Brevi riflessioni a margine di una nuova Guida “ai sapori e ai piaceri del Salento”

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Sono un appassionato di guide turistiche e similari, che leggo con attenzione anche per capire come si modifica nel tempo un certo tipo di sguardo sui luoghi. Questa ultima di Repubblica, dedicata “ai sapori e ai piaceri” del Salento, mi sembra abbastanza interessante e non scontata, e quindi, nonostante ormai di pubblicazioni simili ce ne siano svariate, certamente utile, per il turista che viene da lontano ma anche per i locali che intendano approfondire la conoscenza della propria terra.

Questo vale soprattutto per le sezioni che cercano di valorizzare un Salento un po’ diverso da quello stra-conosciuto. Le parti invece più discutibili sono quelle in cui sembra prevalere un taglio eccessivamente autoapologetico e autopromozionale: da una pubblicazione del genere ci si aspettano dei giudizi terzi, per quanto possibile obiettivi, non articoli e interviste in cui gli organizzatori e gli artisti si autocelebrano.

La Guida è fondamentalmente divisa in articoli tematici, che descrivono particolari filiere turistiche (i “sapori” e i “piaceri”, appunto, che riguardano il paesaggio, le coste, l’ambiente rurale, i beni culturali in tutte le accezioni, il ricchissimo patrimonio enogastronomico, l’artigianato tipico, le principali feste, non solo estive ecc). Completano il quadro alcune interviste a personaggi in vario modo significativi.

Vi sono delle piacevoli sorprese (su tutte direi la sezione su “Taranto sotterranea”, un percorso fra le semisconosciute ricchissime persistenze archeologiche ipogee della citta jonica, e l’articolo sul mistico e vertiginoso “Santuario della pazienza” di Ezechiele Leandro a San Cesario) ma anche delle singolari assenze: ad esempio nella parte su Taranto e provincia mi pare che manchi del tutto il MARTA, che sarebbe uno dei musei archeologici più importanti del mondo, come in quella sulla Messapia non è per niente citato il glorioso museo archeologico “Sigismondo Castromediano” di Lecce, che pure è in fase di grande rilancio. 

Grande spazio viene dato anche ai temi ‘taranteschi’, e in particolare alla fatale Notte, a partire da una sfiziosa intervista, che apre il volume, a Stewart Copeland, mitico batterista dei Police, che racconta con toni appassionati della sua esperienza di Maestro concertatore nel 2003 (e del successivo tour). Di questo suo amore folle per “la taranta”, che sembra averlo tanto segnato, il musicista inglese aveva già parlato con grande entusiasmo nella sua autobiografia Strange Things Happened. La mia vita con i Police, il polo e i pigmei, pubblicata in Italia da Minimum Fax  nel 2011. Nella sezione specifica della Guida dedicata al celebre evento sono poi contenuti ampi approfondimenti e tutte le informazioni sull’edizione 2018, che si estende ormai quasi per tutto il mese di agosto.

Vorrei concludere con alcune brevi considerazione riguardanti il modo con cui questi temi “taranteschi” vengono trattati, a partire dalle questioni terminologiche. Nell’introduzione alla Guida, il curatore a un certo punto cita “il ballo della taranta”, le cui note e musiche sarebbero il condimento di “bellezze, cibo, vini, prodotti, luoghi di charme” di questo territorio. Da una parte questo passaggio indica come il complesso fenomeno del “movimento” della musica popolare, che si articola come è noto, soprattutto d’estate, in una ricchissima offerta di eventi di ogni genere e dimensione, dal mega festival alla piccola festa di piazza, venga considerato un elemento costitutivo dell’attrattività turistica del Salento. Dall’altra, mi pare significativo che, nonostante tutta questa attenzione, ancora una volta il tema sia affrontato in maniera superficiale e con un linguaggio del tutto improprio. Come è noto infatti, almeno nel Salento leccese, la “taranta” è il ragno mitico il cui morso, nella tradizione, originava le crisi che venivano poi curate con la musica e il ballo. La musica di cui parliamo però non si chiama “taranta”, ma “pizzica” (o ancora più precisamente “pizzica pizzica”) e in qualche caso “tarantella”. Inoltre, il ballo che “condisce” le feste salentine non è ovviamente quello del tarantismo (fenomeno per fortuna ormai scomparso da tempo, al netto delle pantomime “rievocative” che purtroppo si stanno sempre più diffondendo negli ultimi anni), ma è quello “della festa”, adeguatamente rielaborato e modernizzato: non si balla da soli, ma in coppia, non si esprime delirio, dolore e sofferenza, ma gioia, e soprattutto non c’è quella componente religiosa e rivolta al soprannaturale che caratterizzava il rito in funzione (“Io al Santo ci credo” diceva Luigi Stifani, l’ultimo violinista-terapeuta del tarantismo “vero”). Per cui le espressioni  “taranta” e “il ballo della taranta” usate quasi come sinonimi di “musica e ballo tradizionale salentini”, sono del tutto fuorvianti e fonte di confusione fra il rito di un tempo e le cose di oggi, fra enigmatiche pratiche di religiosità popolare che venivano consumate al riparo di ambienti domestici e gli affollatissimi mega-Concertoni con mega-palchi e mega-amplificazioni.

D’altra parte, non possiamo neanche dare troppe colpe al giornalista in questione (che comunque poteva informarsi meglio, i libri sull’argomento non mancano): questa confusione è una caratteristica strutturale del movimento salentino fin dall’inizio (“davanti al convento degli Agostiniani si ripropone un rito antico di secoli”, diceva il giornalista del TG Rai commentando una delle prime edizioni del Concertone della Notte), ed è stata negli anni anche più o meno consapevolmente alimentata da molti operatori locali. Perché è evidente che una delle ragioni del successo del “modello Salento” stia proprio in questa ambiguità, che si è dimostrata così fascinosa e attrattiva. La ‘memoria’ ne esce discretamente distorta, ma non c’è dubbio che come marketing territoriale, almeno finora, sia stato un grande successo.

ps: l’anziano tamburellista di cui parla Copeland nell’intervista senza ricordarsi il nome è ovviamente Uccio Aloisi.

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