Il lavoro di comprensione e la rielaborazione di Ludovico Einaudi di un antico fenomeno rituale. Le affinità con la musica elettronica
di Ludovico Einaudi
dall’inserto culturale del Sole 24Ore, domenica primo agosto 2010
La prima volta che ho sentito parlare del fenomeno del tarantismo risale ai miei vent’anni, ai tempi in cui studiavo al conservatorio e parallelamente coltivavo letture tra le più disparate, saggi in qualche modo correlati alla musica. Tra questi ricordo un bel capitolo del libro di Gilbert Rouget, Musica e Trance, dedicato al fenomeno del tarantismo salentino. L’autore analizza le varie interpretazioni intorno al rito di esorcismo nonché allo stato di possessione che colpiva prevalentemente le donne, in quanto durante la stagione della mietitura, le raccoglitrici di grano erano maggiormente esposte al rischio di essere morsicate dalla tarantola. Una volta morsicate sprofondavano in uno stato di grande malessere, crisi isteriche convulsive e turbe emotive che si rappresentavano ciclicamente ogni anno all’inizio dell’estate. La cura della “tarantata” veniva effettuata da un gruppo di persone attraverso un complesso rito terapeutico a base di musica, danza e uso dei colori, che si svolgeva a casa della vittima e durava non meno di tre giorni. Sulle note ritmiche delle “pizziche”, la “tarantata” si abbandonava ad una danza concitata, che la induceva in uno stato di trance liberandola dal malessere. Le pizziche, per chi non lo sapesse, sono musiche basate su un ritmo molto incalzante, sostenuto principalmente dal tamburello, srumento “re” della zona, con il quale i salentini hanno affinato una tecnica magistrale molto caratteristica. Gli altri strumenti coinvolti nel rito erano soprattutto il violino, l’organetto e la chitarra. Poi naturalmente una variazione illimitata di invocazioni all’esorcismo: «Addo’ ti pizzico’ la tarantella? sotto la putia de la ‘unnella», con anche invocazioni a San Paolo, santo protettore dei “pizzicati”: «O Santu Paulu meu delle tarante che pizzichi le caruse tutte quante (…) e le fai sante…».
Non starò a dilungarmi sull’argomento che si può approfondire leggendo il bellissimo libro di Ernesto De Martino La terra del rimorso, invece vorrei raccontare qualcosa della mia esperienza personale in veste di Maestro concertatore della «Notte della Taranta 2010», concerto conclusivo dell’omonimo festival, che come sempre si terrà a Melpignano (Lecce), quest’anno in data 28 agosto. Partecipare a questo progetto è stata una straordinaria occasione per immergermi negli infiniti meandri della musica salentina. Rileggere e interpretare un repertorio popolare non è cosa semplice, si pongono molte considerazioni. La prima per me è stato sicuramente quella del rispetto del materiale di partenza, del cercare di capire quali siano gli elementi che caratterizzano quel linguaggio, e limitare l’ambito creativo all’interno di quelle regole. Faccio un esempio architettonico: se devo costruire una nuova porta in un edificio dove tutte le altre porte hanno la volta, cercherei di progettare una porta con la volta. Avere dei limiti è sempre molto interessante, si scopre con grande meraviglia che con pochi elementi si possono realizzare architetture incredibili. E proprio l’architettura del Salento è stata per me grande fonte d’ispirazione. Ascoltando le registrazioni effettuate sul campo negli anni ’60, sia nella case private che in campagna, ho percepito un colore che mi riportava all’intensità della terra, della pietra spaccata dal sole, dei muretti a secco che tratteggiano i campi di ulivi, delle splendide masserie, degli antichi palazzi-fortezza che ovunque ornano il paesaggio. Così come nel restauro di un edificio si rimuovono le mura costruite in epoche recenti per ripristinare quelle originali, così ho cercato di ritrovare un suono che che restituisse il più possibile il colore che avevo colto in quegli ascolti. Ho cercato nelle voci quella tonalità aspra e graffiante, voci tese come ragnatele e affilate come coltelli, più vicine al medio oriente che alla tradizione napoletana.
Nella musica salentina ci sono alcuni elementi molto complessi, melodie con modi arcaici e ritmi che spostano il battere col levare. Altri elementi, come l’armonia, sono più lineari, spesso dettati dalla natura stessa degli strumenti, come l’organetto, ma assolutamente efficaci nella loro semplicità.
La mia chiave di lettura è stata quella di cercare di mettere in rapporto questa musica con le forme che si sono sviluppate in anni recenti nell’ambito della musica elettronica, del minimalismo e della trance, sottolineandone le antiche radici comuni. Ho visto nella Notte della Taranta l’essenza dei raduni giovanili moderni, un grande rito con decine di migliaia di persone che si abbandonano al ritmo, al canto e alla danza.
C’è una frase di un musicista marocchino, alla fine del capitolo sul tarantismo del libro di Rouget, che rappresenta molto chiaramente ciò che intendo, «credo nel valore liberatorio della musica, non più per esorcizzare gli spiriti del male, bensì, simbolicamente, gli spiriti del XX secolo».
Ma non solo, questo evento è una grandissima festa popolare, un’occasione unica dove tutte le generazioni si ritrovano unite a celebrare il loro legame di appartenenza con questa antica terra ricchissima di storia e di cultura, e che attraverso la sua rilettura ci aiuta a ritrovare i nostri migliori valori.