di Giacomo Annibaldis
da La Gazzetta del Mezzogiorno di martedì 31 marzo 2009
All’inizio fu l’antidotum tarantulae e il geniale Athanasius Kircher. Si era a metà del Seicento e l’onnivoro gesuita aveva voluto raccogliere i primi esemplari di canti popolari della Puglia: poche battute di un pentagramma che riportavano il ritmo di una pizzica. Questa musica – il religioso aveva sentito dire – era terapeutica e guariva dal morso del ragno. Perciò aveva pregato alcuni suoi confratelli, che operavano in Puglia, di registrarne le note e inviargli documentazione.
Da allora l’antidotum tarantulae divenne un cliché; e non è inconsueto vederne copia in antiche riproduzioni che raffigurano i velenosi ragni salentini insieme a una rudimentale mappa pugliese della diffusione dell’insetto letale e, sopra, una sorta di pergamena con pentagramma segnato dalle note di una tarantella. Era quello l’ideale embrione di un «archivio sonoro» riguardante il tarantismo.
Ma ogni musica ha in sé un messaggio salvifico: anche quelle della devozione e del pellegrinaggio, quelle delle feste e delle tradizioni, quelle del lavoro e del riscatto politico, quelle dei riti e dell’amore…
Dovevano passare tre secoli perché gli etnologi accorressero in Puglia (la regione che Ernesto De Martino indicò come «le nostre Indie») per raccogliere – coadiuvati da nuove tecnologie – quel patrimonio di musiche e di ritmi che stava scomparendo con lo svanire della civiltà contadina. A cominciare fu l’americano Alan Lomax, che – dopo aver evitato la caccia alle streghe del maccartismo – nel 1954 se ne venne in Italia, e quindi anche in Puglia: girava con il mitico pulmino Volkswagen a raccogliere suoni e cantilene. Lo accompagnava l’etnomusicologo Diego Carpitella, che poi tornò in Salento nel ‘59 con Ernesto de Martino e il celebre gruppo d’indagine sul tarantismo.
Il materiale registrato da Alan Lomax e Carpitella è ora consultabile nell’«Archivio sonoro della Puglia», il consistente deposito della memoria popolare, inaugurato ieri presso la Biblioteca nazionale di Bari. Con questa emeroteca sonora viene offerta una grande opportunità agli studiosi di etnologia e di musica popolare, ma anche agli appassionati. Accanto alla documentazione raccolta da Lomax e da Carpitella, confluiscono nell’Archivio anche altre collezioni di riti, di canti, di ritmi popolari di tutta la regione. Dove non solo il Salento (rappresentato, tra gli altri, dal fondo privato di Annabella Rossi che lavorò con De Martino e Carpitella nel 1959 e tornò a interessarsi dei ritmi della taranta anche negli anni seguenti), ma anche gli altri territori della regione occupano un loro rilevante spazio.
Il Gargano e la Capitanata furono oggetto della vasta inchiesta condotta da Giovanni Rinaldi e altri ricercatori già dalla fine degli anni ‘70: i materiali dovevano costituire un archivio di Cultura di Base a Foggia (ma l’esperienza durò solo un triennio). Registravano recite devozionali e canti dei pellegrini verso i grandi santuari dauni (soprattutto l’Incoronata e San Michele), nonché riti stagionali e lavorativi (abbastanza presente le voci di Cerignola, il paese di Di Vittorio). Ma il promontorio sacro e portentoso del Gargano propone l’esplorazione di sorprendenti e inconsueti scenari musicali: come sono i canti e le recitazioni della comunità neo-ebraica di San Nicandro, registrati nel 1964 da Leo Levi. E come è il significativo fondo Profazio, in cui sono conservati documenti inediti riguardanti Matteo Salvatore, il «rapsodo» al confine tra tradizione e creatività personale.
Anche al territorio delle Murge e della Terra di Bari è dedicata una insospettabile documentazione, che va dal fondo Lomax a quello Profazio, a quello vario dell’etnomusicologo Roberto Leydi: canti di Terlizzi, Locorotondo, Grumo…
Tutta questa documentazione, consistente in circa 1500 registrazioni «storiche», sono ora alla portata dei cultori e dei curiosi, grazie alla passione di Vincenzo Santoro e dell’associazione «Altrosud» e all’intesa tra ministero dei Beni culturali e assessorato regionale al Mediterraneo. Nell’Archivio digitale sono stati recuperati, oltre ai fondi privati, anche i fondi conservati nell’Accademia nazionale di Santa Cecilia o nel Centro di Etnografia di Bellinzona (Svizzera), dove è depositato lo sterminato archivio di Roberto Leydi. Ad essi si aggiungono gli apporti, molto più recenti, dei fondi Morabito e Amati-Bagorda.
Ma l’Archivio è un «progetto aperto», hanno sottolineato Domenico Ferraro di «Altrosud» e lo stesso Santoro. È stato costituito per accogliere altre donazioni e, in un secondo tempo, si arricchirà anche di materiale fotografico e audiovisivo.
Una memoria dispersa da «riportare a casa» prima che si smagnetizzi del tutto dalle nostre coscienze. Questa volta è l’innovazione ad allearsi con la tradizione, a tutelarne la voce.