L’amor fou della boss col magistrato
di Pasquale Colizzi
da www.unita.it del 28 ottobre 2008
C’è sempre l’anelito del ritorno nella finibus terrae, il Salento come ultimo lembo d’Italia, dove inizia il mare. Unito alla fascinazione per un’infanzia, della vita e dei luoghi, che trascolora in sogno felice, puro, solare. La cinematografia di Edoardo Winspeare è costellata di dichiarazioni d’amore ad una terra di cui «mi piace utilizzare le bellezze tutte intorno». E come un innamorato tradito, ne denuncia gli scempi con l’associazione no profit “Coppula tisa”, che raccoglie soldi per comprare e abbattere eco-mostri, scorie abusive di falso benessere.
Ma Galantuomini, il suo terzo lungo in anteprima al Festival di Roma, è opera solida e matura di un autore che rifugge il rischio di un’auto-ghettizzazione “folk” nei temi e nello stile, di una identificazione forzata e di comodo. E infatti cita Tolstoj: il tuo villaggio è il centro del mondo, racconta il tuo villaggio e racconterai del mondo.
Per questa storia d’amore impossibile tra una boss della Sacra Corona Unita (una strepitosa Donatella Finocchiaro) e un magistrato (l’ottimo Fabrizio Gifuni) in bilico tra il dovere e il cuore, gli sceneggiatori Piva e Valenti hanno scelto un periodo cruciale per il Salento. La fine degli anni Ottanta segnerà infatti uno sfregio nell’anima ancora innocente di quella comunità: nasce una piccola mafia fabbricata in casa raccattando ragazzetti dai bar, per non lasciare ai forestieri (la ‘ndrangheta calabrese) il traffico di sigarette e droga dal Montenegro. Storia effimera per un’organizzazione mafiosa senza radici e tradizione. Che infatti finisce schiacciata e quasi totalmente debellata nell’arco di una decina d’anni.
«Mi sono documentato frequentando Cataldo Motta e Leone De Castris, due magistrati dell’antimafia e salentini che in quegli anni seguirono il fenomeno» racconta Gifuni. Il suo magistrato è un giovane uomo che dopo alcuni anni a Milano torna al Tribunale di Lecce e ritrova una situazione che non credeva possibile.
Di fronte a lui clan che sparano sempre più spesso, per stabilire le gerarchie. E a capo di una cosca Donatella Finocchiaro, che era un’amica d’infanzia: «Una donna di potere dura, violenta, anche spietata, che in un contesto malavitoso accentua i suoi spigoli» spiega l’attrice siciliana, notevole anche nella mimesi delle inflessioni, vista la somiglianza tra il salentino e il dialetto della Sicilia orientale da cui arriva.
Lei risponde sul territorio al potente zio (Giorgio Colangeli in versione Padrino) rifugiato in Montenegro a impartire ordini. In un mondo di uomini, ha il polso per mettere tutti al loro posto. Persino il padre del figlio, un bravo Beppe Fiorello, la prima volta in versione da bullo. Anzi, precisa, «la prima volta che faccio me stesso. Pure nel mio contesto di provincia la malavita l’ho conosciuta nei baretti, ne conoscevo parecchi».
Al Festival ormai è Puglia connection, con la malavita barese nel film di Vicari e questa variante salentina. Qualche mese fa toccò a Fine pena mai. Il regista ha una spiegazione: «La mia regione è apparsa nell’immaginario collettivo da pochissimo: prima il sud era solo Napoli o la Sicilia. Quanto ai Novanta, che ritornano spesso, sono un passaggio cruciale per il Salento». Però poi, ci tiene a sottolineare, «di storia d’amore stiamo parlando, la malavita è solo un contesto».
Con alle spalle una nobile casata inglese finita secoli fà in un palazzo di Depressa, nel leccese – da qui un cognome anomalo nel contesto – Winspeare nel 2000 fu invitato al Sundance con Sangue vivo, primo tra i colleghi italiani. Con quel film da sotto le ceneri riverberò la fiamma della pizzica come simbolo di identità atavica e originale di un territorio, fino ad allora accantonata come vecchiume. Merito anche degli Officina Zoè, gruppo di musicisti e attori per l’occasione, che contribuì a fondare. E pazienza per la mistificazione turistica che ne è derivata, col Salento “terra del rimorso” e del reggae dei Sud Sound System, India o Jamaica d’Italia.
Per gli appassionai di pizzica (e degli Officina Zoè), piccolo ruolo per Lamberto Probo e ultimo cammeo di Pino Zimba, tamburellista simbolo del movimento di riscoperta, ponte tra vecchia e nuova generazione e incredibile faccia d’attore. Scomparso quest’anno a 56 anni ad Aradeo, un paese nel basso Salento, ha avuto una cerimonia degna del Danny di “Pian della tortilla” di Steinbeck: funerale preceduto da un corteo di tamburelli e concluso con un concerto spontaneo innaffiato di vino. Quando si parla di “innocenza perduta” ci si riferisce anche a questo.