«La mia orchestra non va in trance»

Il ritmo, le voci, i volti, l’organetto, la memoria, la piazza di Melpignano, la contaminazione… Parla Ambrogio Sparagna, «maestro concertatore» dell’ultima edizione

Una conversazione con Ambrogio Sparagna, appassionato e carico dopo la Notte della Taranta di quest’estate a Melpignano, sull’esperienza di quest’anno e sul suo futuro.

Quest’anno segna una svolta rispetto all’ideologia della cosiddetta contaminazione – cioè, all’idea che per essere contemporanea la musica popolare deve cercare legittimazione in altri linguaggi musicali. Tu invece hai cercato di mostrare che la musica popolare può innovarsi partendo da se stessa.

Ho imparato soprattutto da Diego Carpitella che la musica popolare è un sistema culturale autonomo, un pensiero compiuto, che esprime forme, modi e repertori legati alle sue funzioni sociali. In Salento, mi sono trovato a disporre di una ricchezza documentaria senza uguali. Abbiamo lavorato sulle fonti, nelle raccolte di Alan Lomax, Diego Carpitella, di Ernesto De Martino, Gigi Chiriatti, Brizio Montinaro, Giovanna Marini; e ho cercato di creare un rapporto fra l’oggi e la memoria culturale, dare forme a una memoria attiva che non stia chiusa negli archivi, senza tradire il mio impegno politico e la mia storia personale – la musica popolare l’ho studiata all’università ma l’ho imparata da musicisti tradizionali che erano mio padre e mio nonno.

Lo strumento che hai scelto è un’orchestra di strumenti popolari. È la continuazione del lavoro che hai cominciato con la scuola di musica del Circolo Gianni Bosio nel 1976 e l’orchestra di organetti, la Bosio Big Band.

Fin da allora volevo rivendicare la piena dignità degli strumenti popolari. In un certo senso, un’orchestra di musica popolare è una contraddizione, perciò bisogna essere rigorosi nella scelta dell’organico e dei repertori e nel rispetto delle regole. Se imposti l’orchestra sugli organetti, l’organetto a otto bassi non ti consente più di due tonalità, e devi lavorare in questi confini: nella mia orchestra non ci sono tastiere. Lo stesso per i repertori: un po’ superficialmente, la musica popolare del Salento è stata identificata solo con la pizzica, ma c’è molto di più – anche perché, con tutta la sua specificità, poi il Salento sta dentro tutta l’area dell’Italia centromeridionale, e trovi canzoni narrative, per esempio, che stanno in tutta Italia, come Cecilia o Fior di Tomba. Per me, la musica popolare sono soprattutto i canti, e ne abbiamo messi più di quaranta: canzoni narrative, canti di lavoro, canti dei carrettieri, una decina di canzoni in grico… Nelle edizioni precedenti, si eseguiva un numero limitato di brani e si dava molto spazio alle improvvisazioni, agli interventi liberi dei solisti strumentali; per me, la cosa più importante erano le parole. Ho scelto le voci non tanto per la tecnica, che si può insegnare, quanto pensando che ogni canto ha bisogno di una faccia, di una presenza specifica. Pensavo alla serata come una grande opera epica popolare, ogni canto una scena, e al centro le voci, in primo piano sul palco, coi i tamburelli all’apice della scenografia: la voce e il ritmo, la sostanza di questa musica.

Parli di orchestra come contraddizione. Infatti la poetica della cultura popolare è una poetica della sottrazione, figlia di un’esperienza della scarsità: fare il più possibile con sempre meno mezzi. Invece l’idea dell’orchestra appartiene a un tempo di abbondanza, se non di consumo, con una poetica dell’aggiungere, dell’arricchire.

Avevo due problemi. Il primo era un problema artistico: non ho dormito per notti intere perché comunque venire dopo Copeland, dopo uno che ha fatto la storia della musica pop, era una cosa da farti tremare; non mi sono sentito tranquillo finché non ho sviluppato un progetto il più lontano possibile dal suo. Il secondo – che è la prima cosa che mi ha detto Sergio Blasi, il sindaco di Melpignano – è un problema di ordine pubblico: qui tu hai quarantamila persone; se li fai annoiare, se li fai distrarre dalla musica, è il terremoto, può succedere di tutto. Perciò il progetto artistico deve anche tenere insieme la gente, che è molto eterogenea per generazioni, per estrazione sociale, per formazione culturale, farla stare attaccata alla musica cercando di arrivargli al cuore. La gente deve sentire che questo non è un rave, non sono i Rolling Stones; ma non puoi ignorare il parametro del gusto di questo pubblico. E infatti è andata benissimo, settantamila persone e non è successo niente.

In un certo senso, in\trattenere… Mi è parso che il pieno orchestrale, le due batterie, certi suoni degli ottavini, addolcissero la durezza radicale della musica popolare. Anche l’idea dell’opera popolare, le canzoni narrative teatralizzate, non mi hanno convinto sempre. Nella ballata popolare il teatro è implicito nella voce narrante, che viene meno quando fai parlare i personaggi.

