I morti di Reggio Emilia (7 luglio 1960)
di Fausto Amodei
dal manifesto del 7 luglio 2010Nell’estate del 1960 ero di leva al Centro addestramento reclute di Montorio Veronese. Avevo già 26 anni, dato che avevo rinviato il servizio militare a dopo la laurea (e – fra l’altro – a dopo un successivo soggiorno di studio in Finlandia) ero quindi circondato da persone molto più giovani, oltretutto provenienti in modo prevalente da zone «bianche», cioè Veneto, dal bresciano e dal bergamasco, con le quali era piuttosto difficile discutere di argomenti politici. Comunque allora ero iscritto al Psi, e seguivo le vicende politiche del momento, benché in caserma fosse proibito introdurre l’Unità e l’Avanti. La nascita del governo Tambroni, e l’ingresso del Msi nella maggioranza, fin dall’inizio mi avevano messo sul chi vive. Dopo i fatti di Genova del 30 giugno correva voce in caserma che noi militari di leva potessimo essere impiegati in servizi di ordine pubblico;. La prospettiva mi sconvolgeva, perché apriva la possibilità che si dovesse intervenire, armati, a «sedare la piazza», quella piazza di cui condividevo appieno i sentimenti e gli obiettivi. Quando, il 7 Luglio, avvennero gli eccidi di Reggio Emilia, il mio stato d’animo fu ancora più sconvolto, e mi pesò ancora di più il senso di impotenza, data la mia situazione di soldato di leva, soggetto ad una disciplina che avrebbe potuto obbligarmi a fare esattamente il contrario di quel che avrei voluto, ed a cui mi sarei sentito tenuto dalla mia militanza politica. Comporre una canzone fu una risposta un po’ politica, un po’ psicoterapeutica a questa situazione di stallo e di rabbia.
Immediatamente alle spalle avevo l’esperienza del Cantacronache che, con la parola d’ordine «evadere dall’evasione», intendeva riportare la canzone ad un confronto diretto con la realtà sociale, politica, di cronaca, esistenziale, che si stava vivendo; in dall’inizio si ebbe come punto di riferimento il repertorio del «canto sociale» tradizionale, prodotto dalla lettura dei fatti politici e sociali da parte del mondo contadino e proletario, connotato da una gran concretezza, ed è a questo repertorio, almeno in parte, che ci si intendeva rifare: non tanto come linguaggio e come modello musicale, quanto come volontà di cantare la realtà per cambiarla. Qualcuno di noi pensava al canzoniere francese (Brassens, Ferrè, Boris Vian) chi, viceversa, al cabaret tedesco (Brecht, Weill, Eisler, Tucholsky), chi ancora al folklore progressista americano (Guthrie, Seeger). Fino ad allora le canzoni che avevo composto erano prevalentemente improntate ad un certo «straniamento», che non privilegiava una assoluta consonanza tra il carattere della musica e quello del testo e della vicenda raccontata (un po’ come nel caso dei cantastorie, che adoperano lo stesso modulo musicale per raccontare storie di differente natura ed argomento).
Nel caso de I morti di Reggio Emilia ho voluto invece fare un’eccezione a questa regola, intendendo garantire lo stesso grado di drammaticità e di emozione tanto al testo quanto alla musica. Insistendo però sul voler mantenere l’obiettività del fatto di cronaca. È per questo che, fin dall’inizio, mi sono ripromesso di citare esattamente i nomi dei cinque compagni caduti, perché la canzone si riferisse inequivocabilmente a quei fatti e non genericamente ai diversi eventi di lotta antifascista e di vittime della repressione di cui le cronache non mancavano certo di esempi, in quel periodo e negli anni precedenti.
