da il manifesto – di Emilio Franzina
Tra gli altri guasti e i molti pericoli che i cambiamenti in atto nel mondo della scuola minacciano di provocare in Italia, c’è da mettere in bilancio un nuovo tipo di appannamento della memoria storica. E non alludo solo agli esiti perversi dei revisionismi più sguaiati e alla moda. C’è di peggio, anche se non è il caso di trascurare, per altri versi, le ricadute “culturali” dell’azione deformante condotta dai vari Galli della Loggia, Adornato e congreghe mediatiche imperanti. Proprio quando, ad esempio, dopo anni di anticamera e di non casuale vigilia, tecniche e pratiche di ricerca tutte imperniate sull’oralità (e tradizionalmente osteggiate dalla cultura accademica, salvo rarissime eccezioni) cominciavano a farsi largo nelle nostre riletture del passato, filtrando talvolta persino attraverso i programmi d’esame universitari, è intervenuta una tale banalizzazione dei processi e dei debiti di apprendimento che sarà tanto, un domani, se col mezzo, poniamo, della didattica, si riuscirà a ottenere fra le generazioni più giovani una minima conoscenza “obiettiva” di ciò che è stato. Stuoli di neolaureati triennalisti, per non parlare di coloro che provvederanno a sfornarci le aule morattiane degli istituti medi superiori riformati in senso ferocemente classista, avranno agio, io temo, di ripensare, appagati, alla storia tranquillizzante di un fascismo “benigno” o a quella (meno irenica) di un lungo cinquantennio repubblicano egemonizzato però dalle sinistre, ed anzi governato, come in giro si racconta, dai comunisti. Figuriamoci cosa capiterà allora alle storie cosiddette “minori” e pazientemente recuperate “dal basso” infrangendo decenni di silenzio e veri muri di omertà residuale: un terreno, questo, dissodato soprattutto dall’oral history e da gruppi di studiosi che non molto tempo fa Cesare Bermani aveva provveduto a censire in due preziosi volumi di Introduzione alla storia orale (Odradek 2001). La loro disseminazione in varie parti della penisola, come che sia, aveva contribuito a dischiudere a testimoni e protagonisti del decorso storico novecentesco quello “spazio narrativo” autonomo e capace di rimuovere consolidate amnesie o molto comode rimozioni che Alessandro Portelli, un pioniere in Italia di questo genere di ricerche, segnala a titolo di elogio in premessa alla serrata indagine condotta a Tricase e nel Salento da Vincenzo Santoro e da Sergio Torsello (Tabacco e tabacchine nella memoria storica. Una ricerca del Circolo Gianni Bosio, Manni Editore Lecce dicembre 2002, 168 pp., € 13,00). Attraverso una trentina d’interviste rese in italiano e in dialetto, ma tutte tese al recupero d’informazioni e di punti di vista, di parole dimenticate e di suoni ovvero di canti legati alle esperienza di lavoro e di lotta di alcune generazioni di uomini e di donne nel Salento della tabacchicoltura, gli autori riannodano con pazienza i fili di un discorso originale su manifattura e campagne del Sud destinato a trovare il suo fuoco nell’episodio cruciale e periodizzante della “rivolta” popolare costata la vita, nel maggio del 1935, a cinque manifestanti. Senza nulla togliere alle altre parti del volume in cui, intrecciando fonti tradizionali e, di nuovo, fonti orali, gli autori tracciano un quadro esauriente del “Salento levantino” nella sua fase d’impianto e di primo consolidamento, quando in Terra d’Otranto si coagulò intorno all’economia del tabacco un complesso d’interessi fuori dell’ordinario (avvio in loco ed espansione della coltura sino ai limiti della Campania e del Viterbese, formazione di manodopera specializzata e flussi stagionali interni, fioritura d’imprese e connesso manifestarsi di un’accesa conflittualità sociale a ridosso però della nascita, già nel 1902, di una delle prime grandi cooperative di tutto il Mezzogiorno sotto il nome di “Consorzio Agrario del Capo di Leuca”, poi Acait di Tricase), è sulle donne impiegate nella lavorazione del tabacco e sulla specifica congiuntura degli anni trenta, in pieno fascismo quindi, che si concentra l’attenzione di chi legge per molti motivi, alcuni intuibili ed altri sui quali merita soffermarsi. Non che mancassero in merito, quantunque raccolte ed esaminate anch’esse piuttosto tardi, fra il 1981 e il 1996, documentazioni d’archivio illuminanti e rievocazioni a dir poco minuziose (penso agli studi di Salvatore Coppola, Gennaro Ingletti, Giulio Alaimo e Rodolfo Fracasso), tuttavia l’episodio portante e rivelatore di tutta intera una vicenda nata come “epopea” del tabacco a fine ottocento e conclusasi più o meno alle soglie dei nostri giorni, diventa appunto “La Rivolta di Tricase” come ebbe a definirla, sullo “Stato Operaio”, Giuseppe Di Vittorio. Che il 15 maggio dell’anno XIII dell’era fascista in seguito alla pubblicazione del decreto governativo di scioglimento dei Consorzi Agrari, fra cui quello cooperativo di “Capo di Leuca”, una grande folla composta soprattutto di tabacchine si radunasse sotto il Municipio di Tricase e prendesse a “tumultuare” o che la protesta popolare dopo il ferimento di una donna da parte dei