Una riflessione sulla memoria del tamburello nella musica popolare salentina attuale a mio avviso non può che partire da una premessa di ordine generale: la tanto celebrata scena contemporanea della “terra fra i due mari” non è, come si potrebbe credere, un’eredità diretta della “tradizione”, ma il risultato di un lungo lavoro culturale, che infine è riuscito e riprendere per i capelli una cultura che stava scomparendo, quasi “riportandola in vita”, non senza averne modificato diversi aspetti in maniera sostanziale.
Ma come si è sviluppato questo progetto di “rinascita”? Per rispondere, dobbiamo prima ricordare come si stava per arrivare alla “morte della tradizione”. Semplificando al massimo, possiamo dire che a partire dagli anni del secondo dopoguerra, il Salento – come peraltro tanti altri posti d’Italia – ha imboccato la strada della “modernizzazione” e del “progresso”, che ha percorso anche in maniera molto veloce. In questa dinamica inarrestabile, veniva molto facile innamorarsi delle espressioni culturali (in particolare musiche e balli) veicolate prima dalla radio poi dalla televisione e lasciarsi alle spalle gli elementi di una tradizione che aveva una storia lunghissima. Questo accadeva non solo per la musica tradizionale, ma anche per tante altre cose che adesso sono tornate di moda e diamo per scontate: per esempio oggi tutti (o quasi) nelle case vogliono le “volte a stella”, ma queste per diversi decenni queste virtuose coperture in murature sono state demolite per fare le case con i solai in cemento.
In questo processo più generale ricade anche il discorso della musica tradizionale (e anche del ballo), che faceva parte di queste brutte cose del passato che bisognava cancellare, buttare via, per abbracciare magari la canzonetta e la musica di Sanremo e similari (ma anche, più avanti, il rock, il cantautorato “colto” ecc). Dobbiamo ricordare che di questa evoluzione, di questa cancellazione, erano quasi tutti contenti: quelli che si opponevano erano pochi, una minoranza scarsamente considerata.
Nel Salento, solo nei primi anni settanta cominciano ad operare, in un’ottica resistenziale, alcuni gruppi (minoritari), impegnati a cercare di salvare il salvabile di questa cultura che stava naufragando e stava sprofondando nell’oblio: parliamo dei gruppi del primo folk revival (in particolare del Canzoniere Grecanico Salentino, nato per iniziativa della intellettuale e attivista Rina Durante) che erano soggetti abbastanza isolati, inseriti in un discorso politico molto di sinistra – e dunque in gran parte rifiutato da chi non si sentiva così schierato. Questo primo folk revival declina, per varie ragioni, alla fine del decennio.
Successivamente, alla fine degli anni ottanta, anche basandosi sulle esperienze precedenti, nasce e comincia velocemente a crescere un nuovo “movimento” che produce, in maniera innovativa e originale, un lavoro di recupero per la musica e il ballo “tradizionali” (con particolare riferimento, come è noto, alla “pizzica-pizzica”), che nel tempo porterà – con molte modifiche, semplificazioni e a volte anche con vere e proprio mistificazioni – alla ricostruzione di una sorta di nuova memoria collettiva. In qualche modo, questa “tradizione” viene riesumata come un cadavere e gli viene data nuova vita usando una sorta di elettroshock culturale, fino ad arrivare a tutto quello che si può osservare oggi. Questo interessante fenomeno sociale, che è stato definito “il rinascimento della pizzica”, ho provato ad analizzarlo e a ricostruirlo (in maniera molto meno semplificata di quanto ho potuto fare in questa sede) in un libro di qualche anno fa (Il ritorno della taranta. Storia della rinascita della musica popolare salentina, Squilibri 2009), a cui rimando per approfondimenti.
Possiamo dunque dire che, a differenza di quanto si sente dire spesso, il Salento di oggi non è la terra della continuità di una tradizione millenaria, il luogo della gelosa conservazione della “tradizione”, come propone una certa narrazione a dir poco approssimativa, ma in realtà è l’esito per certi versi felice ma anche controverso del processo di ricostruzione di una memoria culturale, in particolare per quanto riguarda la musica e il ballo.