Dato che la sostanza del messaggio trasmesso dal testo voleva essere la continuità tra i cinque morti di Reggio Emilia ed i caduti della Resistenza (i fratelli Cervi, Duccio Galimberti), ho individuato un analogo percorso nella musica, ragionando sul fatto che la più celebre canzone partigiana Fischia il vento era cantata su una melodia russa. Per cui ho cercato di dare un’impronta più o meno esplicitamente «russa» alla melodia ed all’armonia della strofa e del ritornello. Due battute di 4/4 del ritornello (me ne sono reso conto solo un po’ più tardi) sono prese di peso da uno dei Quadri di un’esposizione di Modesto Mussorgskij.
Naturalmente questa canzone non è nata dall’accurata e preventiva programmazione di tutti gli elementi sopra citati: questi elementi me li sono ritrovati tutti a posteriori, pensando per conto mio a quali impulsi più o meno coscienti mi abbiano portato a comporre questa canzone, che non mi è venuta assolutamente di getto ma che è passata attraverso alcuni brogliacci, stesure e limature, prima di essere eseguita (in occasione di una licenza) agli amici di Cantacronache a Torino.
C’è da dire che la canzone ebbe piuttosto scarsa risonanza, anche negli ambienti di sinistra che frequentavo allora, negli anni immediatamente successivi al ’60, benché sia stata inserita già nei primi anni ’60 in alcuni spettacoli e sia stata incisa in uno dei primi dischi di Cantacronache. Il momento in cui fu assunta come «canto di lotta» esemplare, fu solo con il movimento del ’68, che se ne impossessò tanto da diffonderla come creazione di «autore anonimo». Devo dire che fui piuttosto orgoglioso di essere immeritatamente divenuto «voce del popolo».
La ragione per cui venne «riscoperta» ed adottata a livello di massa solo alcuni anni più tardi rispetto alla sua composizione, e rispetto agli avvenimenti che l’hanno ispirata, secondo me va trovata nella crescita, lenta ma inarrestabile, di una coscienza antifascista nel sentire comune. Tutte le leve dirigenti (magistrati, insegnanti, quadri della pubblica amministrazione) allevate durante il fascismo e salvate dall’amnistia Togliatti, si erano man mano andate sostituendo con un personale che, anziché il codice Rocco, aveva studiato la Costituzione, e che, pur con tutte le eccezioni ed i ritardi del caso, aveva preso coscienza delle infamie del regime fascista (censura, leggi razziali, guerra, nessuna separazione dei poteri). Ed è forse anche da questo processo che ha preso il via il movimento del ’68, che conseguentemente ha avuto forti connotati di antifascismo militante.
Il verso «per quelli che son stanchi o sono ancora incerti» rispecchia (nel ’60, ricordiamolo) la volontà di risvegliare una generazione – e non solo un’élite – all’antifascismo che maturerà a livello più generalizzato solo alcuni anni più tardi. Detto fra parentesi, giudicare «stanchi» ed «incerti», in tema di antifascismo, gli italiani del 1960 è quasi ridicolo a confronto della ben più scarsa reattività alle provocazioni fasciste o simil-fasciste di oggi. Ma tant’è, penso che il periodo d’oro dell’antifascismo post-resistenziale sia stato il ’68.
Non ho mai pensato a questa canzone come ad un «inno» da far eseguire a grandi masse orchestrali e corali. Non è solo per questioni di bilancio che l’ho sempre registrata con una chitarra ed una fisarmonica, al massimo con un ritornello eseguito da tre voci singole. Un’esecuzione, diciamo così, «da camera» permette di capire ed approfondire meglio il testo ed il messaggio ch’esso vorrebbe comunicare. Non ho mai fatto mio il principio che una canzone, per essere «di lotta», deve essere molto violenta, giocando più sulla mozione degli affetti che sulla descrizione dei fatti e sul loro approfondimento. Le invettive, anche violente, secondo me, rendono meglio se scagliate in chiave di satira e di presa per i fondelli. È d’altronde molto difficile una definizione univoca di «canzone politica», quando solo si pensi che il canto più amato e più coinvolgente della Comune di Parigi, è stato di fatto il richiamo ad una stagione primaverile: Le temps des cerises, in cui usignoli e merli canteranno festosi.