Carabinieri finisse per “degenerare”, come avrebbero detto le fonti prefettizie, provocando cinque vittime e oltre sessanta feriti tra i manifestanti nonché settantaquattro arresti, costituisce, tutto sommato, un evento di ordinaria repressione in tempi di piena dittatura. Anche il silenzio calato all’epoca sui fatti di cui il sistema dell’informazione vigente oscurò la cronaca e di cui non giunsero se non scarse e frammentarie notizie all’esterno specie nel corso del processo celebratosi ai danni dei “rivoltosi” (quasi tutti in verità assolti) un anno scarso più tardi, non procura eccessiva sorpresa. Meno scontate, invece, le dimensioni e la ratio profonda del gesto azzardato da una folla che a un’analisi superficiale potrebbe apparire simile a quelle d’ancien régime in periodica o endemica fibrillazione e che invece, cogliendo esatto il senso di un processo storico e reagendo nel contempo ad un provvedimento mirato e concreto, si muoveva fuori forse dai binari della contestazione politica strutturata, ma ben dentro a realtà condizionate e orientate dagli interessi dei detentori del potere politico ed economico di turno. Oltre a inserirsi, senz’altro in ritardo ma in forma vistosa data la sanguinosità del bilancio finale, in un ciclo poi dimenticato di proteste e di sollevazioni spontanee che attraversa, a far data dal 1929, i primi anni della decade 1930 non solo nel Salento studiato da Giulio Alaimo, la rivolta di Tricase getta luce sui suoi meccanismi, sul modo in cui ne furono manipolati o gestiti motivi ed effetti (semplici proteste “economiche” a detta delle autorità fasciste) e un poco anche sulla vera natura del “consenso” al regime che di lì a poco seguì in tutta Italia, complici le mobilitazioni per la guerra d’Abissinia o per la crociata anticomunista in Spagna.
La tecnica dell’oscuramento mediatico (che stiamo imparando oggi a ri-conoscere e sia pure in un contesto molto modificato) mise da subito la sordina a una interpretazione panoramica del dissenso che sarebbe già allora stata possibile, ma che, se realizzata, si sarebbe dimostrata, per il fascismo e per le classi di potere che lo sostenevano, devastante: gli unici ad averne contezza dovevano rimanere Bocchini, i vertici della Polizia e naturalmente il Duce sul cui tavolo, in effetti, si accumularono, fra il 1929 e il 1935 (ma qua e là anche oltre) resoconti e rapporti dettagliati di una effervescenza intrecciata con spunti di rivendicazione classista e, a tratti, antifascista di cui si percepisce la presenza pure a Tricase. Rispetto però al poco che onsentono di comprendere le fonti ufficiali e tradizionali (carte di polizia, prefettizie, processuali ecc.) delle motivazioni stratificate d’una tanto simbolica protesta, la viva voce dei “superstiti”, dei protagonisti e dei loro discendenti diretti, con tutti i limiti della memoria “popolare” esposta anch’essa agli alti e bassi dell’attendibilità descrittiva, permette, a quasi settant’anni di distanza dagli avvenimenti, di addentrarsi in un universo di interpretazioni soggettive altamente produttrici di senso. Nel senso, voglio dire, che scavalcando anche le non illegittime “appropriazioni” antifasciste di prima e di poi, e recuperando alcune dimensioni sommerse del ricordo collettivo (comprese quelle destinate a riecheggiare, e sia pure senza riferimenti diretti alla “rivolta” che tanti ne smorzò, nei canti di lavoro a cui è dedicata una piccola appendice finale), essa parla in prima persona di una lotta fatta per difendere il posto di lavoro allontanando “lo spettro della fame” e anche del modo in cui, volendo, si potrebbero rintracciare molte ragioni della journée del 15 maggio 1935 in seno alle lotte intestine del mondo politico locale coevo. Ma tra le pieghe dei racconti, ammoniscono Santoro e Torsello, traspare pure qualche crepa vistosa che incoraggia a derubricare la rivolta di Tricase escludendola dal novero delle moderne jacqueries salentine e ricollocandola invece, là dove deve stare, tra le forme delle opposizioni latenti, ancorché non appieno politicizzate, a un sistema di potere che tutte le soffoca e ne impedisce in tutti i modi l’espressione. Se quindi è vero, da un lato, che le testimonianze raccolte al magnetofono possono spesso coincidere, almeno in parte, con la versione “ufficiale” dei fatti , da un altro “registrano anche la dimensione dell’immaginario e della memoria: gli stati d’animo, le aspettative e i bisogni reali di coloro che quel giorno scesero in piazza per difendere il proprio diritto al lavoro e alla vita.” Parole degli autori che non si stenta a sottoscrivere con i chiari di luna che passa il convento delle nostre televisioni ogniqualvolta salti in mente a qualcuno di combinare qualcosa di simile o di avere anche solo l’ardire di pensarlo. Signora mia, scendere in piazza! Che presunzione, che scandalo! Cosa si saranno mai messi in testa quelli che non hanno poi voce in capitolo? Nel gioco di retrospettiva e di prospettiva, forse, di avere una voce propria e una propria memoria che sarebbe delittuoso, da parte degli storici, trascurare o annullare ancora una volta.12