Contro canto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap di Antonio Fanelli (appena pubblicato da Donzelli con una copertina a dire il vero un po’ ruffiana) offre una ricca e preziosa ricostruzione del movimento del “canto sociale e politico”, che in Italia, a partire soprattutto dal secondo dopoguerra, ha avuto una declinazione fertile e originale, come ci ricorda l’autore, in un “particolare connubio fra tradizioni popolari e attivismo politico”, che “ha visto le ricerche sulla cultura popolare e sul patrimonio storico della tradizione del movimento operaio e contadino come fulcro per la costruzione di una ‘nuova cultura’”.
Questa storia avvincente, che si può leggere anche in una continua dialettica fra pratiche culturali dal basso e disegni egemonici (dell’industria culturale ufficiale certo, ma forse anche delle forme politiche organizzate della sinistra), viene fatta significativamente partire dalla singolare vicenda del “capostipite dimenticato”: Raffaele Offidani, alias Spartacus Picenus, autore comunista che negli anni fra le due guerre componeva canzoni politiche utilizzando creativamente le arie di più largo consumo.
Dopo la parentesi del fascismo, nel dopoguerra si collocano, sulla scia gramsciana dei Quaderni del carcere e le teorizzazioni di Ernesto de Martino sul “folklore progressivo”, i prodromi del lavoro di “ricerca-intervento” di Gianni Bosio, il progetto “brechtiano” del Cantacronache, l’intensa e poliedrica attività del Nuovo Canzoniere Italiano, la stagione del folk revival e il militante impegno politico-culturale dell’Istituto “Ernesto de Martino”, le esperienze – solo per citare le più significative di Giovanna Marini, Ivan Della Mea, di Roberto De Simone e della sua Nuova Compagnia di Canto popolare.
Con la fine degli anni ’70 il movimento del folk revival entra in crisi, anche per l’esplodere della violenza politica, che disorienterà molti attivisti, creando divisioni e polemiche, e nel corso degli anni ‘80 sulle gloriose stagioni precedenti calerà quasi un velo di oblio. L’espressione del disagio giovanile è sempre di più il punk che, nelle sue espressioni più avanzate e consapevoli si collega con l’attività dei primi centri sociali. In tale contesto, fra la fine degli ’80 e l’inizio dei ‘90 nascono l’esperienza “popolare e militante” dei Gang, e poi l’hip hop e il rap (con al centro l’attività degli Assalti Frontali), le posse e il ragamuffin “all’italiana”, di cui sembrano particolarmente interessanti alcune istanze meridionali (come i 99 Posse e i Sud Sound System).
Negli anni ‘90 si assiste ad un ulteriore cambio di prospettiva, con l’esplosione della world music e soprattutto con l’affermarsi di un “revival etnico” dai forti accenti identitari, che trova nel Salento della “taranta” il suo epicentro più clamoroso (e su cui la riflessione di Fanelli, considerandolo un caso emblematico, si sofferma a lungo, anche per gli aspetti legati ai controversi processi di “patrimonializzazione” delle culture popolari).
Il denso saggio – e questa è una delle sue caratteristiche più interessanti – accompagna un racconto tanto vario di esperienze artistiche alla disamina rigorosa dell’effervescente dibattito intellettuale e politico che in molti casi si è intrecciato con l’azione spettacolare vera e propria, senza trascurare l’analisi delle trasformazioni dei movimenti sociali e delle culture giovanili attraverso cui la storia italiana della “musica militante” si è dipanata. Utilizzando per questo una imponente mole di documenti di diversa natura, probabilmente anche frutto di un minuzioso scandaglio di quella grande miniera che è l’archivio dell’Istituto Ernesto de Martino di Sesto Fiorentino, del cui comitato scientifico Fanelli fa parte.
A concludere il viaggio è la figura di Sandro Portelli (che firma l’introduzione al volume), uno dei ricercatori della “vecchia guardia” che può essere considerato come “il principale punto di riferimento per traghettare nella contemporaneità il bagaglio di conoscenze e gli strumenti teorici scaturiti negli anni di maggiore sviluppo della ricerca empirica sul canto sociale”. Anche nella lunga attività di Portelli il lavoro di ricerca e di riflessione è stato condotto innanzitutto sul campo, a partire dalla fondazione (nel 1973) del Circolo Gianni Bosio di Roma, uno dei luoghi fondamentali per la documentazione e l’intervento sulle culture orali e “non egemoni” a livello internazionale, che negli ultimi anni sta allargando l’ambito dei suoi interessi alle musiche migranti, che scompaginando vecchi schemi e nozioni, “a partire da quella di ‘tradizione locale’”, apre scenari del tutto nuovi e forieri di potenziali sviluppi.
Un libro importante dunque, che restituisce in maniera minuta ma vivida una vicenda in fondo poco conosciuta fuori dal circuito degli addetti ai lavori, testimonianza significativa delle grandi passioni che hanno animato il percorso culturale, sociale e politico dell’Italia contemporanea.