È chiaro, in quel contesto di massa, se avessi fatto cantare Cecilia come è nella tradizione, sei strofe a voce sola, la ammazzavo.

A me non piaceva il coretto.

Giudizio legittimo. Ma ti spiego. Prendi San Franciscu, che è una canzone di malavita, la cantava Uccio Bandello. Se lì, con l’orchestra, la facevamo come la cantava Uccio, diventava davvero Casadei. Perciò l’ho portata da maggiore in minore, ho messo in evidenza il ritmo, e ha funzionato.

L’effetto di dolorosità che associamo al minore è comunque implicito già nella vocalità non accompagnata di Uccio Bandello, anche in maggiore.

Ma io non avevo Uccio Bandello, e comunque non puoi prendere un cantore di settant’anni e sbatterlo sul palco da solo davanti a decine di migliaia di persone. Se va bene è paternalismo, se no è un disastro. Abbiamo fatto cantare una bambina di tredici anni, e lei canta con le stesse regole della nonna, anzi della bisnonna. Solo che attraverso lei queste regole antiche diventano contemporanee. Perché sono cambiati i corpi, rispetto al mondo contadino, e quindi cambiano le voci. Sono cambiate le funzioni, non ha senso ricalcare gli anziani – che comunque per fortuna ci sono ancora. Sulle batterie: non c’è un accordo di settima o di dominante in quattro ore di musica, non c’è una tastiera, comandano gli organetti, le voci e il ritmo. Perciò, per creare la varietà senza la quale non reggi quattro ore di musica, devi lavorare sulla molteplicità delle voci e sulla varietà dei ritmi. Le batterie servivano a creare figure poliritmiche complesse, dialogando coi tamburelli. Ho lavorato mesi affinché i tamburellisti imparassero a suonare in poliritmia e a dialogare con gli altri strumenti.

Prima hai detto: non è un rave. E non è neanche la riedizione della terapia musicale del tarantismo. Ma i media e molti operatori culturali continuano a parlare di trance…

Sono tutte puttanate, e mi sorprende che anche in ambito universitario siano state a volte avallate. Il tarantismo ha segnato le persone; avevano la lettera scarlatta addosso. Fa stare male. La pizzica e il suo contesto sono una tecnica di cordoglio, e il movimento di cui fa parte la Notte della Taranta è forse una tecnica di cordoglio moderna che elabora una necessità di riscatto politico e culturale. Tutto quello che si è creato in Salento è un movimento musicale, artistico, letterario molto più ampio; penso al laboratorio che ha fatto Lindo Ferretti sulle parole, coi poeti a Melpignano. E l’orchestra è proprio il contrario della mistica della trance: nella crisi della presenza perdi i contatti, mentre l’orchestra ti impone l’ordine di un’esperienza condivisa, regole comuni.

So che pensate di dare continuità a questa esperienza.

Sì, Sergio Blasi pensa che dobbiamo creare qualcosa di stabile, una fondazione, in cui ci sia l’orchestra ma che serva a tramandare la storia musicale del territorio attraverso produzioni musicali, ricerca, attività scientifica, e promozione del territorio stesso. Un’orchestra stabile di musica popolare è una provocazione politica: si tratta di proclamare che la musica popolare è un bene culturale che ha la stessa dignità della musica classica o della lirica. Come lo stato sostiene attraverso fondazioni e istituzioni queste espressioni culturali, così è ora di dare piena legittimazione alla cultura popolare, riconoscere che chi picchia il tamburello o gonfia la zampogna non è meno artista di chi suona il flauto.

Non c’è rischio che diventi terreno di giochi burocratici e di potere, e accentri una parte eccessiva delle risorse di politica culturale?

Dipende dall’intelligenza di chi ci lavora e dal controllo del territorio. Una struttura pubblica deve raccogliere la pluralità delle voci – lascerà spazio perché farà cose diverse dai gruppi che già esistono, e al tempo stesso creerà legittimazione per tutti. È un punto di arrivo per qualcosa che non comincia con la Notte della Taranta, ma comincia con Bella Ciao nel 1964, il Nuovo Canzoniere Italiano, il Circolo Gianni Bosio e la scuola di musica che abbiamo creato nel 1976, e tante altre cose. C’è stato un tempo, in tutti gli anni `80 ma anche prima, in cui noi che facevamo musica popolare siamo stati lasciati soli – l’università si è chiusa in se stessa, alle feste dell’Unità non ci volevano perché dicevano che eravamo vecchi…

Molti, pensa a Giovanna Marini, hanno dovuto andare all’estero. Abbiamo continuato, abbiamo risalito la china; ogni cosa ce la siamo sudata. Adesso io il riconoscimento lo voglio. Io esisto anche come artista grazie a mio nonno musicista migrante e a mio padre organista a Maranola; ma sono anche uno studioso e un uomo di spettacolo, e anche dalle istituzioni voglio rispetto.

tratto da il manifesto
di Alessandro Portelli
pubblicato il 02/10/2004

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