In questi giorni in cui giustamente si celebra la grandiosa turneé del Canzoniere Grecanico Salentino negli Stati Uniti e in Canada, vorrei ricordare un precedente illustre: il concerto che il gruppo Aramirè – Compagnia di musica salentina tenne alla prestigiosissima Carnegie Hall di New York il 19 gennaio 2007. Ripubblico dunque la cronaca di quella giornata, scritta da Roberto Raheli, leader del gruppo (che purtroppo non è più in attività).
New york, 19 gennaio 2007, Carnegie Hall
di Roberto Raheli
da www.pizzicata.it
Emozione nell’esibirsi in un luogo sacro della musica mondiale. Ben altri che noi hanno fatto musica lì, solo alcuni nomi: Armstrong, Coltrane, i Beatles, Frank Sinatra…
Per noi gioia ma anche stupore. Senso di responsabilità nel rappresentare la propria terra dinanzi ad un pubblico avvezzo a giudicare altri tipi di musica con la schiettezza che contraddistingue gli americani: nessun tipo di mediazione è prevista nel caso di audience delusa; nessuna remora a manifestare invece il pieno apprezzamento se il concerto sarà gradito.
Come sarà la pillola che ingoieremo? Lo zucchero degli applausi o il fiele dei fischi?
Spazziamo via ogni dubbio aprendo il concerto con un canto alla stisa, “Quantu me pari beddha de luntanu”, alla maniera degli Ucci di Cutrofiano: Uccio Aloisi e lo scomparso Uccio Bandello. Vogliamo dire questo a chi ci ascolta: la nostra musica è diversa, che vi piaccia o no. E’ un rischio, molto più facile sarebbe stato aprire con una bella pizzica, coinvolgente da subito, ma Aramirè non è mai stato gruppo che scende a compromessi. Comunque è un rischio calcolato. Siamo bene in grado di eseguire un buon canto alla stisa.
E loro reagiscono dopo un interminabile attimo di vuoto. In quell’attimo ci passa davanti tutto quello che abbiamo fatto per essere lì, anni e anni e anni di studio, di concerti, di ascolto, di prove. Abbiamo sprecato la nostra occasione?
Ma loro, gli americani, reagiscono bene. E l’applauso, dapprima un clap clap isolato parte, si rafforza e diventa robusto.
“Lu rusciu de lu mare”, nella versione di Aramirè, prima la parte lenta, tradizionale, poi il nostro arrangiamento flamenco, con l’assolo di chitarra classica composto da Mauro Toma nell’ormai lontano 1996 (oggi eseguito da Antonio Ancora) sulla base di chitarra ritmica predisposta da Roberto Raheli (suonata oggi dallo stesso Mauro), supportata dalla scansione percussiva che Alessandro Girasoli faticava tanto a far digerire ad un recalcitrante Antonio Castrignanò all’inizio della sua splendida carriera.
Ma Antonio e Alessandro non sono più con noi, al loro posto Samuele Tommasi fa volare la mano sul tamburo con una sequenza di battute che accelerano il ritmo cardiaco, e Roberto Corciulo alla fisarmonica stende magistralmente un tappeto sonoro – melodico ed armonico – che rende naturale ed arioso il canto.
Presento – in inglese – il gruppo, Aramirè Compagnia di musica salentina, dall’Italia, dal Sud Italia, dal Salento, il tacco d’Italia, e quel pubblico ci restituisce il calore che abbiamo cercato di dare ai primi brani con un applauso fragoroso.
Il ghiaccio è rotto. Possiamo suonare.
Roberto Corciulo attacca con il tema scelto dalla Simpatichina per cantare le sue strofe di “Ieri sira”: “Ieri sira scii a casa/ casa alla mia signora/ e io la trovai allu liettu/ ca stia dormendu sola//”. Come un lampo mi passa per la testa quanto sia grande la voce di Niceta Petrachi, la Simpatichina, quanto poco compresa nel Salento, ma non c’è tempo. So che non sarò mai in grado di trasmettere emozioni neppure paragonabili a quelle che ha suscitato in me il canto della Simpatichina, ma tocca a me, apro la bocca e canto. E il canto a due voci, io, Roberto Raheli, e Antonio Ancora, seconda voce, segue quella variazione armonica che con Mauro venne fuori in una serata di tanti anni fa a casa sua. Due voci e una fisarmonica. Se ancora non era chiaro, ci teniamo a ribadire il concetto che la musica salentina è intrisa della semplicità di una civiltà rurale, che aveva solo le voci e qualche strumento per dar vita a perle di poesia. Ma sul finire del canto Mauro, con la chitarra, attacca la ritmica della nostra versione della pizzica di Aradeo, partono i due tamburi, Samuele ed Antonio, ed attacco a cantare le mie strofe di “Fermate”, scritte per la mia compagna, Stefania.
