Conobbi Antonio Torre nel 1970, alla festa della Madonna dei Bagni, ed ebbi subito la certezza che egli fosse il più grande suonatore di tamburo che avessi avuto la fortuna di incontrare. Egli era inseparabilmente seguito da due straordinari cantatori: Vincenzo Pepe e Giovanni Del Sorbo. Era facile incontrare i tre eccezionali virtuosi in diverse festività collegate alla Vergine Maria, nelle quali essi suonavano e cantavano per ore intere, e Antonio si portava dietro degli asciugamani coi quali, senza che egli smettesse di suonare, gli tergevano l’abbondante sudore che gli colava dalla fronte e dal viso. Una volta gli chiesi: «Antonio, vi stancate molto a suonare di seguito?». Ed egli mi rispose: «Non lo so. Io suono per devozione. Il sudore è dedicato alla Madonna». Ad Antonio Torre, dunque, alla sua memoria, dedico questo mio scritto natalizio, atto a illustrare l’identità culturale di uno dei più eccezionali virtuosi di tamburo che abbia mai avuto la Campania. La peculiarità fondamentale della musica popolare risiede nel carattere orale della tradizione, e in quello estemporaneo delle esecuzioni, che ne connotano lo stile, ne ribadiscono la irripetibilità, l’irreversibilità, l’unicità relativa ad un momento, ad un contesto, a un tempo che assume i tratti della caducità, del provvisorio, del metastorico, destinati a dissolversi inesorabilmente nel continuo divenire esistenziale. In tal senso, è imprescindibile dalla tradizione orale l’improvvisazione, regolata secondo una prassi esecutiva o ri-esecutiva dei repertori tradizionali, nella quale si riscontrano diversi livelli di variabilità e di elaborazione.
Vale a dire che, nella tradizione della Campania, taluni canti (laudi, canti narrativi, ninne nanne, ecc.) possiedono forme più rigide e quindi meno aperte all’elaborazione, e altri (canti sul tamburo, fronne, cilentane, canti «a ffigliola») un àmbito formale più aperto e flessibile, in cui la possibilità di variazione, di componibilità, di espansione formale, si spingono ai più ampi margini. Va anche ribadito che, nei limiti imposti dalle convenzioni, ogni componente di una performance esecutiva è indotto a improvvisare secondo il ruolo e il peso che egli occupa nel contesto sociale dell’esecuzione. Orbene, parlando in assoluto, l’improvvisazione consiste nella variazione ed elaborazione di materiali, di strutture e forme musicali esemplari, presupposte o precomposte, e ben radicate nell’immaginario degli esecutori, i quali vi attingono estemporaneamente con una competenza acquisita durante una lunga pratica di anni e anni di esercizio e di disciplina. I materiali tradizionali comprendono un ampio repertorio di versi, di strambotti, di distici, di espressioni, di frasi, di formule, di strutture melodiche (più che di vere e proprie melodie), di strutture ritmiche, di stile, di cellule germinali, di specifici passaggi, di un bagaglio vissuto di esperienze, relative alle possibilità combinatorie dei materiali stessi. È chiaro che i materiali compositivi di per sé sono anonimi, espressivi in astratto, o inespressivi, come possono esserlo i termini di un vocabolario, le declinazioni all’interno di una grammatica, la coniugazione di un verbo o la costruzione tecnica di una frase, di un periodo; e che solamente l’utilizzo da parte di un esecutore può riscattarli dalla loro virtualità e caricarli di significato e di relatività a un preciso contesto personale, culturale e sociale. Peraltro, l’improvvisazione non si riferisce esclusivamente a una serie di combinazioni testuali, ritmiche o melodiche, emotivamente interiorizzate, eppure realizzate in maniera casuale, ma deve costituirsi in modo appropriato, assumere un significato, conferendo all’esecuzione un fluido linguaggio di riferimenti paradigmatici chiari ed inequivocabili. In tal senso, lo strumentista, il cantante, perdono il carattere di esecutori, di interpreti, per rivestire il ruolo di compositori e autori (anche se tale ruolo è relativo al solo momento in cui un’esecuzione avviene, per non ripetersi mai più nello stesso modo). A tal punto va evidenziato che l’arte d’improvvisare è il frutto di una socializzazione della musica, espressa in momenti rituali, calendarizzati e iniziatici, cui la tradizione affida il ruolo, il compito della trasmissione, dell’insegnamento, della ripetizione dei materiali mediante contestualizzazioni già avvenute o ricontestualizzazioni possibili, con ri-composizioni e significati sempre diversi e ridefiniti. In tal modo, l’individuo, il novizio, può avvalersi di un vasto bagaglio di conoscenze, di nozioni, di tecniche, di testi ricorrenti, di espressioni e di varianti apportabili alle stesse, che lo abilitano all’improvvisazione, all’impiego dei materiali in modo appropriato e consono al contesto in cui essi si esprimono. In definitiva, nella festa tradizionale, come momento della massima socializzazione musicale, si riassumono il carattere celebrativo e quello iniziatico, didattico, in cui il ruolo dei maestri, dei leaders, consente, mediante la loro esemplarità e autorevolezza, il perpetuarsi della tradizione. E va detto che si impara a improvvisare come si impara a nuotare, immergendosi nel mare della tradizione, in tutti i sensi, senza annegare, ma diventando, l’esecutore, egli stesso corpo