I colori della terra: l’autobiografia parlata e cantata di Uccio Aloisi

uccio-aloisi-bPubblico qui lo splendido saggio introduttivo scritto da Alessandro Portelli per il volume I colori della terra. Canti e racconti di un musicista popolare (a cura di Roberto Raheli, Vincenzo Santoro e Sergio Torsello), “aubiografia parlata e raccontata” del grande cantore salentino Uccio Aloisi (1928-2010), a cui sono allegati due cd audio contenenti una lunga intervista al nostro, uscito nel 2014 per le gloriose Edizioni Aramirè. Il titolo allude ai 14 modi con cui Uccio chiamava i vari tipi di “argilla ” che veniva estratta a Cutrofiano, il suo paese.

I colori della Terra

I colori della Terra

I quattordici colori della terra

di Alessandro Portelli

Si dice che gli eschimesi hanno trenta nomi diversi per la neve. Uccio Aloisi ha quattordici nomi diversi per nominare la terra: per la “carne venduta” che la terra la apre con la zappa e la scava nelle cave di tufo, la terra è molteplice e dai suoi colori dipende la vita. Per questo, bisogna imparare a vederli, e saperli nominare: terra nera, nera pignatara, petruddharu, chianca, pilumafu, crita arenusa, crita bona, crita turchina, cuzzaru, sapunara, crugnu, tufu neru, tufu rosso, petra bianca

Sapere i colori e i nomi della terra è necessario anche perché, dice Uccio Aloisi, “ognuno forma il diario in base a quanto nasce sulla faccia della terra”. Uccio Aloisi ha avuto una vita lunga, intensa e non facile, ed è diventato una figura di culto in tarda età per un pubblico fatto in maggioranza di ragazzi. È stata la riscoperta della pizzica, con quel tanto di moda che ci si è accompagnato, a portarlo alla ribalta – e giustamente, non solo perché è un grande artista e una voce straordinaria (e il suo disco con Uccio Bandello, Bonasera a quista casa, è il più bel disco di musica popolare che io conosca), ma perché dentro questa voce c’è la grana e la storia di un mondo del quele la pizzica è solo una delle espressioni, e non necessariamente la più significativa. “La musica è nata attraverso la guerra, attraverso il lavoro, attraverso la discussione”.

Attraverso la discussione. La prima cosa che colpisce in questa autobiografia parlata e cantata è la sua lingua – scrupolosamente trascritta e intelligentemente tradotta, ma solo per aiutarci a capirne il senso attraverso la registrazione sul CD. In questa voce c’è musica anche quando non canta; le intonazioni, i tempi, i volumi, le pause portano tanto senso quanto le parole, e affascinano all’ascolto di per se stesse oltre che per quello che dicono. Ascoltare Uccio Aloisi basterebbe per rifiutare una volta per tutte l’idea che il dialetto sia una lingua minore, rozza, povera, “semplice”. Il suo dialetto per Aloisi è una lingua ricchissima e composita, con un lessico ampio e un repertorio di formule e di espressioni flessibile e articolato – penso alla precisione dei termini tecnici che nella lingua dei cittadini di oggi (“alli tempi nosci s’ha persu tuttu”, dice l’intervistatore) finiscono tutti sotto un’unica vaga idea di qualcosa di estraneo – “zappre”. E invece qui l’operazione, come i colori della terra, si suddivide: scatinare, zappare, ntrafare, nsurchiare, antajare… “le tre, quattro manere de faticare cu la zappa”, un mestiere che non è solo fatica fisica ma anche competenza, conoscenza. Per forza poi che non ha problemi a distinguere e a nominare i tipi di stornelli i rapporti fra le voci, il senso dei canti e delle feste…

La zappa è da sempre contrapposta alla scuola – va’ a zappare, dicevano i maestri d’un tempo agli scolari riottosi. Nel caso di Uccio Aloisi, figlio di zappatori, questa non è una metafora: bocciato tre volte in terza elementare, finisce presto “l’esilio con la maestra”; a undici anni sta per la strada a raccogliere il letame e a quattordici anni, infanzia finita, “scìa cu zappu cu l’ommani”. È una storia a suo modo esemplare della nostra scuola di classe, perché ora che lo conosciamo tutto si potrà dire, ma non che Uccio Aloisi non fosse abbastanza intelligente per superare la terza elementare. “Anche nella povertà esiste l’intelligenza”, constata sorpreso un maestro di musica dopo una discussione con lui sull’opera lirica; ma è un’intelligenza di un altro mondo, che usa un’altra lingua che la maestra non era abbastanza intelligente, abbastanza colta da capire. Questo è un tema che ritorna: l’educazione vince il paradiso, è gentile non con chi si chiama gentile ma con chi fa atti gentili… “Chi non la risente la musica nu tene mancu cervellu”, dice Uccio Aloisi: la musica, insomma, è fatta di “sentire” (l’orecchio e il sentimento), ma è fatta anche di intelligenza e di pensiero (il cervello).

Cu leggu sacciu, però se t’aggiu spiegare ci aggiu lettu no capiscu… però cu scrivu no sacciu, sacciu appena lu nome miu”… Tecnicamente, cosa di cui non si rendono conto i ragazzi alternativi che gli chiedono l’autografo, Uccio Aloisi è analfabeta. Ma è bene che ci ricordiamo che la categoria di “analfabeta” non esiste nelle culture orali; è un prodotto della scrittura. Per definizione, non esistono analfabeti nelle culture orali, perché nessuno è definito in base alla privazione di qualcosa che nessuno possiede, che non esiste nemmeno. È con l’arrivo della scrittura, della scuola, che il mondo si divide fra letterati e illetterati, fra istruiti e “ignoranti”.