Non si può ballare alla Carnegie Hall, non c’è spazio e gli organizzatori sono stati taglienti nel comunicarci: “nobody on the stage”, non vi azzardate a far salire qualcuno a ballare sul palco. Ma il pubblico non riesce a star fermo e i loro piedi ci accompagnano con uno scalpitio a ritmo di pizzica chiaramente udibile nonostante l’amplificazione. Se viti ca se cotula lu pede quiddhu è lu segnu ca vole ballare…
Ma è solo un assaggio di pizzica quello che intendiamo dare, rallentiamo con il pezzo successivo, vogliamo dire: la pizzica c’è, ma il Salento è anche altro. Racconto di quelle donne di non moltissimi anni fa, raccoglitrici di olive, di tabacco, vendemmiatrici, che lavoravano tutto il giorno e racimolavano solo i soldi per comprarsi le noci a Natale. Quelle donne, “Fimmene fimmene”.
E’ il momento di Maria Vittoria Antonazzo, Mavi, con noi solo da pochi mesi dopo l’uscita di Stefania Morciano. Mavi è emozionata, il suo affiatamento con noi è solo all’inizio, ma canta e raggiunge il cuore nostro e del pubblico. Great voice le diranno dopo.
Mentre gli appalusi si spengono attacchiamo “Scusati signori”.
La cantiamo a botta e risposta, io e, da quando Raffaele Passiante non è più con noi, Samuele. Il ritornello “tocca” a Mavi.
Siamo alla parte centrale del concerto. Ci sentiamo ormai in corsa, il calore del pubblico ci riscalda e spingiamo su questo pezzo, che una donna sconosciuta registrò a Galatone per Alan Lomax, il grande ricercatore americano, il 13 agosto 1954.
E’ piccolo il mondo, il lavoro fatto da un americano nel 1954 (insieme a Diego Carpitella), ha ridato a noi salentini alcuni canti che la nostra memoria orale aveva perduto. E noi oggi li offriamo a loro. Meglio, molto meglio, questo tipo di interazioni fra i popoli, anziché l’esportazione armata della democrazia.
“Scusati signori” fu cantata come canto politico. Emblematiche sono le strofe: “Scusati signori tutti l’omini nu su pari/ c’è li lunghi, c’è li curti, c’è li belli e c’è li brutti// E nui li pori cafuni nnanzi nu piattu de maccarruni// senza carne, senza casu, la pijamu intra lu nasu//”. Salvandone lo spirito abbiamo inserito delle strofe attuali, sull’avvento dell’euro, sulle minacce di secessione del Nord, sui programmi spazzatura in televisione… sulla mercificazione del tarantismo da parte dei salentini del 2000. Chi l’ha detto che la musica salentina non possa parlare dell’oggi?
Continuiamo a spingere con “Quandu camini tie” cantata da Mavi, e poi il mio flauto attacca le strofe della nostra “Pizzica con flauto”. E’ un flauto ribelle, l’ho costruito io stesso dalla canna da pesca di mio zio Nuccio. A volte fa come gli pare, suona, poi si blocca, poi riprende. Ma alla Carnegie Hall dà il meglio di sé. E il pubblico rumoreggia. Alcuni “facinorosi” non riescono a stare fermi e negli angoli cercano di trovare lo spazio minimo per cominciare a ballare. E siamo a New York.
“Cali nifta”, “La canzone de li mestieri”, “La Carmina”…
Faccio un breve discorso per introdurre “O pillo pillo pì”. Questa è una canzone di protesta scrittta negli anni settanta da Cici Cafaro di Calimera, Salvatore Caldarazzo di Sternatia e Giovanni Pellegrino di Zollino. Parla del Vietnam, del Cile, della Palestina. Negli Stati Uniti c’è gente di ogni parte del mondo, in sala, lo saprò dopo, ci sono Cileni Americani, Palestinesi Americani, ed il Vietnam… bè quello è per tutti loro qualcosa che non possono ignorare. Quando dico che, a differenza degli anni settanta, oggi tutti i problemi e tutte le guerre sono finite e quindi abbiamo pensato di sostituire le strofe di allora con strofe d’amore, il pubblico ride alla mia battuta, e ride ed applaude quando dico che invece no, protesta era e protesta è ancora. E contro chi? Il nostro ex Premier Silvio. E lì l’applauso si fa dirompente. Silvio, Silvio, pure in America ti conoscono…
Ma ce n’è per tutti i gusti. “Mazzate pesanti”. La presento come un canto d’amore verso la nostra terra, piena di paesaggi bellissimi, di antiche chiese nei paesini assolati, di cattivi politici e gente senza lavoro. Gli americani sorridono, ridono ed applaudono. La nostra amica Mary Ciuffitelli me l’aveva detto prima del concerto: “di cattivi politici ne sappiamo qualcosa”. Svanisce la mia paura di non riuscire a far almeno intravedere il Salento come luogo dove vive gente vera, immersa nei problemi quotidiani, al di là dello stereotipo del tamburello e della taranta. Ma la taranta viene, con la nostra “Pizzica con violino”, ancora vitale anche se il tarantismo, per fortuna, non c’è più. La sua musica però è ancora bellissima, e noi la eseguiamo come l’abbiamo imparata dall’ultimo violinista delle tarantate, Luigi Stifani “from” Nardò.