vivo, guizzante nella vita dell’elemento marino da cui si è nati e si ri-nasce, proprio nell’estrinsecare l’esprimere, il cantare, il somatizzare la pulsione, il verbo, il linguaggio, l’esistere, nel flusso, nel pneuma della tradizione stessa, che in molti casi sembra essere vissuta come una sorta di possessione religiosa, di ispirazione divina. Per tali motivi un esecutore, dopo avere acquisito il linguaggio di base, trascorre lungo tempo a inserirsi in quel contesto dove agli anziani è riconosciuto il sapere sacerdotale del linguaggio: una sapienza che si esplica nell’assumere i materiali all’interno di una personale codificazione e significanza degli stessi, che quindi si illuminano di germinazione in un vasto orizzonte di possibilità compositive. D’altronde, sempre nel medesimo contesto, si apprendono le convenzioni dell’agire musicalmente in gruppo, consistenti nel limitare i propri interventi senza inserirsi a casaccio, nel sapere disciplinare il proprio ruolo all’interno di interazioni guidate da un personaggio autorevole, da un leader riconosciuto tale. Solo dopo lungo apprendistato, un individuo ben dotato e ben formato sarà in grado di adoperare il corpus tradizionale, non come catalogo di frasi fatte prive di riferimenti, ma con quella creatività immaginativa, con quella padronanza apparentemente spontanea, e pure vincolata da regole e pratiche consolidate che consentono di conferire significato a materiali che altrimenti risulterebbero elementi fossilizzati, inerti, imbalsamati, privi di sangue rigenerativo e di anima. Inoltre, più che un testo o una melodia o un ritmo in se stessi, sia pure improvvisati o rielaborati, è importante in primo luogo lo stile esecutivo che ne connota con un stigma personale l’appartenenza al singolo e nel contempo alla collettività, e quindi alla tradizione nell’accezione identificativa più ampia del termine; in secondo luogo deve emergere l’elemento significante attribuito dall’esecutore al materiale assunto, all’interno di un’interazione totale, sia pure occasionale. Riguardo a ciò che intendo per stigma, mi riferisco a particolari espressioni che connotano, mediante un marchio personale, un timbro vocale, una frase, una formula inedita, un modo di cadenzare, l’identità dell’esecutore. Ad esempio, una cantatrice di Pagani, Virginia Aiello, a conclusione di frasi melodiche faceva seguire una risata scandita ritmicamente; Antonio Torre faceva oscillare i sonagli del tamburo con una pulsione ritmica ottenuta col percuotere lo strumento innalzandolo gradualmente fin sul capo e poi calandolo giù fino all’altezza dei ginocchi; Giovanni Coffarelli «firmava» le sue esecuzioni mediante un tipo di emissione vocale, di glissati melodici, di suoni ingolati, e mediante un timbro assolutamente inconfondibile; altri esecutori si distinguono per un agire musicale del corpo, che Diego Carpitella denominava la somatizzazione del suono, e che altri, nell’àmbito jazzistico, appellano sound body. Bisogna anche considerare, in special modo nei canti sul tamburo, il fenomeno dell’intertestualità, il quale si riferisce all’inserimento di un testo in un altro testo. In ogni caso, c’è sempre da scoprire un nesso tra i due testi, nel senso che essi, comunque, vanno a fondersi in un’unica composizione nuova, nata da scaturigini di analogie latenti, da associazioni istintive, da opposizioni dialettiche, non sempre palesi nemmeno agli esecutori. Orbene, tutto ciò che ho esposto si riferisce a quando la tradizione era viva come corpo sociale che interagiva coi materiali stessi del linguaggio comune. Oggi, venuti a mancare i leaders, gli ultimi virtuosi che erano attivi negli anni Settanta, senza aver potuto trasmettere il loro sapere a nuove generazioni falciate da lacerazioni del tessuto sociale, la tradizione può considerarsi irreversibilmente estinta. Ciò che resta sono brandelli, larve, lacerti, monconi di espressioni che non hanno più possibilità di ridefinizioni, né il potere interattivo con la società di cui facevano parte, né tanto meno con i modelli precomposti. Per tale motivo, oggi, si assiste, in alcune feste, a canti sul tamburo irrigiditi in esecuzioni stereotipate, standardizzate, a danze effettuate da giovani inconsapevoli degli antichi linguaggi in cui era il corpo umano, il suo agire musicale, il sound body, a far pulsare il tamburo e non viceversa. Del resto, gli attuali suonatori di tamburo non hanno più alcuna cognizione degli stili che differenziavano le tradizioni esecutive da zona a zona. Essi si limitano a portare il tempo, a battere la pelle meccanicamente, senza più produrre quello spostamento degli accenti ritmici, che, trasferendo sui tempi deboli l’enfasi della pulsione in battere, provocavano perfino fraseggi poliritmici, attivati, tra l’altro, con il gioco delle diversità timbriche, ottenute col toccare il tamburo in diversi punti della sua membrana. Ed erano, invece, quegli spostamenti, quelle accentuazioni, quelle sincopazioni, quelle pulsioni in cui il battere e il levare erano indistinguibili, a creare quell’incertezza, quella sospensione, quella vertigine e quella tensione che connotavano la dialettica di pulsazione all’interno di un’esecuzione autentica.
tratto da Il Mattino di Napoli
di Roberto De Simone
pubblicato il 27/12/2005