In grazia di Dio. Winspeare convince, senza la pizzica

di Vincenzo Santoro

da Salento Review, anno due, numero treIn-grazia-di-Dio-Quiet-Bliss-il-direttore-della-fotografia-e-il-regista-©Cosimo-CorteseAlla fine di marzo è apparso nelle sale cinematografiche In grazia di Dio, l’ultimo film di Edoardo Winspeare, con cui il regista salentino ritorna a raccontare le terre del Capo di Leuca, come aveva già fatto nei suoi due primi film, Pizzicata (1996) e Sangue Vivo (2000), a cui questo lavoro sembra per varie ragioni ricollegarsi, ribaltandone però in gran parte l’estetica.

Questa storia di donne (una

nonna indomita e luminosa, due sorelle e la figlia di una di queste) che vengono costrette dalla crisi economica a ritornare al lavoro dei campi e ad una vita semplice e in qualche modo “antimoderna” si può leggere infatti come una sorta di aggiornamento del discorso cominciato con quelle due pellicole un po’ pionieristiche, che tanto hanno contribuito a diffondere una certa immagine del Salento nel mondo: Pizzicata voleva in qualche modo essere una sorta di ricostruzione dell’immagine di una terra “antica”, ricca di una cultura ancora largamente “incontaminata”, con i sui riti e le sue fascinazioni, mentre Sangue Vivo rappresenta una sorta di istantanea degli stessi luoghi in un contesto più contraddittorio, dove le memorie vive del passato si intrecciano con i mali profondi della modernità. Con In grazia di Dio il regista salentino ci racconta invece dei disastri prodotti dal “turbo capitalismo” e dalla crisi economiche anche nella “periferia dell’Impero”, di come questi implichino effetti sui luoghi e sulle relazioni umane. E di come gli elementi di resistenza si possano trovare proprio nel ritorno alla vita semplice della campagna, in una forma di religiosità primitiva (da sempre un chiodo fisso di Winspeare) che consola gli afflitti e gli umili, e nella forza degli affetti, sia pur in una chiave molto complicata e contraddittoria, come i tempi che stiamo vivendo.

Gli elementi di continuità fra le tre opere sono molto forti: la presenza prevalente di attori non professionisti (diretti con straordinaria abilità), a volte gli stessi dei film precedenti, l’uso del dialetto del “Capo”, una certa poetica dei luoghi, della campagna, del mare, ma anche del silenzio e dei suoni della natura, a partire da quello, onnipresente, del vento. E c’è anche un piccolo riferimento esplicito, in una scena in cui la mamma anziana dell’innamorato della protagonista guarda in tv alcune scene di Pizzicata. Ci sono però delle differenze sostanziali: la storia messa in scena è profondamente antiretorica, senza romanticismi di troppo, senza il “pittoresco” (che faceva capolino continuamente nei film precedenti) e, forse questa è la cosa più sorprendente, senza la musica. Nel film infatti manca ogni riferimento alla “pizzica”, della cui esplosione, come è noto, Winspeare, soprattutto negli anni Novanta, è stato uno dei grandi protagonisti. In questo senso, possiamo condividere l’opinione del critico Oscar Iarussi, per cui con questo film la “pizzica” è finita, nel senso che per il regista, evidentemente, le musiche e la danze antiche, forse ormai troppo entrate nel circuito della spettacolarizzazione e del commercio turistico, ed eccessivamente legate all’immagine (falsa) di un Salento da cartolina, hanno completamente perso la loro carica poetica e non sono più in grado di rappresentare un elemento “resistenziale”.

Al di là di queste considerazioni però, Winspeare, nonostante le difficoltà produttive (si tratta di un’opera a bassissimo costo e largamente autofinanziata), è riuscito a produrre un film intenso e spiazzante, radicale e coraggioso, anche nelle imperfezioni, profondamente radicato nell’anima “antica” del Salento ma capace di usare un linguaggio universale e di parlare al mondo, scartando programmaticamente dal “folklorismo” per turisti e dal colore locale.

Il film, uscito in un numero limitato di sale, ha raccolto consensi e recensioni entusiastiche. Su tutte, possiamo citare le parole ispirate di Roberto Saviano: “Chiunque possa farlo, vada a vedere In grazia di Dio. La prima vera opera su cosa stiamo diventando e cosa stiamo perdendo. Un suggerimento, forse, per comprendere da dove poter ripartire. Winspeare dà lezione a tutto il cinema italiano, sempre più postura e maschera. Si libera delle piaggerie estetiche, delle furbizie d’autore e torna a scegliere di capire, di scovare il bello, di rintracciare l’errore, l’inganno. Con semplicità, eleganza, con il desiderio di raccontare”.

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