In tutto questo discorso, naturalmente, il tema del tamburello è centrale. Tale strumento come è noto è l’elemento cardine della pizzica-pizzica, ma sappiamo che negli anni 70- 80 era difficilissimo trovare gente che suonava, anche nei luoghi dove maggiore era la pratica di questo strumento (in particolare la festa di San Rocco a Torrepaduli, che era entrata in una crisi che sembrava irreversibile). Sono interessanti i racconti di quegli anni, in cui emerge che non si riusciva a fare le ronde di “pizzica scherma”, e quando qualche danzatore tradizionale provava a farle, entrava subito un altro che magari improvvisava delle ridicole mosse di karate, perché in quel momento erano diffusi i film di Bruce Lee e tutto era molto confuso. Anche gli storici costruttori di tamburelli in quegli anni avevano smesso di produrli. Uno dei primi gruppi del folk revival degli anni 70, il Nuovo Canzoniere del Salento, registra un disco (di cui due brani ho inserito nel cd allegato a Il ritorno della taranta) che poi non pubblica perché scoppia un litigio fra i componenti, alcuni dei quali pensavano che pubblicare un disco era come svendersi al capitalismo, cosa che la dice lunga sul clima di quegli anni; ebbene in quelle registrazioni non c’è un tamburellista perché non si trovava nessuno che suonasse il tamburello, per cui la ritmica è ottenuta con il battere della mano sulla cassa della chitarra. Nel successivo Canzoniere Grecanico Salentino, c’è Luigi Chiriatti che suonava il tamburello – lui era un uomo molto inserito nel discorso tradizionale, soprattutto per provenienza familiare – ma tutti gli altri non lo sapevano suonare; e anche nei gruppi successivi il tamburello era suonato in una maniera elementare.
All’inizio degli anni Ottanta, un’azione decisa di contrasto all’oblio del tamburello la mette in campo Giovanni Pellegrino, un importantissimo operatore culturale di Zollino. Lui con pochi soldi a disposizione produce una grande operazione, attraverso due eventi, la Festa del tamburello e il Ritorno a San Rocco: recupera tutti i tamburellisti, ai costruttori chiede di fare gli strumenti, li mette tutti insieme e poi organizza una partecipazione collettiva più consapevole alla festa di San Rocco a Torrepaduli. A questo primo fondamentale esperimento viene chiamato a partecipare anche il famoso etnomusicologo Diego Carpitella, che era già stato nel Salento a registrare la musica tradizionale nel 1954 (con Alan Lomax), nel 1959 (con Ernesto de Martino), nel 1960 e nel 1966 (con Roberto Leydi), e quindi aveva una competenza scientifica molto forte, che viene usata anche per rilegittimare questi anziani suonatori. Nello stesso momento, organizzare delle feste appassionate serviva a far vedere ai giovani che queste cose erano belle e giuste.
In seguito, il momento del definitivo rilancio è legato al grande lavoro che comincia a mettere in campo alla fine degli anni Ottanta Edoardo Winspeare insieme al gruppo di giovani che gli stavano intorno, in cui viene fortemente affermata la nobiltà culturale del ballo della pizzica e l’importanza – direi anche estetica – di un percorso di ricostruzione di questa memoria culturale. Anche in questo caso, il tamburello è l’elemento centrale: Edoardo fa tornare in campo alcuni anziani suonatori che avevano “appeso il tamburello al chiodo”, coinvolge un po’ di personaggi a metà tra la tradizione e la modernità come Pino Zimba e poi dei giovani come Lamberto Probo che tornano a questa cultura ridandogli vitalità. Operando per ricucire questo legame della memoria tra le generazioni che si era rotto, Edoardo costruisce una estetica musicale (e coreutica) attrattiva, piacevole, seduttiva, soprattutto attraverso il film Pizzicata, che mette in campo una sorta di neo-realismo salentino, con tutti gli attori – tranne uno – non professionisti (e sono esattamente questi giovani di cui parlavo e questi anziani gli Ucci, Stifani e altri). Si costruisce dunque, attraverso un’opera filmica, una sorta di nuova estetica glamour-rurale salentina, in cui naturalmente il tamburello è molto presente.
