da Il Sole 24 Ore del 21/02/2004
Si può essere ultimi per mille motivi. Spesso è solo un caso: la lettera di un cognome, la data di nascita, la capacitò di reddito. I salentini sono ultimi per destino geografico. Ultimissimi come i calabresi, senza neppure l’alibi dell’insularità. Ogni Continente e ogni Paese devono pur avere un inizio e una fine: il Salento è la fine dell’Europa, una lingua di terra che galleggia tra l’Adriatico e lo Ionio. La fine di qualcosa è pure l’inizio, basta crederci.
I salentini non hanno mai smesso di crederci, forse perché i loro cromosomi si sono impastati per secoli con quelli di chi dall’appartenenza ha ricavato parecchi privilegi. I nobili spagnoli e i gesuiti cominciano a colonizzare questa terra per volere dei Borbone e di Dio. Due poteri con una concezione cosò elevata di sé © e della propria missione che non potevano non scegliere di essere rappresentati da un barocco che intimidisce prima e ammutolisce poi. Il Salento è pensato e costruito per stupire, i ricami della natura e quelli degli architetti sembrano orchestrati dalla stessa mano, un gioco di colori e di luci che rimbalzano su ghirlande sorrette da angeli, putti, figure grottesche, simboliche e zoomorfe attorcigliate ai capitelli. A Lecce, la chiesa di Santa Croce e piazza del Duomo raccontano più di un manuale di storia e un trattato di sociologia. Il bianco della pietra e l’azzurro del cielo invadono l’immaginario di chi le ammira.
I salentini osservano divertiti le reazioni di chi per la prima volta si trova immerso in questa quinta teatrale. Loro non hanno mai avuto fretta di fuggire. E quando emigravano tornavano sempre, come se fossero sempre stati consapevoli che da qui te ne vai con i piedi ma mai con la testa. Per decenni, la marginalità ha protetto questa terra dalle convulsioni dell’industrializzazione forzata. Aldo Moro era di Maglie, in provincia di Lecce. Fu lui a decidere che l’Italsider doveva andare a Taranto e l’industria chimica a Brindisi, risparmiando sempre e comunque il Salento da interventi traumatici. Una scelta che politicamente non gli costò granché. I salentini hanno sempre dimostrato di sapersela cavare da soli. Capacità progettuale e spirito pragmatico vanno di pari passo, forse perché qui non è saltato nessun passaggio dal Medioevo alla modernità. La borghesia è solida e con radici antichissime, anche se, da buoni meridionali, i salentini non possono fare a meno di avere un avvocato e un medico per ogni famiglia.
La pazienza, frutto di una storia senza sbalzi e fughe in avanti, alla fine è stata premiata. Da anni i pugliesi e soprattutto i baresi si interrogano sugli ultimi della classe che improvvisamente sono diventati i primi. Primi nella valorizzazione della loro identità, primi nella difesa dell’ambiente, primi nella capacitò di progettare, primi nell’accoglienza degli extracomunitari che approdavano su queste coste in fuga dai Paesi orientali e africani più disgraziati del pianeta. Qui, nessuno li chiama “disperati”, cioè senza speranza, come i telegiornali italiani si ostinano a gracchiare con ossessionante ripetitività. Ma albanesi, curdi, somali, marocchini. Un rispetto per il lessico e l’identità che forse nasce da un altro cromosoma di tolleranza germogliato tra queste coste e l’altra sponda dello Jonio, la Magna Grecia. Dalla società civile a quella politica poco cambia.
La politica pugliese, dal Centrodestra al Centro-sinistra, è monopolizzata dai salentini. Raffaele Fitto, figlio d’arte e presidente della Giunta regionale, è solo l’esempio più visibile. Dietro di lui si muovono decine di sindaci che al di là delle differenze politiche non smettono di sottolineare la comune visione del Salento e del suo futuro. Recente è la loro presa di posizione, avallata dall’economista Gianfranco Viesti e dal presidente della Confindustria regionale, Gianni Mongelli, contro il condono edilizio regionale. Il Salento appare come un’isola politicamente corretta in un mare dove i colpi bassi e i trasformismi sono all’ordine del giorno. Lo storico dell’economia Federico Pirro, per cinque anni consigliere economico dell’ex presidente della Giunta regionale Di Staso, lo riconosce senza mezzi termini: “I politici salentini hanno uno stile e un rispetto per gli avversari politici sconosciuti a Bari e in altre aree della Puglia”.
