Riflessioni sulla Notte della Taranta 2003
di Vincenzo Santoro
19 agosto 2003
La Notte della taranta, fin dalla prima edizione, è stata la manifestazione di più vasto richiamo sulla “musica popolare” organizzata dalle istituzioni pubbliche (con significativi investimenti economici, circa 250.000 euro nel 2002). Negli anni, la manifestazione ha avuto un seguito sempre maggiore di pubblico e una grande risonanza sui mezzi di comunicazione, locali, nazionali e a volte internazionali. Oggi è diventata senza dubbio una delle manifestazioni musicali più importanti del Mezzogiorno, e ha contribuito non poco alla creazione della “moda del Salento”, che porta con sé tanti turisti e tanta attenzione per le nostre terre (con particolare riferimento alla “Grecìa salentina).
Quindi ci troviamo di fronte ad una raffinata ed efficacissima operazione di “marketing territoriale”
(lo straordinario successo di pubblico anche di quest’anno sta ad indicarlo). Di questo dobbiamo dare atto, al di là di tutto, agli organizzatori, che non dimentichiamolo, sono tra i nostri migliori e più illuminati amministratori pubblici.
Questo apprezzamento di fondo per la riuscita “promozionale” dell’evento non impedisce di cogliere alcuni elementi problematici della manifestazione, che hanno caratterizzato anche l’edizione di quest’anno, soprattutto per quanto riguarda la serata finale, che è evidentemente la più rappresentativa.
Sulla serata di Melpignano si potrebbero fare diverse considerazioni. Innanzitutto si tratta di un concerto, che andrebbe quindi valutato dal punto di vista strettamente musicale. Io ho sempre difficoltà ad entrare in questo tipo di ragionamenti, perché non faccio di mestiere il critico, e quindi le mie valutazioni sarebbero di carattere personale, fortemente dipendenti dai miei gusti. D’altra parte, alcuni dei limiti più evidenti del “concerto” di ieri sera, con particolare riferimento alla parte orchestrata da Cosma e Copeland (la macchinosità degli arrangiamenti, l’eccessiva insistenza sugli assoli, la difficoltà di inserire efficacemente gli “ospiti”, la mancanza di un denominatore musicale comune allo spettacolo – per cui si passava con estrema disinvoltura da una pseudo-pizzica iper percussiva ad un “canto alla stisa” fatto solo con le voci – e così via) derivano molto dal fatto che, per ragioni organizzative, i musicisti hanno avuto pochissimo tempo per mettere a punto le partiture musicali e per amalgamarsi. Lo stesso Copeland fino a quindici giorni fa, per sua stessa ammissione, non sapeva assolutamente niente della musica salentina. Pretendere che in pochi giorni si arrivi a comporre musica di qualità è forse chiedere troppo a chiunque. Quindi onore al merito di Cosma e Copeland, che hanno svolto egregiamente il compito che gli era stato affidato.
Se guardiamo invece al concerto di ieri dal punto di vista della musica popolare salentina le cose cambiano. I pezzi “originari” sono stati sottoposti a un trattamento radicale. A voler essere buoni potremmo dire che il livello della “contaminazione” è stato il massimo possibile, tanto che nei brani proposti era molto più facile rintracciare il background musicale dei protagonisti (ad esempio, erano evidentissime le suggestioni afro di Copeland e del suo gruppo di percussionisti) che la musica salentina. Il che, a voler essere meno buoni, vuol dire che le “tracce” salentine sono state usate come un “pretesto” per suonare altre cose, per esibirsi in interminabili (e spesso noiosi) assoli strumentali, e così via.