Per giungere ad una valutazione complessiva, possiamo dire che questo processo che abbiamo cercato di delineare per sommi capi ha dei meriti evidenti: c’è stato un grande ritorno collettivo ai suoni e ai ritmi della tradizione, che sembravano condannati all’oblio, e il Salento si è imposto come grande laboratorio musicale, ribollente di gruppi e di attivismo diffuso (e di feste e sagre debordanti, mega-festival ecc. ecc.). E tutto questo, come è noto, è diventato anche un elemento fortissimo di attrattiva turistica. D’altra parte però non possiamo nasconderci che l’esplosione del “movimento della pizzica” ha portato con sé anche delle cose che ci piacciono un po’ meno: una assordante retorica territoriale, una prevalenza degli elementi di spettacolarizzazione rispetto alla pratica di base, la banalizzazione e la semplificazione di tante cose, come ad esempio il ballo, che è stato completamente modificato, amplificando gli aspetti sensuali e “del corteggiamento”, cambiando i passi, fino ad arrivare addirittura alla “porno-pizzica”, chiamata così per questa accentuazione sfrontata e parossistica dell’aspetto seduttivo femminile (che arriva fino all’esibizione della biancheria intima ad uso di telecamera e smartphone). E anche la tecnica del tamburello – che, decorato con l’immancabile taranta, è diventato ormai quasi un logo territoriale – è stata fortemente banalizzata e impoverita: ora, almeno per quanto riguarda la pizzica, prevale una specie di terzinato standard che usano tutti (a parte le variazioni d’autore), ma in generale nella tradizione questo strumento si suonava con molte tecniche diverse. Per esempio Uccio Aloisi di Cutrofiano usando un tamburello di misura grande, e più o meno dava due “botte”, Salvatora Marzo di Nardò del gruppo dei “musici terapeuti” del tarantismo – capitanati dal mitico violinista Luigi Stifani – suonava con estremo virtuosismo, praticando un forte “basculamento” su un tamburello anche in questo caso molto grande. Quindi nella tradizione i modi di suonare il tamburello erano molto diversificati, cambiavano a seconda dei luoghi a seconda dei modi e delle intenzioni in cui veniva suonata la musica, adesso tutto questo si è perso in direzione di una standardizzazione che di fatto è anche una perdita di complessità, oppure abbiamo suonatori che praticano una sorta di virtuosismo artistico, con esiti non sempre così indimenticabili.
Nelle pratiche musicali tradizionali c’era una complessità, una densità culturale, una ricchezza che si sono perse, e che forse, lavorando una maniera più accurata, utilizzando intelligentemente le tante registrazioni audio – spesso straordinarie – che abbiamo, si potrebbero in parte recuperare. Non per tornare indietro ad una mitica e inesistente età dell’oro, ma per “andare avanti” in maniera più consapevole.
Sarebbe interessante costruire ad esempio dei percorsi didattici fondati su una conoscenza approfondita dei materiali tradizionali, a mio avviso se fatto in maniera corretta tanta gente potrebbe essere interessata. Questo genere di percorsi sono certamente una parte mancante dell’offerta culturale del Salento: siamo stati molto bravi ad organizzare festival, sagre ed eventi piccoli e grandi (anche mostruosamente grandi), a stimolare la creazione centinaia e centinaia di gruppi e infine a creare una vera e propria moda, ma questo sulla ricerca, la documentazione la formazione siamo decisamente indietro.
Voglio concludere ricordando un memorabile documento, recuperato di recente dalla Teche Rai. Un video storico, che contiene quello che forse è il primo concerto di riproposta della musica popolare salentina: al Piccolo teatro di Milano, nel 1967, Luigi Stifani, Salvatora Marzo e il resto della mitica orchestrina di Nardò si esibiscono nello spettacolo Sentite buona gente. Ideata dagli etnomusicologi Roberto Leydi e Diego Carpitella, l’iniziativa intendeva presentare una rassegna del meglio della musica tradizionale italiana, e in questo contesto l’intervento dei musicisti salentini contemplava una prima parte di “presentazione” del rito del tarantismo, senza però inscenare una pantomima con “false” tarantate (come purtroppo avviene di frequente oggi), ma, con un’eleganza unica, mettendo in scena una modernissima “sonorizzazione” dal vivo di alcuni frammenti video sul tarantismo girati anni prima nel Salento da Gianfranco Mingozzi, che venivano proiettati su uno schermo in fondo al palco. Nella seconda parte i nostri eroi si esibiscono in una travolgente pizzica in “omaggio a Santu Paulu”, suonando in maniera strepitosa, e colpisce molto ad esempio vedere Salvatora Marzo (ritratta in apertura di articolo in una foto di Franco Pinna), una contadina analfabeta di Nardò, riuscire a stupire e coinvolgere in maniera sorprendente un pubblico composto in gran parte di borghesi milanesi. Non dovremmo mai mancare di ricordare e onorare questi personaggi straordinari, senza i quali tutto questo fervore musicale di oggi semplicemente non esisterebbe. Grazie.
Questo scritto è l’intervento, ampiamente rivisto, al convegno Lu tamburrieddhu meu. Storia e confusione, organizzato a Carpignano Salentino (Le) il 31 ottobre 2016. Gli altri interventi (di Antonio D’Ostuni, Lamberto Probo e Gigi Schito) si possono leggere qui: http://offculturalicarpignano.altervista.org/pubblicazioni.html