Ancora nella “terra del rimorso” per smascherare la retorica sul sud

A quarant’anni dalla scomparsa di Ernesto De Martino esce in Inghilterra la sua classica ricerca sul tarantismo

Se provate a digitare il titolo La terra del ri­ morso su Google, vi sj affacceranno migliaia di siti e contatti. Nei primi anni Ottanta, da studente all’Orientale di Napoli, cercavo di­speratamente sulle bancarelle a Port’Alba una copia del volume demartiniano, allora fuori commercio. La ricerca che Ernesto de Martino condusse in Salento, nel 1959. sulle donne «pizzicate» dalla tarantola, oggi non è solo un saggio accademico buono per gli stu­ denti di antropologia, ma è diventato un vero bestseller, un libro cult, disponibile finanche nell’edicola della Circumvesuviana, e al cen­tro di un vero e proprio fenomeno politico e culturale nell’area da cui il suo racconto s i era generato: la penisola salentina.

E proprio in seguito a questo successo italia­no che giunge ora, a quarantaquattro anni dalla pubblicazione (1961), la prima traduzione inglese, e subito la notizia si è riverberata nel dibattito salentino: “Aspettiamoci probabil­ mente più intellettuali inglesi e americani inte­ressati a comprare masserie e case rurali nel Salento”, scrivono in una mailing list dedicata al tarantismo.

Vero è che questo libro è seducente, ma cer­to non per tutti e soprattutto non allo stesso modo. Il Salento che vi è descritto appare lon­tanissimo dallo stereotipo di un Sud di bian­che masserie rurali affascinanti e false come il Mulino Bianco. Piuttosto, colpisce per altre ra­gioni. Per esempio, anche in inglese il titolo suona accattivante: The Land of Remorse … ri­evoca un po’ The Waste Land, la «terra desola­ta» di Thomas Stearns Eliot, un classico del travaglio critico del modernismo europeo. E forse il paragone non è azzardato il poeta in­glese fu sedotto dall’antropologia del Ramo d’oro di Sir James Frazer, mentre l’avvio del saggio demartiniano evocava il fascino lettera­rio del viaggio verso mondi lontani nei Tristi Tropici di Claude Levi-Strauss, così come gli studi che de Martino aveva .dedicato alla Luca­nia fra gli anni Qua­ranta e Cinquanta riprendevano uno stile à la Carlo Levi di Cristo si è ferma­ to a Eboli. Libri che non cercavano cer­to una facile fuga nell’esotico, ma che metteva­no a nudo le afflizioni di un Occidente appa­rentemente vincente e sicuro di sé, in realtà segnato da profonde contraddizioni: le ferite della guerra, la sofferenza sociale, la povertà materiale. l’emigrazione le tentazioni autori­tarie e antipopolari dei governi democratici postfascisti: un’Italia, un Occidente, costante­mente presi, quasi sedotti, dal rischio di rica­dere nel «cono d’ombra del cattivo passato».

Forse come antropologo dovrei dire che La terra del rimorso è soprattutto uno studio stori­co e antropologico del tarantismo, ovvero di quell’afflizione che si ritiene causata dal mor­so della tarantola e curata con la musica, la danza, e il ricorso a san Paolo di Galatina; una cura la cui efficacia fu un vero rompicapo, per almeno cinque secoli, per medici, viaggiatori, intellettuali d’ogni sorta e di ogni paese d’Eu­ropa. E tuttavia una simile lettura a me pare riduttiva. Questo libro resta, come scriveva Ar­naldo Momigliano. «bello per forma e conte­nuto». Ma è anche un’opera aperta, densa di piste inesplorate e presa nell’intreccio fra ri­cerca scientifica e impegno politico. Uno stu­dio poderoso. che travalica lo specifico della monografia storico-antropologica e si offre co­me opera etnografica, politica e letteraria, fon­data su un meridionalismo nuovo, che non ce­de né al fascino dell’esotismo, nè agli approcci «modernizzatori» delle inchieste socioecono­miche sull’arretratezza» del Sud. Il meridio­nalismo è qui un metodo, una pratica: il tenta­tivo di collocarsi nel punto più vicino all’espe­rienza delle persone in carne e ossa che vivo­no sulla propria pelle la «condizione» meridio­nale. In primo luogo le donne. De Martino leg­geva la sofferenza femminile espressa nel ta­rantismo come un’esperienza di duplice disu­guaglianza: di classe e di genere. A ben vede­re, però, i materiali della ricerca mostravano anche come l’idioma della malattia e il simbo­lo del morso fossero ritualmente manipolati dalle «tarantate» proprio per incrinare la subalternità: il rito domestico e quello in chiesa si svolgevano sempre in un contesto ambiguo, perché era al tempo stesso un momento dram­matico ma anche un cerimoniale festivo (la fe­sta di san Paolo a Galatina). una rappresenta­zione pubblica del dolore ma anche uno spet­tacolo coreutico-musicale (la danza al suono dell’orchestrina terapeutica).