Una civiltà delle relazioni umane che ha consentito al presidente della Provincia di Lecce, Lorenzo Ria, di costruire una sorta di network tra i 98 Comuni che passa sotto il nome di “modello Salento”. L’idea era apparentemente semplice: valorizzare il patrimonio storico, artistico e culturale per far conoscere questa terra agli italiani e agli stranieri. Correva l’anno 1995. E i media italiani parlavano del Salento per gli sbarchi dei clandestini e la disfida nel collegio di Gallipoli tra Massimo d’Alema e Rocco Buttiglione. La prima fase fu quella pubblicitaria, una campagna aggressiva ma alternativa, con stand allestiti fuori dai supermercati delle principali città del Nord. Poi si passa alla fase due, con il restauro e il recupero delle testimonianze più rappresentative della salentinità: si restaurano chiese (San Francesco alla Scarpa) e teatri (Politeama). Ria rastrella soldi dappertutto: patti territoriali, contratti di programma, fondi comunitari. Non contenta degli stand fuori dai supermarket, la Provincia sponsorizza pure la squadra di calcio, il Lecce, con uno slogan che il presidente si precipita a registrare per paura che qualcuno glielo rubasse: “Salento d’amare”. Ovviamente ognuno fa la sua parte. Il Comune di Lecce, innanzitutto, guidato dall’ex ministro delle Politiche agricole Adriana Poli Bortone. E via via quelli minori, come i nove Comuni della Grecia salentina di cui fa parte Melpignano, 3mila abitanti di cui 500 emigrati nella regione svizzera del Sangallo.
E proprio a Melpignano, nel ’98, l’allora vicesindaco con delega alla Cultura, il funzionario comunale Sergio Blasi, s’inventa “La notte della Taranta”, un happening lungo venti giorni in cui tutti i paesi della Grecia salentina si trasformano in un grande palcoscenico musicale all’aperto: balli, melodie e serenate al ritmo inesorabile del tamburello, suoni ripescati dalla tradizione rurale del ballo della pizzica, quando le giovani contadine, sfinite da una vita di stenti e negazioni, davano di matto. La credenza popolare attribuiva quell’impazzimento alle conseguenze della puntura di una tarantola. Per le “tarantate”, così le chiamavano, c’era solo una terapia: un ballo lungo una notte con sollecitazioni visive e sonore ininterrotte che alla fine le liberava dall’incantesimo. Una tradizione antichissima, quella delle tarantate, raccontata per la prima volta dall’antropologo Ernesto De Martino. Il suo saggio più famoso, La terra del rimorso, fece il giro del mondo. Blasi non ha semplicemente disseppellito una tradizione secolare, ma l’ha attualizzata trapiantando jazz, rock, esperimenti techno e musica etnica. Gigantesche jam session che hanno trasformato “La notte della taranta” in uno degli appuntamenti musicali più attesi dell’anno. La serata finale del 2003 Melpignano sembrava Barcellona: 50mila persone di tutte le età che ballavano, cantavano, saltavano e si abbracciavano sotto il cielo stellato del Salento.
Un record cui se n’è aggiunto un altro: il tetto di 4 milioni di turisti superato nel Salento sempre nello stesso anno. Blasi non s’accontenta: “Se il flamenco è il ballo che identifica la Spagna e il tango l’Argentina, non vedo perché la “pizzica” non possa essere associata al Salento”. Blasi non è un sindaco qualsiasi. Lui, come Ria, è l’esponente della nuova classe dirigente del Sud. “Io non amministro questo paese, lo governo. Melpignano è il primo Comune del Salento ad aver varato la raccolta differenziata dei rifiuti, abbiamo una delle mediateche più attrezzate d’Italia e con una delibera all’unanimità del consiglio comunale abbiamo comunicato alla Regione Puglia che siamo pronti ad ospitare un termovalorizzatore (inceneritore di nuova generazione dei rifiuti, ndr) nel territorio comunale. L’inquinamento? La diossina? No, rischi non ce ne sono. Semmai ci sono vantaggi. I termovalorizzatori sono nel centro di Helsinki e Oslo: perché non potrebbe essercene uno pure a Melpignano?”. Anche Ria, alla fine del suo doppio mandato, sorride soddisfatto.
Il “modello Salento” è la prova che turismo, musica, happening e identità non sono parole buone solo per qualche convegno. I turisti hanno scoperto una terra ai confini dell’Europa piena zeppa di storie appassionanti; i salentini hanno ricominciato ad amare le loro tradizioni dimenticate per decenni. Non è proprio questa, forse, la formula del turismo del Sud prossimo venturo?