E mentre le note del violino, i tamburi, il canto di Samuele si snodano e si dipanano, mi lascio andare ed il violino sembra suonare da solo.
Nella nostra pizzica abbiamo inserito alcune strofe che Stifani non faceva, prese da una pizzica suonata e cantata da Cosimino Surdo. Brizio Montinaro lo definisce una vera biblioteca vivente. Pochi giorni fa però Cosimino si è spento a Calimera, sua città d’adozione, essendo nato a Martano. Penso a lui mentre canto.
Il pubblico ci tributa un lunghissimo applauso alla fine del pezzo. Vorrei che almeno una parte di quegli applausi giungesse a Stifani o a Cosimino. So di non essere bravo quanto loro.
Il concerto volge al termine.
La “Pinna ponna” ispirata alle grida dei venditori ambulanti, gli “Stornelli”, cantati da Samuele alla maniera di Uccio Aloisi.
Salutiamo, è ormai quasi ora. Prima del concerto ci hanno detto che al massimo alle dieci avremmo dovuto chiudere. Un’ora e mezzo quindi per una scaletta che normalmente dura due ore. Se qualcuno ce l’avesse detto prima ci saremmo preparati di conseguenza, ma questi americani maniaci dell’organizzazione hanno trascurato questo piccolo particolare, per noi fra i più importanti.
Per stare nei tempi abbiamo saltato “Aremu rindineddha” con gran dispiacere di Mavi che si era preparata con scrupolo a cantarla.
Forse non si fa in tempo a chiudere con il nostro finale di sempre, “La pizzica degli Ucci” con il finale di armonica che è la cosa che ci appaga di più alla fine di un concerto ben riuscito. Altrimenti ci consola. In questo caso siamo nella prima tipologia, ma si potrà fare? I “boo” del pubblico quando facciamo la mossa di allontanarci dai microfoni ci riportano indietro. Qualche minuto ci sarebbe ancora e così partiamo. Ed il pubblico rumoreggia e acclama.
Il finale è da fuochi d’artificio.
Penso alle persone che con il loro lavoro ci hanno permesso di portare lì quel concerto, a chi con le sue ricerche ci ha permesso di ascoltare i canti rauchi di contadini facendocene apprezzare la bellezza, a chi ha suonato prima di noi, a chi ha suonato con noi.
Fuori troviamo la fila ad attendere il nostro autografo sui CD. Robert Browning, il direttore del World Music Institute, che in collaborazione con Carnegie Hall ha organizzato il concerto ha gli occhi che brillano e sua moglie Helene non smette di lodarci.
Siamo tutti imbarazzati e confusi nel vedere la gente così entusiasta. Dove sta scritto che la nostra musica ha bisogno di arricchirsi di suoni diversi per poter essere apprezzata al di fuori del Salento? Noi arricchiamo i testi e proponiamo nuovi brani, ma queste innovazioni restano in linea con la struttura della musica di tradizione. Spunto di riflessione: gli italiani, dal Sud al Nord, vivono in mezzo alle tracce tangibili di radici antichissime. Monumenti, centri storici, sculture, dipinti, letteratura ci ricordano ogni giorno da dove veniamo e chi c’era prima di noi. Gli americani sono alla ricerca affannosa di radici che non hanno o che hanno dimenticato nel traversare l’oceano. Noi vogliamo innovare la nostra musica di tradizione contaminandola per sentirci moderni. Loro vogliono dagli altri popoli il sapore del susseguirsi delle generazioni, sapore che hanno ormai perduto. Sarebbe necessario che ci sintonizzassimo meglio gli uni sugli altri, alla ricerca di una modernità comune, in accordo col passato che ci siamo tutti lasciati alle spalle.
Il concerto e il dopo concerto sono finiti. Affrontiamo il gelo della settima strada, in direzione di Times Square. Dentro di noi portiamo il calore di un concerto che non dimenticheremo e siamo sicuri che sarà così anche per il “nostro” pubblico.