De Martino esaminava tutto questo in una prospettiva antropologica e storica, ma met­tendo a nudo la passione dell’etnografo, con una riflessione di stampo gramsciano su se stesso, sul suo essere cittadino di uno Stato, quello italiano, uscito dalla Resistenza con una costituzione magnifica ma sostanzialmen­te inapplicata. Per de Martino il Mezzogiorno è “l’India di qui”, come lo era per i gesuiti nel Cinquecento, ma non c’è orientalismo, esoti­smo, in questa visione, e sbaglia chi ve lo ri­scontri. Vi è piuttosto una critica dell’occiden­talismo, dolorosa perché l’Occidente europeo è la patria elettiva di de Martino: è dall’inter­no di un’appartenenza italiana ed europea che egli mette in atto il suo progetto di un’an­tropologia del Mezzogiorno, una Storia reli­giosa del Sud, come recitai! sottotitolo di que­sta sua opera.

Consapevole di incarnare le profonde con­traddizioni di un’epoca di estenuante transi­zione, de Martino vive una passione insieme scientifica e politica: crociano negli anni Tren­ta, socialista nei Quaranta e comunista nei Cinquanta, nel passaggio da Benedetto Croce al marxismo, nel rapporto con le correnti criti­che del pensiero filosofico europeo, egli è sem­pre un intellettuale italiano: l’Italia è il suo la­boratorio, nel pieno senso del termine: uno spazio collettivo in cui si lavora, si pensa, si sperimenta. si agisce insieme. Soprattutto un luogo in cui nuovi mondi possibili si immaginano e perseguono nella pratica quotidiana. E per questo che egli può misurarsi direttamen­te con Gramsci, in un dialogo alla pari. Con la pubblicazione nel dopoguerra delle Lettere dal carcere (1947) e poi dei Quaderni gramscia­ni (1948-1951), l’opera di de Martino, e quin­di l’intera antropologia italiana, subiscono un impulso enorme: ricerca scientifica e azione ci­vile tendono a coincidere e anche se questo le­game diventerà talora ideologico, contradditorio — e nello stesso de Martino non sempre sarà esplicitato e oggettivato — tuttavia resta ben visibile. De Martino individua nel metodo della ricerca sul campo, condotta in equipe nel Mezzogiorno, una forma di cittadinanza attiva. E’ qui che colgo il senso politico attuale della Terra del rimorso, e anche nei collega­menti che egli propone fra il tarantismo pu­gliese ed esperienze rituali osservate in altri mondi (l’America meridionale o l’Africa set­tentrionale), non vedo più l’esercizio metodo­logico-scientifico del comparativismo, ma piuttosto la consapevolezza di una dimensio­ne globale delle forze storiche, non senza un’eco internazionalista. Perchè la terra del rimorso non è solo il Salento, la Puglia , o il mezzogiorno, ma è “il nostro stesso pianeta, o al meno quella parte di esso che è entrata nel cono d’ombra del cattivo passato”.

E per questa sua attuale vitalità che l’opera di de Martino continua a far discutere, sia nel campo scientifico nazionale sia in quel1o delle politiche della cultura, della memoria e del pa­trimonio nel Salento contemporaneo. La me­moria demartiniana di quel Salento 1959 agi­sce oggi nelle politiche locali, entra diretta­mente nel mercato di una produzione cultura­le che parte dalla Puglia, dal Salento, fino a connetersi a spazi nazionali e globali, aprendo nuove problematiche, ma anche nuove possibilità di riflessione politica, culturale, civile in una fase in cui le regioni del Mezzogiorno hanno tutte le carte in regola per dare una le­zione di democrazia all’intero «Bel Paese», per riaprire una riflessione seria sulle forme della politica, della rappresentanza, sull’idea stessa della partecipazione democratica

Ma attenzione, che ciò sia possibile dipen­de da precise scelte istituzionali e dalla capaci­tà dei cittadini di esercitare la loro cittadinan­za: La terra del rimorso non si fa «patrimonia­lizzare» facilmente, perché non è portatrice di una visione accademica, pacificata nelle retori­che dell’origine e dell’identità, né si piega do­cilmente al discorso neotradizionalista, pro­gressivo o reazionario che sia. Essa continua a battersi contro gli stereotipi del meridionali­smo identitario, quello fatto di sangue, terra e rispetto della Tradizione, continua a smaschera­re le rivendicazioni improbabili di una «identi­tà meridionale» essenzializzata, che è solo un capovolgimento dei vecchi luoghi comuni sui «lazzaroni» del Sud. La terra del rimorso sta con i liceali di Locri, con i migranti di San Fo­ca, non si fa riassorbire nel tradizionalismo au­toconsolatorio, cui molti luoghi deboli del no­stro pianeta cedono credendo di rafforzarsi so­lo perché la «differenza culturale» è merce ben pagata. La terra del rimorso continuerà a mordere, a pungolarci, solo se sapremo co­gliervi un monito riflessivo: l’esigenza, neces­saria e anzi urgente, di una nuova stagione di pensiero e azione critica che colga il carattere ingannevole dell’illusione nostalgica, sapendo trasformare la vigile memoria del passato in prospettiva dell’avvenire.

*Antropologo, università di Perugia

gpizza@unipg.it

tratto da Corriere del Mezzogiorno
di G. Pizza
pubblicato il 02/12/2005

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