è su questo sfondo che nell’intervista si ragionava sui bisogni identitari esplosi anche in Calabria negli ultimi anni, a mio avviso generati da profondi disagi materiali ed interiori. Oggi nella nostra regione il mito longevo del progresso e della modernità coesiste con il neonato mito della tradizione: sono in numero crescente le persone che cercano di darsi forma e senso esaltando la calabresità, cercando in qualche modo un radicamento locale. Purtroppo nella maggior parte dei casi la ricerca identitaria, che potrebbe essere un’occasione storica, sta seguendo percorsi superficiali e nell’intervista sostenevo che i vari festival tipo Notte della taranta sono il perno di un’operazione gattopardesca. Bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è: si favorisce l’ebbrezza localistica, si celebra il borgo antico annientato in precedenza dal clima del boom economico ma le modalità di aggregazione e di fruizione della musica sono sempre quelle del concerto da stadio e della discoteca, confortevoli per chi si vuole sentire calabrese senza mettere in discussione il proprio stile di vita e le scelte rovinose di chi sul territorio fa affari a scapito della salute dei cittadini e della fisionomia del paesaggio. Ho detto al Minuto che le imprese del Gatto hanno colonizzato l’immaginario dei calabresi perché dopo tutte le Tarantelle power (che infatti si riproducono come conigli) ogni giovane prende in mano strumenti popolari e fonda gruppi musicali pensando di avere un’occasione di visibilità e di riconoscimento sociale nei termini del divismo della cultura di massa. Per quanto mi riguarda ho suonato nella vita per non lavorare, disposto ad affrontare i rischi della precarietà economica ma non a svendere il mio tempo a una società che non mi piaceva. Tutti sanno che però mai ho barato, visto che da sempre dico urbi et orbi di non essere bravo come i suonatori popolari e cerco di far conoscere questi ultimi con ogni mezzo, soprattutto perché sono depositari di saperi rurali e artigianali utili per chi tiene al risanamento del territorio. Si voleva con l’intervista parlare di questo, ma la permalosa replica ha divagato spostando il discorso su un piano personale per me poco coinvolgente e credo ancora meno interessante per i lettori. Evito quindi di controreplicare, di confutare la profusione di inesattezze e di falsità sciorinate dal Gatto, anche se due cose sono costretto a precisarle: vado al Caulonia festival soprattutto perché nessuno mi censura né mi ha fatto rappresaglie quando ho declinato l’invito a suonare sul palco, men che meno il signor Bennato che neanche conosco, e posso dire quello che mi preme proprio alle persone con cui più desidero parlare, non aspirando alla torre d’avorio ma a postazioni molteplici per condurre un’azione di guerriglia (del resto la funzione ormai c’è e se la svolgesse un altro mi resterebbe lo scrupolo di non aver fatto il possibile per discutere con i frequentatori sbandati di quella bolgia sulla necessità di vivere più sobriamente, di non utilizzare pesticidi e fertilizzanti chimici e via elencando). E poi Peppino Donato, persona immune dal perbenismo e così intelligente da non legare il concetto di dignità alle fogge dell’ abbigliamento, indossava una canottiera blu, la stessa con cui si faceva vedere in giro dai suoi compaesani negli infuocati giorni di luglio. La foto di quella copertina, che lo ritraeva impegnato a cantare con la sorella e il cugino (poi “ritagliati” dall’editore per un equivoco), l’aveva scelta lui stesso, pregandomi di disporre con gli artifici del computer l’eliminazione di una benda dall’occhio sinistro ma non di fargli comparire addosso un vestito che fosse meno disdicevole per il Gatto.

 

foto ripresa da www.brunomarzano.it

 

 

 

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