Ora, Uccio Aloisi è un esempio straordinario di resistenza a questa spartizione: non è istruito, ma è sapiente lo stesso. All’esclusione e allo stigma che dovrebbe comportare l’analfabetismo risponde con la dignità, il potere, il sapere di una cultura orale – la lingua, i suoni, i canti, le feste, i riti; ma anche il lavoro con le sue tecniche, e la memoria storica (le occupazione delle terre, con l’offesa più grave da parte delle forze della repressione: la distruzione delle biciclette). È una sapienza che non è diversa solo per contenuto, ma anche per modo: più che dall’esito di un apprendimento, si tratta soprattutto di un’appartenenza. Il lavoro si impara guardando gli altri lavorare, e lavorandoci insieme, magari “rubando” il mestiere; le canzoni si imparano ascoltando e cantando insieme. È raro che qualcuno si metta formalmente a insegnare qualcosa: si fa insieme, ci si cresce dentro. Per questo, il sapere di Uccio Aloisi è soprattutto un’appartenenza, un’identità.

Il che non vuol dire starci chiuso dentro: le culture orali sono per definizione eclettiche, fatte sia da un nucleo identitario, sia di frammenti presi al volo da tutte le parti. Facciamo caso, ancora, alla lingua: Uccio Aloisi parla in dialetto ma canta spesso in lingua, nell’italiano fiorito delle opere e di certe cazonette. Ammira Pavarotti (e si sente, nei tentativi di acuto finale in certe sue performance), nel suo repertorio ci sono arie liriche, stornelli romaneschi, ballate padane (Le tre sorelle), canzoni “bianche” del repertorio di guerra, canzoni sentite alla radio. Si appropria di tutta la sfera sonora che lo circonda – e la assimila al nucleo fondante della sua storia e del suo mondo. Anche lo Spirù – un ballo brevemente alla moda di cui non sentivo parlare da mezzo secolo – nella mani di Uccio Aloisi diventa musica salentina.

Anche la classe, allora, è identità, non ideologia. Uccio Aloisi si sente estraneo alla politica, anche se sa benissimo chi mangia i bambini “e puru li grandi!”, e chi è stato “tutti na massa de carogni”. Odia i padroni in termini esistenziali: “Ci cazzu ssaggiava mai lu pane cu li patruni…” Occupa le terre insieme coi comunisti, ma non gli inteeressa mai diventare comunista o altro; è troppo fuori dalla categorie, troppo artista insomma, per interessarsi a un’etichetta, per appartenere a un gruppo. Uccio Aloisi appartiene solo a se stesso, e alla fondazione della sua cultura.

Ave fazzu romanzi de quiddhi, romanzi…” Per due volte, Uccio Aloisi, analfabeta e sapiente dell’oralità, evoca una delle forme canoniche della cultura scritta, il romanzo. Da una parte, vuol dire che sono storie lunghe e straordinare; ma su un altro piano rinvia al fatto che i romanzi sono sempre storie di persone, di singoli individui. Il luogo comune – la mia vita è un romanzo – vuol dire anche questo: la mia vita è diversa da tutte le altre. Afferma quel “diritto all’autobiografia” che Luisa Passerini ha identificato come fondamento della storia orale delle classi non egemoni. Ed è “un romanzo”, in questo senso, la vita di Uccio Aloisi, e anche in questo c’è una lezione, culturale e in senso lato politica: anche le culture popolari, anche le culture orali, che vivono della condivisione e della comunità, tuttavia sono fatte di individui, diversi fra loro; e vivono e crescono anche grazie ai contributi personali di individui eccezionali.

Per questo, la musica di Uccio Aloisi resta un’altra cosa anche rispetto a chi impara scrupolosamente a ricantarla; non si tratta solo di come canti e come suoni, si tratta di chi sei. ‘Ci sventuratu nasce del le fasce / ca ccè bene pot’avire quandu crisce‘, canta Uccio Aloisi. Questa strofa non è tra la preferite fra gli euforici cantori della neo-pizzica, ma trova echi in tutte le culture contadine del mondo (‘Da piccolo fanciullo incominciai / de non ave’ più bene in vita mia / la fasciatori dove mi fasciorno / erano pieni di malinconia‘, cantava Dante Bartolini in Valnerina; e la sventura che entra nelle fasce è come il blues che entra nel pane in un classico blues di Bessie Smith). Ecco: anche quando canta di festa e di amore, Uccio Aloisi canta la festa e l’amore di gente che ha conosciuto la sventura nelle fasce, e non se l’è dimenticata.

“Sia lode ora a uomini famosi”, dice un versetto della Bibbia. Negli anni ’30, James Agee e Walker Evans ne facevano il titolo, ironico, di un memorabile libro sui braccianti dell’Alabama. Il bracciante, mezzadro, zappatore, cavatore, cantore e poeta Uccio Aloisi, per uno strano gioco del destino è divantato famoso per davvero. Ma non è una buona ragione per smettere di lodarlo.

Una scheda sul libro si può leggere cliccando qui

Un mio articolo scritto in occasione della sua scomparsa, dal titolo Addio a Uccio Aloisi, ultimo patriarca della musica popolare salentina, si può leggere cliccando qui

Di seguito un’istruttiva ed esilarante “intervista in pillole” ad Uccio Aloisi, eseguita da Giuliano Capani nel 2015

 

 

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