di Sergio Torsello, 27 gennaio 2014
La patrimonializzazione delle tradizioni musicali locali, le trasformazioni prodotte dal passaggio dai contesti tradizionali a quelli spettacolari, le articolate procedure di “messa in musica dell’identità”: sono i temi al centro del bel volume dell’etnomusicologa Grazia Tuzi La Pandereta. Suoni e identità della Cantabria, (Nota, 2013), che ricostruisce le complesse dinamiche storiche, culturali e politiche che hanno fatto della pandereta – il tamburo a cornice tipico dell’area che insieme al canto accompagna la jota, la principale danza tradizionale locale – il simbolo dell’identità territoriale della Cantabria, una regione del Nord della Spagna. Un libro per certi versi esemplare, frutto di ripetuti e prolungati soggiorni sul campo, che per l’efficace sintesi delle molteplici questioni metodologiche, culturali e interpretative può essere assunto quale utile strumento comparativo per altre realtà interessate da fenomeni di revival (si pensi al recente dibattito attorno alle nuove funzioni del tamburo nell’area salentina). Il libro è diviso in tre ampie sezioni. La prima è dedicata alle testimonianze di anziane pandereteras (Lines Vejo, Angeles Sanchez, Ester Montes, per citarne solo alcune), testimoni venerabili della cultura popolare locale, ma anche personalità in grado di esprimere un pensiero “critico” sui processi che le vedono protagoniste. Attraverso i loro racconti si ricostruisce la lunga vicenda culturale della pandereta, le modalità di trasmissione dei saperi musicali, i differenti stili esecutivi che connotano i vari repertori regionali, ma anche il radicamento profondo nella vita comunitaria, (si “respirava nell’aria”, dice una delle intervistate), la funzione sociale a lungo dominante di ogni forma di intrattenimento (matrimoni, feste religiose, feste tradizionali, momenti di svago collettivo) che attribuiva alla donne un particolare ruolo pubblico. In un certo senso, questa “etnografia polifonica”, come la definisce l’autrice, è dunque un viaggio nella memoria in cui la pandereta diventa una sorprendente “guida ermeneutica” – scrive Pietro Clemente nella postfazione – “tra mondi culturali, percorsi storici e paesaggi sociali”. La seconda parte è dedicata invece alle strategie identitarie e ai processi di patrimonializzazione messi in atto in Cantabria per costruire un sentimento di appartenenza locale attraverso l’individuazione di simboli attorno a cui costruire una “intimità culturale”. Qui, mettendo a frutto le recenti acquisizioni del dibattito antropologico che ha svelato il carattere finzionale di nozioni come “etnicità”, “autenticità”, “tradizione”, “identità” rivelandone l’essenza di costrutti culturali e prodotti storici dietro ai quali si celano conflitti per l’accesso a risorse simboliche e reali, l’autrice ricostruisce il percorso storico che ha portato la pandereta a diventare il simbolo dell’identità locale. E’ un processo di lunga durata che parte alla fine dell’Ottocento, attraversa la stagione del franchismo e infine culmina con il ritorno alla democrazia in una intensa attività istituzionale in difesa dei valori del popolo cantabro. Ed e’ estremamente interessante notare il costante “uso politico” del folklore musicale in Cantabria, utilizzato durante il franchismo come elemento unificante del sentimento nazionale e al contrario negli anni Ottanta a supporto delle rivendicazioni autonomiste fondate sulla “tipicità” della cultura locale. Proprio in epoca franchista, tuttavia, si verificò una prima, seminale opera di trasformazione formale conseguente all’attività della Seccion Femenina, l’organizzazione femminile della Falange. Nello sforzo di valorizzare le espressioni coreuticomusicali tradizionali in quanto rappresentazioni “autentiche” della cultura spagnola, l’organizzazione favorì la nascita di gruppi folklorici e l’istituzione di concorsi che avevano il compito di salvare dall’estinzione queste forme culturali considerate rappresentative dell’”anima” spagnola. Il risultato fu a dir poco contraddittorio: se da un lato l’associazione produsse effettivamente un tentativo lodevole di recuperare il patrimonio musicale, dall’altro spinse verso forme sempre più accentuate di spettacolarizzazione che inevitabilmente determinarono la scomparsa di alcune caratteristiche originali, prima fra tutte la diversità degli stili locali unificati in un unico stile “regionale”. E’ negli ultimi trent’anni però, con la raggiunta autonomia, che in Cantabria si mette in moto una complessa “macchina patrimoniale” (concorsi musicali, premi, festival ispirati e sostenuti dalle istituzioni locali) che amplificherà tali processi. Processi che emergono con maggior forza nella parte conclusiva del libro dedicata all’analisi musicale dei diversi stili esecutivi della jota rilevati nelle valli della Cantabria. Con il supporto di trascrizioni, spettogrammi e una preziosa documentazione video, l’autrice evidenzia quel processo di trasformazione delle funzioni stesse della musica che, nel passaggio dai contesti performativi tradizionali a quelli spettacolari e della riproposta folk, ha portato ad una sorta di standardizzazione degli stili locali. Ed è proprio l’analisi diacronica dei suoni, il confronto tra lo stile delle anziane pandereteras e quello delle nuove generazioni di esecutrici che dà il senso delle profonde trasformazioni avvenute. Processi che, pur nella diversità delle singole realtà locali, sembrano evolversi secondo dinamiche comuni a molti fenomeni di revival che oggi popolano la scena europea e internazionale.
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