L’aspetto che però mi ha colpito di più è stata la superficialità, o forse potremmo dire la sciatteria, delle parti vocali – sia dei locali che degli ospiti – che forse interessavano meno ai maestri concertatori. E questo è abbastanza riprovevole, considerando che la musica salentina ha nelle voci e nella polivocalità il suo elemento fondamentale (molto più dell’aspetto ritmico…). Gli esempi potrebbero essere numerosi, ma forse il più significativo e imbarazzante è proprio l’esecuzione con le sole voci del canto polivocale preso dalle registrazioni di Alan Lomax del 1954: ognuno andava per conto suo, qualcuno stonava, qualcun altro sbagliava la tonalità, addirittura a un certo punto sembrava che venissero cantate strofe differenti… meno male che la “gioiosa macchina da guerra” delle percussioni ha presto ricominciato a funzionare, togliendo tutti dall’imbarazzo. Forse questo tipo di repertori andrebbe affrontato con maggiore attenzione e preparazione.
Ma gli aspetti più problematici della manifestazione, a mio avviso, non sono tanto nella musica che viene suonata, che può essere bella o brutta, può piacere o meno (e magari uno può decidere di andarci o non andarci) ma riguarda invece il modo ambiguo in cui la manifestazione viene “rappresentata” e il rapporto tra gli sviluppi del “movimento della pizzica” e quello che succede nella serata di Melpignano.
La Notte della taranta infatti continua a generare ambiguità: da una parte si rappresenta come un esperimento sulla “tradizione musicale” (sfruttando così l’irresistibile richiamo della “pizzica” e del “mito” del tarantismo), dall’altra si esprime la massima libertà possibile, tanto che della tradizione musicale rimangono solo lacerti incomprensibili. Non sarebbe forse meglio sgombrare il campo dagli equivoci, e ribattezzare la manifestazione “Grecìà Salentina World Music Festival?
L’impressione è che l’idea di fondo degli organizzatori (dichiarata: basta sfogliare la rassegna stampa) sia che la musica tradizionale di per sé appartenga al passato, mentre per essere “moderna” debba tendere ad assomigliare a qualcos’altro, ad essere qualcos’altro. In questo trovo una singolare riproposizione del vecchio provinciale “autopregiudizio” meridionale che afferma che le cose che vengono da “fuori” sono sempre migliori, per cui, per fare un esempio “edilizio”, venivano (e vengono) abbattute le case con le volte a stella per farle con i soffitti di cemento armato, tranne poi scoprire che sono più calde e crollano prima. Non vuol dire questo la presenza della singolare figura del “maestro concertatore estero”? Forse in qualsiasi altra parte del mondo chiamano un salentino per “concertare” la propria musica? Ve l’immaginate uno dei “nostri” che va nel Mississippi, gli fanno ascoltare per una settimana Robert Johnson e Muddy Waters e poi alla fine, in un tripudio di folla, sforna la “pizzica blues”? D’altra parte, non è neanche un caso che la manifestazione più importante (e più finanziata) in questo settore sia una manifestazione che tematizza il “tradimento”. Semplificando molto, il messaggio – quantomeno controverso – che viene veicolato, con tutta la “potenza” di una manifestazione così importante dunque è questo: “liberiamoci” al più presto della nostra tradizione, per fare finalmente la musica “moderna” (cioè quella che assomiglia il più possibile a quella che si fa da altre parti).
Sarebbe interessante, per verificare la validità di questa idea, che dal concerto “ipercontaminato” di Melpignano venisse tratto un cd da immettere sul normale mercato discografico (da solo, non come allegato di qualcos’altro). Siamo proprio certi che riuscirebbe a vender e più copie dei cd dei nostri gruppi più “tradizionali” (ad esempio dell’ultimo lavoro di Uccio Aloisi)? Ho qualche dubbio.
Un’ultima considerazione. Formalmente, uno dei soggetti organizzatori della Notte della taranta è l’Istituto “Diego Carpitella”, che nacque cinque anni fa per iniziativa di un gruppo di Comuni (con sede a Melpignano) con lo scopo essenziale di costituire un archivio della “musica di tradizione orale” del Salento, per raccogliere e mettere a disposizione di tutti le “testimonianze” della nostra tradizione musicale, che scompariranno con l’inevitabile scomparsa (che speriamo arrivi il più tardi possibile) dei nostri “cantori”. Ad oggi l’archivio non esiste ancora. Speriamo che prima o poi da qualche parte, oltre ad organizzare grandi “eventi”, si trovino anche le (poche) risorse necessarie per realizzarlo.