L’emigrazione dei lavoratori del tabacco salentini a Civita Castellana
di Vincenzo Santoro, 22 novembre 2008
Civita Castellana è una popolosa cittadina della provincia di Viterbo, famosa per la produzione di ceramiche su scala industriale. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, alcuni proprietari terrieri locali, sfruttando gli incentivi statali, decisero di introdurre nel territorio circostante la coltivazione del tabacco, attirati dal miraggio dei lauti guadagni che il sistema dei monopoli poteva garantire loro. Il tabacco però era una coltura difficile, che richiedeva manodopera specializzata, di cui Civita era sprovvista. Questi proprietari decisero così di rivolgere la loro attenzione al Salento, dove gente capace di coltivare il tabacco ce n’era tanta, e dove i lavoratori della terra vivevano per la maggior parte in condizioni di povertà e sfruttamento, e quindi potevano essere disposti a spostarsi a Civita in cambio di una prospettiva migliore (anche se non di molto). Cominciò così l’esodo di alcune centinaia di tabacchicultori salentini, che lasciarono i loro paesi d’origine per raggiungere il viterbese, in molti casi portandosi dietro anche le famiglie e formando una piccola comunità di emigranti. Dai civitonici venivano chiamati, un po’ dispregiativamente, “i leccesi”.
Questa storia poco conosciuta, che si inserisce in modo originale nel quadro della grande vicenda migratoria che dal Sud spinse verso il Nord Europa prima, e le città industriali del Nord Italia poi, milioni di contadini meridionali in cerca di un futuro migliore per sé e per i propri figli, è raccontata e analizzata nel bel libro di Irene Mancini, I leccesi a Civita Castellana. Storia di emigrazione e di tabacco, da poco pubblicato dalla Biblioteca Comunale civitonica.
Il volume, risultato di una tesi di laurea in Antropologia presso l’Università La Sapienza di Roma (relatore L. M. Lombardi Satriani), ripercorre le vicende storiche dell’insediamento dei “leccesi” a Civita Castellana, prestando particolare attenzione alle dinamiche della non facile integrazione della comunità di origine salentina all’interno del tessuto sociale civitonico. Il folto gruppo di “stranieri” infatti, diverso per lingua, usi e costumi, e dedito a lavori agricoli faticosi e “degradanti”, che i locali non volevano più fare, venne per molto tempo soggetto a una discriminazione sottile che, se pur non raggiunse mai forme eclatanti, lasciò comunque il segno. In particolare, a Civita, il termine “leccesi”, come sottolinea Alfredo Romano – “leccese” anche lui, originario di Collemeto, attuale attivissimo direttore della Biblioteca – nella postfazione, «ha sempre avuto una connotazione negativa, come dire: terroni, paria, incivili, negri eccetera».
Nella sua analisi socio-antropologica la Mancini ha usato in maniera puntuale alcune interviste a protagonisti della vicenda analizzata (tra cui lo stesso Alfredo Romano), che, allegate in appendice arricchiscono ulteriormente un volume prezioso, che ci ricorda, per citare il titolo di un fortunato libro di Gian Antonio Stella, di “quando albanesi eravamo noi”.
Di questa vicenda avevamo parlato nel libro Il Salento levantino. Memoria e racconto del tabacco a Tricase e in Terra d’Otranto, a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, Edizioni Aramirè, Lecce 2005, in cui è contenuta una lunga e approfondita intervista, effettuata nel 2002, a Tina Ricchiuto, che da piccola, nell’immediato dopoguerra, aveva seguito la sua famiglia di lavoratori del tabacco da Tricase, nel Capo di Leuca, verso il viterbese.