dal manifesto del 12 luglio 2013
«Mamma mia, dammi cento lire, che in America voglio andar – cento lire te le do, ma in America no….» È’ una delle canzoni di tradizione orale più diffuse in tutta Italia: la storia della ragazza che parte per l’America incoraggiata dai fratelli («mamma mia lasciala andar») ma portandosi addosso la maledizione della madre («vai pure figlia maledetta”) e muore quando «a metà del mare il bastimento s’inabissò». Come sappiamo, l’Italia è oggi un paese sia di emigranti sia di immigranti. Perciò abbiamo la possibilità di guardare all’esperienza delle migrazioni da tutti e due i punti di vista, di chi resta, di chi parte, di chi arriva.Su questo, le canzoni popolari ci permettono di capire molte cose: il risentimento, la rabbia, il dolore di chi resta e si sente abbandonato, come se emigrare fosse una fuga da una lotta per la sopravvivenza che si continua a combattere restando (ce ne costa di lacrime l’America a noi napoletani…. non ci rimane più che preti e frati, monache di convento e cappuccini e quattro commercianti disperati…. o addirittura: mio marito sta in America e non mi scrive, non so che mancanza gli ho fatto – forse la mancanza è questa, che mi ha lasciato un figlio e ne ritrova sette…)
Ma uno degli effetti dell’immigrazione è che anche queste nostre storie cambiano senso. Tempo fa, la meravigliosa Sara Modigliani cantò «Mamma mia dammi cento lire» alla fine di un incontro in cui un gruppo di immigrati africani avevano raccontato le loro storie di traversie oltre il deserto libico e il mare Mediterraneo. Nel silenzio sorpreso di chi scopriva che avevamo una storia in comune, mi accorgevo che la storia era comune solo se la canzone italiana cambiava di senso alla luce della presenza dei migranti. La cosa importante non era più tanto il conflitto generazionale fra il vecchio resta e il nuovo che parte, ma il resto della storia, la morte per mare, un’esperienza così viva a chi ha attraversato un tempo l’Atlantico («il tragico naufragio della nave Sirio») e oggi il Mediterraneo. La presenza e l’esperienza degli immigrati, insomma, cominciava già a spostare l’accento sulla nostra stessa tradizione, a cambiare il senso delle nostre stesse parole.
Poi, «Mamma mia dammi cento lire» si inoltra in una sequenza di strofe sul disfacimento marino del corpo della ragazza naufraga: «I capelli della Rosina il pesce a mare li mangerà», e continuando con una strofa per ogni parte del corpo, in un’immagine di cambiamento marino dal sapore shakespeariano («ora sono perle quelli che erano i suoi occhi», La Tempesta ). Ma ci ha pensato il cinismo volgare di un’esponente leghista di Monza – se i naufraghi mediterranei hanno cercato di salvarsi aggrappandosi alle reti delle tonnare, è «un motivo in più per non mangiare tonno» – a spostare il senso di quei versi dall’archetipo poetico della morte per mare a una materialità tangibile di corpi, di morte e disfacimento.
Molti anni fa, uno studente libico, integratissimo nella comunità universitaria, mi diceva che comunque «un ragazzo nero che parla romano è il segno di qualcosa che è stato deviato». Due secoli prima, la ragazza schiava Phillis Wheatley (la prima donna poeta pubblicata in America) scriveva un sonetto sull’esperienza di «essere trasportata dall’Africa all’America». Deviazione, in greco si dice tropos; trasportare si dice metaphorein. Cambiando strada, trasportandosi oltre il mare, i migranti trasformano le nostre metafore, le nostre figure retoriche, in materia. A cambiare direzione, ad essere trasportati, non sono più solo le parole, ma i corpi, e si tirano dietro le parole con sé. Le nostre storie raccontate ad altre orecchie, le nostre parole su altre labbra, non sono più le stesse.
Quando nell’800 il grande oratore nero ex-schiavo Frederick Douglass teneva conferenze sul «self-made man», tutte e tre le parole – uomo, fatto, sé – si capovolgevano dall’uso allora dominante che negava ai neri umanità, autonomia e soggettività. Oggi, Geedi Yusuf, giovane migrante somalo, scrive una poesia nella sua lingua in cui si infiltrano e si smascherano parole italiane come «stranieri» (pro nunciata «istaraniyeri») e «ospite». Quest’ultima è una parola dei nostri buoni sentimenti: li chiamiamo «ospiti» (o gastarbeiter) e ci sentiamo generosi e accoglienti perché li facciamo entrare in casa nostra. Ma per Geedi la parola «ospite» significa tutt’altro: significa che questa è, appunto, casa nostra e non sua, e lui è qui tollerato, provvisorio. Un ospite non può restare per sempre. E noi, non meno cinici della leghista di Monza, chiamiamo «ospiti» anche i rinchiusi nei CIE, da cui non possono uscire se non per essere ritrasportati via.