Molto spesso mi è capitato di criticare l’usanza, che si sta sempre di più diffondendo nel circuito della musica popolare salentina, di rappresentare, nel corso di spettacoli di varia natura, il rituale del tarantismo attraverso l’esibizione di una danzatrice pseudo-“tarantata”, che più o meno ripete i cicli coreutici che si possono osservare nei documentari storici (o anche più recenti), spesso “arricchendoli” con espliciti ammiccamenti sessuali, oltremodo enfatizzati anche dalle vesti decisamente meno castigate di quelle “originali” (per usare un eufemismo).
Queste pratiche, anche quando eseguite con le migliori intenzioni (quasi mai: in generale si tratta solo di spettacolarizzazione greve e di cattivo gusto), mi paiono assolutamente irrispettose della memoria reale delle persone che erano coinvolte in questo rito, che, non dimentichiamocelo, non si divertivano per niente, anzi.
In realtà, il problema di come portare in un contesto spettacolare il rito del tarantismo senza tradirne la memoria non è per niente banale. Mi pare dunque interessante porre l’attenzione su come sia stato affrontato e risolto nella prima occasione importante in cui si è posto, e cioè nel corso dello spettacolo Sentite buona gente, curato da Roberto Leydi con la consulenza di Diego Carpitella e la messa in scena di Alberto Negrin per la stagione 1966–’67 del Piccolo Teatro di Milano (fra febbraio e marzo). A questa “Prima rappresentazione di canti, balli e spettacoli popolari italiani”, partecipò anche la mitica orchestrina dei Musici – terapeuti del Salento (guidata da Luigi Stifani al violino e composta da Tora Marzo al tamburello, Pasquale Zizzari all’organetto e Giuseppe Ingusci alla chitarra), che erano conosciuti per essere stati i protagonisti della indagine sul tarantismo salentino condotta pochi anni prima da Ernesto de Martino, a cui Diego Carpitella aveva partecipato in qualità di etnomusicologo.
I musicisti salentini vengono dunque chiamati proprio ad eseguire una delle pizziche “indiavolate” che usavano nel corso delle loro sedute terapeutiche. E a questo punto si arriva al nostro problema, che possiamo immaginare avrà arrovellato non poco gli illustri curatori del progetto: come rappresentare il rito del tarantismo senza svilirlo e tradirne il senso profondo?
La soluzione trovata (sfuggendo alla tentazione di coinvolgere una “vera” tarantata, cosa che in quegli anni non sarebbe stato impossibile) mi pare di grande interesse, anche per il dibattito odierno. L’esibizione dei terapeuti neretini viene divisa in due parti. All’inizio della prima, i musicisti entrano lentamente in scena, mentre una voce fuori campo (se non ho capito male dello stesso Leydi) propone delle informazioni storiche sul fenomeno del tarantismo, completate dalla descrizione di alcuni casi concreti (secondo una lettura perfettamente “demartiniana”). Tutto questo alternato con delle brevi presentazioni dei suonatori, che erano state riprese precedentemente dalla loro viva voce. Intanto, nella penombra, i musicisti allestiscono una sorta di “scenario del rito”, stendendo un lenzuolo bianco in fondo al palco, ai piedi di uno schermo su cui iniziano a venire proiettate (senza il sonoro) alcune immagini (in particolare quelle riguardanti il rito “domiciliare”) tratte da “La taranta” di Gianfranco Mingozzi, suggestivo documentario storico girato pochi anni prima nel Salento. Su queste immagini i nostri, disposti sul margine del “telo rituale” (vedi foto), cominciano a suonare la “pizzica tarantata”.
In questo modo, i curatori del progetto riescono a ottenere una rappresentazione del rito estremamente elegante ed efficace, riuscendo a restituirne, sia pure in modo sintetico, la densità culturale e direi anche il senso del mistero. E con una modalità, quella della “sonorizzazione” dal vivo di immagini mute, da parte peraltro degli stessi musicisti protagonisti del video, decisamente moderna (anzi, addirittura anticipatoria).
A seguire, nella seconda parte del loro intervento, i musicisti neretini (“per ringraziamento a San Paolo”, come ci dice la incontenibile tamburellista Salvatora Marzo) si esibiscono – fra l’entusiasmo e gli applausi del borghesissimo pubblico milanese) in una versione irresistibile e luciferina (è proprio il caso di dirlo) della pizzica tarantata, con una intenzione e una forza che a me ricordano molto il miglior rock di quegli anni. Anzi, forse potremmo proprio dire che quella “tarantella neretina indiavolata” (come la chiamava Stifani) ci può sembrare oggi una sorta di Simpaty for the Devil in salsa salentina.
La versione integrale del memorabile spettacolo milanese si trova nel dvd allegato al ricchissimo volume di Mimmo Ferraro Roberto Leydi e il Sentite buona gente. Musiche e cultura nel secondo dopoguerra, da poco edito per i tipi di Squilibri. Una recensione dell’opera, scritta dal nostro compianto amico Sergio Torsello, si può leggere a questo indirizzo: http://lnx.vincenzosantoro.it/2015/03/17/il-viaggio-di-leydi-nella-musica-folk/
La seconda parte della strepitosa esibizione dei suonatori salentini è disponibile su youtube: