Salento. Coste frastagliate, calette nascoste, odori pungenti, natura selvaggia. Chi non lo conosce così, è perchè non lo ha vissuto fino in fondo
di Chiara Zilli
da labIULM, 12/12/2003
Salento. Coste frastagliate, calette nascoste, odori pungenti, natura selvaggia. Chi non lo conosce così, è perché non l’ha vissuto fino in fondo. Innamorarsi di questo ultimo lembo del tacco d’Italia è facile. La sua storia di splendore e miseria, di ricchezza culturale e latifondismo, di umanesimo idruntino e sapori arabeggianti si sussegue in una serie di suggestioni ossimoriche. E l’unica parola che viene in mente per tentare una definizione appropriata è contaminazione. La si vede nella gente, nel dialetto, nell’archittettura, nelle sterminate distese di ulivi bitorzoluti, abituati a crescere dove non c’è abbastanza acqua. Ogni pietra riecheggia di una storia spesso incelabile ma che rimane dentro e richiama a sé. La prima sensazione, sbarcando all’areoporto brindisino è il profumo dell’aria, che sa di fiori e di iodio, anche quando non si è vicino al mare. La si può assaporare scandendo, respiro dopo l’altro, tutte le essenze una per una. Il cielo sovrasta, sconfinato, qualsiasi cosa si trovi sotto di lui, imprimendo negli occhi un blu troppo intenso e sulla pelle il calore del sole. Un calore che, una volta catturato, rimane addosso come un vestito e accompagna un viaggio, che diventa insieme spirituale e più meramente turistico, storico ma anche intimistico. Arrivando a Lecce, capoluogo della penisola salentina che si è meritata la denominazione di “Atene delle Puglie”, si rimane avvolti dalla luce che la città emana. Una luce giallina che si mescola con il calore del Sole e si irradia nelle vie, nei palazzi, nei monumenti. E’ la luce della tipica pietra leccese, un po’ tufosa e morbida, che per le sue caratteristiche si è prestata bene alle modulazioni manierate del barocco. Sulle cartine turistiche è scritto a caratteri cubitali: il Barocco leccese, ma le definizioni specialistiche sembrano insufficienti a spiegare il perché di un così bell’ appellativo. Lo si scopre però tutto in una volta, trovandosi al centro della piazza del Duomo, dove la luce cittadina, mista di Sole e di pietra, avvolge tutto intorno rendendo in un attimo l’osservatore il centro di un piccolo universo.
Scendendo più giù, sempre più a Sud, dove il Tacco guarda da un lato i Balcani e dall’altro l’Africa, si apre un mondo nuovo. Il Barocco domina i centri storici degli infiniti paesini, ma si mescola con altre influenze, ancora più profonde, ancora più antiche. Un salto all’indietro fino al nono secolo D.c., quando la Penisola, terra di confine e di passaggio e porta aperta sull’oriente, si trovava al centro della razzie di Longobardi, Saraceni e Bizantini, che poi la domineranno per oltre due secoli. Tutto questo parla anche oggi, attraverso le ossa degli 800 martiri racchiuse nella cattedrale di Otranto a causa dell’invasione turca. Parla attraverso la lingua di certe vecchiette, un antico dialetto greco che rimane nel nome di alcune località della Grecìa Salentina, come Calimera. Parla attraverso palazzo Sticchi di Santa Cesare Terme, molto simile ad una moschea, o attraverso le palme nane che costellano tutta la penisola salentina.
A spasso tra queste località, può capitare di imbattersi in sagre e feste paesane che celebrano orgogliose antichi riti. Ritmi incalzanti, tribaleschi e magnetici che invadono le orecchie. E’ la pizzica salentina, che ancora oggi attrae una moltitudine di giovani che si riversa in questi eventi, celebrando la storia della “donna tarantolata” che, per scacciare il male oscuro, danza e si dimena finchè non cade a terra guarita. Si rimane stregati dall’atmosfera della folla che saltella compatta fino a notte fonda, seducendo il viaggiatore, soggiogandolo a richiami ancestrali.
Calore irradia anche il salentino, che ammalia il turista in cerca di emozioni e gli parla con un accento sconosciuto, frutto di un dialetto che niente a che vedere, in termini di radici culturali, con il più diffuso stereotipo pugliese. E’ una lingua che risente delle influenze della lunga dominazione spagnola, e di quella lingua ha assorbito parole e costrutti grammaticali.
Cultura greca e spagnola, araba e normanna, tutto si amalgama in una unità singolare, che ogni luogo, ogni persona, ogni spiaggia riversa sul viaggiatore invitandolo a lasciarsi contaminare, a reinterpretare, a rivivere sulla propria pelle. Un gioco seduttivo che si conclude in un finale riscritto da ogni io errante, che lascia in dono a questa terra un nuovo tassello di vita e di umanità, con il quale giocare.