Un fenomeno fra cultura antica e moda attuale. E anche la Biennale di Venezia celebra la scatenata danza salentina
di Alessandra Iadicicco
da La Stampa di sabato 15 agosto 2009
Lunga la notte della taranta, lunghissima l’onda del tarantismo. «Neotarantismo», dice qualcuno e l’espressione, che ha l’imprimatur dei musicologi, è corretta. Ma dopo oltre 15 anni di revival del fenomeno – cioè le danze e le musiche diffuse dal Salento pugliese nel mondo al ritmo sfrenato della pizzica tarantata -, la novità si segnala come un «neo» sulle periodizzazioni degli specialisti. Pizzica e mozzica dalla notte dei tempi la tarantola: il ragno peloso che con il suo pungiglione inietta un veleno di cui il corpo si libererà solo ballando. Impossibile però liberarsi dell’impressione che la bestiaccia nera lascia di sé su tarantella e Tarentino. Morde e rimorde in quella Terra del rimorso su cui Ernesto De Martino, per formulare il suo studio dal titolo tanto indovinato, per primo e con impareggiabile perspicacia osservò le cicatrici dell’incisione e diagnosticò i segni profondissimi di un’afflizione.
Che non fosse una puntura epidermica, una ferita di superficie, lo studioso napoletano – storico, crociano, incline per orientamento e formazione a inserire i sussulti velocissimi della musica-magia-malattia popolare nel grande respiro dei tempi lunghi – l’aveva capito al volo. Perciò quando, esattamente mezzo secolo fa, nell’estate del ’59, partì alla volta del Salento per compiere le sue ricognizioni, portò con sé una nutrita squadra di collaboratori. Viaggiavano con lui un medico, uno psichiatra, una psicologa, uno storico delle religioni, un’antropologa culturale, un fotografo, un documentarista cinematografico e l’etnomusicologo Diego Carpitella. Compagnia abbastanza variopinta da far saltare all’occhio la vistosa novità dell’impresa. Una ricerca multidisciplinare sul campo. Una spedizione da pionieri dell’antropologia.
«L’équipe di De Martino si trattenne in Puglia solo qualche settimana», nota il musicologo Maurizio Agamennone, docente a Ca’ Foscari, allievo di Carpitella, studioso di De Martino e curatore con Luca Francesconi dell’«Omaggio» che gli sarà dedicato a settembre al Festival di Musica contemporanea della Biennale. Eppure, in poco più di venti giorni, il gesto rivoluzionario di cogliere – a più mani, e nella prospettiva di molti sguardi – «la musica come espressione di un intero universo culturale», continua Agamennone, era compiuto. Di quel piccolo mondo antico, la società delle campagne meridionali Anni Cinquanta, la taranta esprimeva i gusti estetici, le trance estatiche, i culti religiosi e pagani. Le credenze e le paure ancestrali. Il senso dell’identità e il sentimento dell’estraneo. I disagi sociali e i loro rimedi. Il malessere esistenziale e la sua cura. La musica «somministrata», dice Agamennone descrivendo la meloterapia domiciliare, dal gruppo dei musicanti che visitava in casa la «tarantata», la donna punta dal ragno e caduta in preda al male di vivere, era «il vettore che metteva in movimento il corpo inerte, sofferente, estraneo all’ambiente. Lo riscuoteva con la danza e lo riportava alla vita».
A tutti gli effetti, una catarsi. La recitazione di un mito fondativo. Officiato nel rispetto di codici precisi. I colori della scena e la periodicità stagionale delle ricadute. Il gioco dei ruoli: maschili e femminili, nettamente divisi in una società feudale, patriarcale, maschilista e sessuofoba dove le donne erano vittime del malessere ma fautrici dell’espiazione dal rimorso, stregonesche guaritrici depositarie di sapienze erboristiche ignorate dal medico. E il repertorio dei brani: danze e marce funebri, scherzi e lamentazioni, ninne nanne e canti agricoli. «Un flusso sonoro – racconta Agamennone – che impregnava di sé le masserie e gli spazi aperti di quella civiltà rurale e lontana». Lontana, già. Ma la notte della taranta, dalle tenebre del Medioevo e a dispetto degli esorcismi, prosegue fino a qui. Sull’onda del suo ritorno, sollevata con fragore dai primi Anni Novanta, conquista la partecipazione del pubblico internazionale. Come nota l’antropologo Paolo Apolito che, docente a Roma III, ha messo a fuoco il tarantismo da una parte e dall’altra della cattedra. Da studioso spiega con quanta lungimiranza De Martino abbia collocato il fenomeno «in una lunga diacronia, e su uno sfondo non solo contadino». Come ne abbia visto «le origini mediterranee arcaiche» e «il carattere dionisiaco».
Il corpo del suono, titolo del 53° Festival di Musica contemporanea, non potrebbe adattarsi meglio che alla taranta. Privata, certo, del suo spessore se ridotta a puro folclore. «Il Settecento illuminista e la politica di evangelizzazione delle campagne successiva al Vaticano II hanno inferto colpi mortali al simbolismo della pizzica», dice Apolito. Spogliata dei suoi simboli, non pare che una nuda patologia isterica. Redenti gli umili, i superstiziosi e gli ignoranti cui venne attribuito, il culto magico si trasforma in un’idolatria apocrifa di Paolo, il santo che sopravvive al morso delle serpi e conosce l’antidoto ai veleni. Eppure, complici la moda, la world music e una certa imprenditorialità spettacolare, ammette disincantato Apolito, la tarantola rimorde e rimette in circolo emozioni potenti. «Lo vedo in aula, tra i miei studenti. È assai eloquente che nei ritmi della pizzica, sia pur contaminati con il “bum bum” dei rave, i giovani si riconoscano immediatamente».
E come vede un antropologo questa rinascita? «La spiegazione classica non vale più. C’è sicuramente l’impulso di uno slancio vitale, una forma di dionisismo, un desiderio di aggregazione. C’è un recupero nobile della propria identità da parte dei gruppi pugliesi, centinaia, che riportano in auge il repertorio tradizionale. E c’è, in un orizzonte ben più allargato, mondiale, una riaffermazione dell’identità locale come resistenza alla globalizzazione. Su questo punto, non solo qualche politico intelligente, ma molti studiosi fanno leva dagli Anni Novanta. E in questo senso La terra del rimorso di De Martino è stata riletta come un libro di culto».